Gandhi. 76 anni fa l’omicidio del mahatma
(Gandhi) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Persone e Storie
Il 30 gennaio 1948 un fanatico estremista indù poneva fine alla vita del Mahatma Gandhi, padre dell’India indipendente e della non violenza.
SOMMARIO
- Gandhi. Assassinato da un Indù
- Gandhi. Un sogno infranto
- Gandhi. La “debolezza” secondo gli indù
- Gandhi. Un’eredità scomoda per alcuni
- Gandhi. E se non fosse stato assassinato?
- Gandhi. Un insegnamento senza tempo
Mohandas Karamchand Gandhi è in modo unanime considerato il padre dell’India indipendente.
Fu proprio grazie al suo impegno che la Corona Britannica finì con il concedere l’indipendenza al vice-regno dell‘India.
Gandhi è anche e forse soprattutto il padre della non violenza, colui al quale si ispirano un po’ tutti i movimenti pacifisti.
Gandhi. Assassinato da un indù
Contrariamente a quanto si usa fare abitualmente questa volta partiremo dalla fine e non dall’inizio della vita del Mahatma Gandhi.
Ovvero da quel 30 gennaio del 1948 quando un fanatico estremista indù commise uno degli omicidi più celebri della storia.
Celebre e inspiegabile peraltro, perché già solo l’idea di assassinare il padre della non violenza fa rabbrividire chiunque.
Perché Nathuram Godse, questo il nome dell’omicida, decise di assassinare il mahatma?
La ragione è tanto semplice quanto elementare: fanatismo.
Gandhi aveva lottato per l’indipendenza dell’India ma gli estremisti indù non gli perdonavano le concessioni fatte al Pakistan.
Era giocoforza che prima o poi qualche fanatico compisse il gesto estremo e fu Godse a sparare, ma probabilmente non era l’unico ad averci pensato.
L’omicida rischiando il linciaggio da parte della folla preferì farsi catturare dalla polizia e fu messo a processo.
Nel 1949 venne giustiziato a morte nonostante la ferma opposizione dei seguaci e discepoli di Gandhi che in ossequio alla teoria della non violenza aborrivano la pena capitale.
Gandhi. Un sogno infranto
Quando Godse sparò a Gandhi il 30 gennaio 1948 l’India era diventata uno stato indipendente da pochi mesi.
Esattamente dal 15 agosto del 1947, ma quella data che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova era fu anche l’inizio di scontri fratricidi.
Contrariamente alle idee promosse dal mahatma che avrebbe voluto un’India unica, abitata da mussulmani e indù le forze politiche decisero altrimenti.
Quella che oggi conosciamo come India era allora abitata prevalentemente da popolazioni indù.
Mentre la regione orientale del Bengala a est e quella del Pakistan a ovest avevano una maggioranza mussulmana.
Con la spartizione in due stati distinti vi fu un immenso esodo di popolazioni.
Indù che lasciavano i due territori del Pakistan Occidentale e Orientale per rifugiarsi in India.
Mussulmani che abbandonavano la neonata India per andare dai correligionari in Pakistan.
Nel mezzo scontri e violenze inaudite.
Gandhi. La “debolezza” secondo gli indù
Fino all’ultimo il mahatma cercò di evitare la scissione in due stati, senza peraltro riuscirvi.
Di fronte all’imperversare dei disordini e degli scontri il mahatma adottò la tecnica dello sciopero della fame.
La notizia che il mahatma stava deperendo a causa dell’astinenza da cibo fece il giro dell’India e del Pakistan.
E almeno per un po’ i tumulti si acquietarono.
Ma la situazione era tesa e bastava anche solo un piccolo incidente per scatenare di nuovo violenze da una parte e dall’altra.
Gli estremisti indù non gli perdonarono mai le concessioni, a loro dire, fatte ai mussulmani.
Secondo la loro visione il maestro aveva tradito la causa dell’indipendenza dell’India favorendo almeno in parte gli acerrimi nemici mussulmani.
Va da sé che un simile ragionamento non aveva alcun fondamento nella realtà.
Se Gandhi ha sbagliato non è stato nel credere nel sogno dell’indipendenza e della coesistenza tra indù e mussulmani.
