Dyatlov, A Mystery Pass That Has Never Been Solved
(Dyatlov) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
Russia, versante orientale dei Monti Cholatčachl’ – che in lingua Mansi (lingua obugrica parlata in Russia, nel distretto autonomo degli Hanti e dei Mansi) significa “Montagna dei Morti” – è nel freddo e nel silenzio di questo luogo che si dipanano gli inspiegabili eventi che vedono protagonisti nove escursionisti ritrovati privi di vita, nel 1959.
SOMMARIO
- Dyatlov. Come inizia l’enigmatica storia
- Dyatlov. Un’esplorazione che sembrava tranquilla
- Dyatlov. Le ricerche
- Dyatlov. Il ritrovamento
- Dyatlov. Il disgelo restituisce altri corpi
- Dyatlov. Ma chi o cosa ha ucciso i ragazzi?
- Dyatlov. Tesi, supposizioni e leggende
- Dyatlov. Nel 2019 si riapre l’inchiesta
Solo più tardi il valico di montagna, palcoscenico della drammatica sciagura, verrà rinominato: “Passo di Dyatlov”, in memoria del capo della spedizione Igor Dyatlov.
Quella che doveva essere un’escursione impegnativa e bellissima, si è tramutata in uno dei cold-case più inquietanti che la storia dell’alpinismo mondiale ricordi.
Dyatlov. Come inizia l’enigmatica storia
Il 23 Gennaio 1959 inizia il viaggio.
Le notizie certe registrate prima dell’incidente, annotano che il 25 Gennaio la compagnia arriva in treno sino a Ivdel (città della Russia Siberiana Nordoccidentale).
Per poi spostarsi in camion fino a Vizhaj – l’ultimo distaccamento abitato.
Il 27 Gennaio il gruppo coordinato da Igor Dyatlov, prosegue l’escursione.
La comitiva è composta da esperti sciatori di cui otto sono uomini e due sono donne.
Tutti provenienti dall’Istituto Politecnico degli Urali di Ekaterinburg (nove studenti e un professore di sport).
Affrontano un’escursione importante e ostica che li avrebbe dovuti condurre sino al Monte Otorten.
Il percorso scelto per quel periodo dell’anno è classificato di terza categoria ovvero, il più difficile.
Tra tutti i partecipanti solo uno si salva, in quanto un improvviso malore lo costringe a ritirarsi.
Il suo nome era Jurij Efimovič Judin, aveva 22 anni.
Si allontanerà dal gruppo il giorno dopo e sarà l’unico superstite.
Da quel momento la compagnia sarà formata da 9 membri.
Dyatlov. Un’esplorazione che sembrava tranquilla
Le macchine fotografiche, le cineprese e i diari ritrovati sul luogo del massacro sembrano dire qualcosa.
Testimoniano che il gruppo di escursionisti durante i primi cinque giorni di viaggio, aveva esplorato in totale tranquillità luoghi bellissimi e magnetici come: foreste e laghi ghiacciati.
Circondati da una natura vigorosa e polare.
Il clima tra i viaggiatori era sereno e goliardico.
Nulla sembrava presagire quello che sarebbe accaduto.
Il 31 Gennaio arrivano sul bordo di un altopiano dove si preparano per iniziare la salita.
Organizzati al meglio, depositano anche scorte di cibo ed equipaggiamento validi da utilizzare durante il ritorno.
Il 1° Febbraio iniziano a percorrere il passo, ma una tempesta di neve intensa e minacciosa capace persino di disorientarli, li obbliga a deviare verso Ovest…
Verso la Montagna dei Morti.
Una tormenta che interromperà per sempre ogni tipo di comunicazione e notizia sul e dal gruppo.
Dyatlov. Le ricerche
Dyatlov aveva dichiarato che appena rientrati a Vizhaj avrebbe telegrafato alla loro associazione sportiva e alla famiglia.
Per rendere noto che la spedizione stava proseguendo senza problemi.
Mentre i giorni passavano, nessuno nell’immediato – vista la difficoltà dell’itinerario intrapreso e gli scarsi mezzi di comunicazione presenti a quel tempo- si allarmò.
Ma quando l’assenza di trasmissioni superò i giorni di ritardo accettabili e consueti, la preoccupazione portò anche i parenti dei ragazzi a sollecitare l’intervento dei soccorsi.
Interventi che vennero organizzati e fatti partire 25 giorni dopo.
Inizialmente parteciparono alle ricerche solo volontari tra studenti e professori.