Piuttosto nel pensare che la classe dirigente indiana (indù e mussulmana) fosse all’altezza di quel compito.
Gandhi. Un’eredità scomoda per alcuni
A partire dagli stessi indiani che hanno dovuto fare i conti con una vera e propria leggenda come quella di Gandhi.
Se l’India fin dalla sua nascita non si è mai schierata, almeno ufficialmente, nello scacchiere internazionale in parte lo si deve anche a Gandhi e al suo retaggio politico.
La teoria del non allineamento è stata per decenni accostata a quella della non violenza di gandhiana memoria.
La verità probabilmente è meno aulica e un po’ più pragmatica di così.
Dopo l’indipendenza l’India era un paese povero, arretrato per lo più e di scarso peso internazionale.
Scegliere di non schierarsi nella contrapposizione fra blocchi ha permesso all’India di ricavarsi un piccolo spazio di manovra in politica estera.
Specialmente nella regione indo-pacifica, dove ha da sempre un vicino scomodo come la Cina.
Gandhi. E se non fosse stato assassinato?
Cosa sarebbe accaduto se quel 30 gennaio 1948 Godse non avesse sparato al mahatma?
Tutti sappiamo che la storia non si fa con i se e con i ma, dunque nessuno può dire cosa sarebbe accaduto.
Di sicuro il mondo avrebbe avuto ancora per un po’ (Gandhi non era più giovanissimo peraltro) una grande anima dispensatrice di idee universali.
Questo senza dubbio.
Ma se poi questo avrebbe cambiato il destino dell’India nessuno può dirlo con certezza.
Ma è ragionevole ipotizzare che non sarebbe cambiato poi molto.
Questo sulla base di cosa non riuscì a impedire dopo l’indipendenza dal Regno Unito.
Troppo spesso la sua figura e stata mitizizzata, quasi come una specie di super eroe della non violenza.
In realtà la forza del mahatma va ricercata invece nella sua assoluta normalità.
Gandhi. Un insegnamento senza tempo
Ciò che il mahatma ci ha lasciato in eredità va al di là delle questioni politiche dell’India e del Pakistan.
E forse anche ben oltre la teoria della non violenza peraltro troppo spesso mal interpretata.
Ciò che il mahatma ci ha indicato è che la forza del cambiamento nasce dentro di noi, dalla determinazione a non rinunciare a fare la cosa giusta.
Anche a costo di doverne pagare il prezzo, anche quando il nostro apporto sembra non cambiare nulla nel corso della storia.
Ogni gesto compiuto nel nome della giustizia ci conduce un passo in avanti verso un mondo migliore.
E non serve essere eroi per compiere simili azioni, basta la forza di volontà e la determinazione a voler cambiare il mondo.
Foto di marian anbu juwan da Pixabay
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Pacifismo ipocrita sulla pelle degli ucraini
(Pacifismo) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Politica e Geopolitica
La guerra in Ucraina ha riportato alla luce un annoso dibattito fra i pacifisti senza se e senza ma e chi invece sostiene che la pace la si garantisce anche attraverso un’adeguata preparazione militare (si vis pacem para bellum).
SOMMARIO
- Pacifismo. possibilità o utopia?
- Pacifismo. Il vero senso della non violenza
- Pacifismo. Il mondo unificato
- Pacifismo. Non quando è sulla pelle degli altri
- Pacifismo. Aumentare la spesa militare per avere più pace?
Se i primi, i pacifisti, rifiutano l’uso delle armi e nello specifico caso dell’Ucraina rifiutano la possibilità di inviare anche armamenti difensivi al governo di Kiev, i secondi vorrebbero aumentare le spese militari e investire in armamenti almeno il 2% del PIL nazionale.
Vista da questa prospettiva sembrerebbe una battaglia ideologica senza alcuna possibilità di trovare un punto d’incontro, una soluzione reale.
Pacifismo, possibilità o utopia?
Vi è però un altro modo di guardare le cose, magari slegandosi dall’emotività del momento e ragionando con il metro della storia più che della cronaca.
Partiamo con il dire che siamo tutti d’accordo nell’affermare che l’uso delle armi dovrebbe essere escluso a priori, che nessuno dovrebbe trovarsi nella condizione di doversi difendere perché nessuno dovrebbe poter attaccare, aggredire militarmente altri paesi o territori o popolazioni.
Detto questo, che come aspirazione è senz’altro molto alta e condivisibile, c’è la realtà dei fatti.
Allo stato attuale delle cose nel mondo non è pensabile che ciò possa capitare e dunque occorre accettare il fatto che qualcuno, stato o gruppo terroristico che dir si voglia, sta usando le armi o ha intenzione di usarle o minaccia l’uso della forza.
Preso atto di questa realtà la questione è come ci si comporta con tali stati o gruppi terroristici?
Si segue l’idea del pacifismo a tutti i costi e si resta inermi?
Nel caso dell’Ucraina vuol dire restare a guardare mentre i russi massacrano anche i civili senza alzare un dito.
È giusto, è eticamente giusto?
Pacifismo. Il vero senso della non violenza
Fin da piccolo ho sempre ammirato la figura del mahatma Gandhi e ne ho fatte mie le idee di non violenza anche nelle battaglie per la giustizia e la verità.
Ma ricordo anche che Gandhi non ha mai detto che non violenza significa subire la violenza altrui senza far nulla.
Non violenza è rifiutare l’uso della forza come mezzo di risoluzione dei problemi, ma se è qualcun altro ad aggredirti tu hai tutto il diritto di difenderti, né più né meno di quanto dicono la maggior parte dei codici penali di quasi tutto il mondo, stando attenti alla proporzionalità della risposta rispetto all’offesa ricevuta.
Nel caso di un’aggressione personale se uno mi minaccia con una pistola e gli tiro un cazzotto è senz’altro legittima difesa per la legge, ma lo è anche moralmente.
Non è più legittima difesa se uno mi da uno spintone e io gli sparo un un fucile mitragliatore.
Se poi uno mi minaccia di farmi del male non sono mai autorizzato a “farmi giustizia” da solo.
Ancor meno se sono io a pensare che lui mi stia minacciando ma in realtà l’altro non ha fatto nulla in tal senso (il riferimento alla Russia di Putin è voluto!).
Chiarito questo e tornando al problema ucraino che cosa dovrebbero fare gli stati democratici di fronte a un’ingiusta aggressione russa nei confronti dell’Ucraina?
Lasciare che i missili russi devastino le città e uccidano non solo i soldati ma anche i civili indifesi?
Non commento le affermazioni di chi, anche in ambito politico-istituzionale, afferma che gli ucraini dovrebbero arrendersi altrimenti il prezzo della benzina arriverà alle stelle.
Come se la liberà di un popolo fosse sacrificabile per una tanica di carburante in più!
Essere pacifisti non significa essere rinunciatari e lasciare al più forte campo libero.
Perché non agire, non intervenire, anche militarmente, questo significa: lasciare campo libero a chi invece non ha remore a usare la forza, a chi se ne infischia del pacifismo e usa le armi per i suoi scopi, legittimi o meno che possano apparirgli.
Al contrario, essere pacifisti, veri pacifisti, significa costruire le condizioni perché un domani nessuno possa più usare la forza e, per esempio, invadere uno stato vicino con qualsivoglia scusante.
Come?
Pacifismo. Il mondo unificato
Io un’idea ce l’ho ed è forse un po’ prematura rispetto alle condizioni storiche ma sono sicuro che con il tempo sempre più persone concorderanno con me.
Che cosa ha impedito ai paesi europei di farsi la guerra per quasi ottant’anni e possibilmente per non scendere mai in conflitto fra di loro nemmeno nel futuro?
L’unione, che noi adesso chiamiamo Unione Europea, che prima l’abbiamo conosciuto come CEE e prima ancora come MEC.
Se vi è vera integrazione allora il rischio del conflitto si riduce drasticamente, non dico annullato del tutto, ma reso talmente improbabile da essere prossimo allo zero.
Perché gli interessi comuni scoraggerebbero comunque colpi di testa, perché ci sarebbero deterrenze interne, e non tanto militari quanto economiche, culturali, di interesse nelle più varie accezioni.
La soluzione sarebbe dunque un mondo unificato sotto un governo universale tipo film di fantascienza?
Sì, ritengo che questa è, e non dico sarebbe ma uso apposta il presente indicativo “è”, l’unica strada perché la pace possa regnare ovunque e sempre.
Qualunque altra soluzione non potrà che essere nella migliore delle ipotesi transitoria, parziale, fallace se non addirittura controproducente come nel caso dell’Ucraina.
Non fornire armamenti a chi si sta difendendo è un crimine, perché sarebbe un voltarsi dall’altra parte e dire in nome di un presunto pacifismo che non possiamo macchiarci di vite umane fornendo armi senza tener conto che ci stiamo macchiando di vite umane lasciando che la Russia uccida indiscriminatamente cittadini ucraini, militari e civili, che non non hanno chiesto di essere in conflitto, che non sono scesi in guerra ma che sono stati aggrediti.
Se mentre sto camminando per strada vedo qualcuno che picchia o violenta una persona e non intervengo, magari anche solo chiamando le forze dell’ordine, sono moralmente (e legalmente) responsabile di quella violenza.
Inviare armi agli ucraini che difendono la loro terra, le loro città, il loro popolo, la loro libertà non è solo giusto, ma è anche un dovere morale che abbiamo noi occidentali se vogliamo continuare a chiamarci democratici e civili.
Pacifismo. Non quando è sulla pelle degli altri
Non stupisce che a essere contrario all’invio di armi e a nuove spese militari sia il Vaticano e Papa Francesco in particolare.
Il Sommo Pontefice è una guida spirituale e tenta fino all’ultimo di riportare all’uso della ragione i potenti (purtroppo con ben poche possibilità di successo).
Quello che stupisce è che a pensare che non si debbano inviare armi siano molti rappresentanti politici ai quali verrebbe da chiedere loro: e se fossimo noi al posto degli ucraini?
E fosse stata invasa l’Italia e paesi come Francia e Germania si voltassero dall’altra parte invocando il pacifismo?
Personalmente sono rimasto colpito dalla posizione degli ex partigiani, contrari all’invio di armi. Trovo quantomeno strana la loro posizione, visto quanto hanno fatto i partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale per tentare di scacciare l’occupante nazista.
Tra l’altro c’è appena stata la ricorrenza delle Fosse Ardeatine, reazione assurda dei nazisti all’attentato di via Rasella del 1943 dove persero la vita trentatré soldati tedeschi.
A quei partigiani che oggi dicono no all’invio di armi in Ucraina verrebbe da chiedere perché allora fecero quell’attentato, e molti altri peraltro, che si sapeva avrebbero portato a ripercussioni anche sui civili da parte dei nazisti?
Pacifismo. Aumentare la spesa militare per avere più pace?
Tornando al tema di partenza, la dicotomia fra pacifismo e aumento delle spese militari in realtà non esiste.
Oggi, in questo frangente storico, l’aumento delle spese militari non è solo legittimo ma anche doveroso per preservare gli spazi di libertà e democrazia che troppe guerre e troppi morti nel secolo scorso ci hanno lasciato in eredità.
Come impone il Trattato Atlantico la forza militare deve avere solo scopo difensivo e mai offensivo e contemporaneamente occorre che attraverso la diplomazia ma anche tutto il soft power possibile si riducano nel mondo gli spazi per le autocrazie o le dittature vere e proprie e nel contempo si creino sempre più legami e vincoli reciproci fra gli stati in modo da rendere sempre meno conveniente, e dunque sempre più improbabile, la nascita di nuovi conflitti.
Un giorno, che purtroppo so già di non poterci essere per vederlo, l’umanità si renderà conto che solo unendosi potrà salvarsi e allora sì che le spese militari potranno essere ridotte se non addirittura annullate perché non ci sarà più nessuno contro cui combattere.
Ma sino ad allora non parliamo di pacifismo senza se e senza ma, piuttosto chiamiamolo con il vero nome: o martirio se ci tocca in prima persona e siamo disposti a pagarne il prezzo, o ipocrisia se a pagarne le conseguenze sono solo altri lontani da noi!
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