Più tardi vennero coinvolti l’esercito e la polizia che integrarono e supportarono le ricerche della comitiva anche con aeromobili.
Dyatlov. Il ritrovamento
È il 26 Febbraio quando viene ritrovata la tenda della comitiva, pesantemente compromessa e squarciata dall’interno.
Sin da subito si denota una anomalia in quanto l’accampamento – senza ragione logica alcuna – è collocato su un pendio ghiacciato e non nella foresta.
Come invece sarebbe stato più ideale e consono alle necessità del team.
Seguendo le numerose impronte che conducono verso il bosco – a pochi metri di distanza dal campo, sotto un albero di cedro – i soccorritori ritrovano i resti di un fuoco e i primi due cadaveri.
Sono quelli di Jurij Nikolaevič Dorošenko e Jurij Alekseevič Krivoniščenko.
Entrambi i corpi sono privi di vestiario (indossavano solo la biancheria intima) e sembrano essere deceduti per ipotermia.
Sui due poveri ragazzi non si evidenziano tracce di traumi o ferite visibili a occhio nudo.
Poco tempo dopo vengono rinvenuti anche i corpi di Igor Alekseevič Djatlov, Zinaida Alekseevna Kolmogorova e Rustem Vladimirovič Slobodin.
Vengono ritrovati tra il campo base e l’albero di cedro che ha custodito i corpi delle prime vittime.
Dagli esami autoptici effettuati sui cadaveri, i medici dichiarano che la morte per ipotermia sembra essere la diagnosi più plausibile.
Sposando questa tesi, i medici declassano l’importanza della frattura cranica rinvenuta su uno dei cadaveri ritrovati.
Gli inquirenti decidono anche che la carne ritrovata sulla corteccia del cedro, come alcuni suoi rami spezzati fino ad un’altezza di 4 metri, non abbiano necessità di trovare spiegazione e connessione valida, che possa far luce sull’incidente.
Dyatlov. Il disgelo restituisce altri corpi
Si dovranno attendere lo sciogliersi della neve e del ghiaccio – per un tempo utile di due mesi – affinché la montagna restituisca i corpi degli altri componenti del gruppo.
Ovvero quelli di Nikolaj Vasil’evič Thibeaux-Brignolles, Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, Ljudmila Aleksandrovna Dubinina e Aleksandr Sergeevič Kolevatov.
I resti vengono ritrovati il 4 maggio in un burrone dentro il bosco, tutti completamenti vestiti.
Al contrario dei primi, quello che raccontano i cadaveri degli ultimi è impressionante e angosciante perché i corpi riportano importanti fratture craniche e costali.
Sul cadavere di una delle due ragazze era stata divelta la lingua e strappati via gli occhi…
Una scena da brividi che narra una storia angosciante, intrisa di violenza e mistero.
Una vicenda che capovolge e annulla le tesi finora espresse sia dagli investigatori impegnati nelle indagini che dai medici coinvolti nelle necroscopie.
Dyatlov. Ma chi o cosa ha ucciso i ragazzi?
La natura ha restituito i corpi di tutti i membri della spedizione.
Gli elementi raccolti provano che quanto accaduto sulla Montagna della Morte si tinge di un mistero difficile da chiarire.
Eppure le indagini aperte dalle autorità russe si chiuderanno in un tempo veramente breve, vista la complessità dell’evento e il mistero che aleggia.
L’inchiesta ufficiale attribuisce la causa della tragedia del Passo Dyatlov a “Una Forza Naturale Misteriosa e Sconosciuta”.
Gli indizi raccolti provano che i ragazzi hanno tagliato la tenda dall’interno per fuggire come se qualcuno (o qualcosa) di estremamente pericoloso, fosse lì con loro e dal quale dovevano allontanarsi il più in fretta possibile.
Inoltre il vestiario della comitiva presenta un alto tasso di radioattività e sulla scena dell’incidente sono stati rinvenuti pezzi di metallo, mai ufficialmente identificati.
I medici, per cercare di spiegare cosa abbia massacrato il gruppo, paragonano le ferite riportate dai cadaveri a quelle dei coinvolti negli incidenti stradali.
Una forza d’impatto mostruosa, ma che non ha lasciato segni evidenti.
Niente ematomi, escoriazioni o ferite lacero contuse.
L’impeto dell’urto ha procurato traumi interni irreversibili.
Solo il volto di una delle due ragazze è stato brutalizzato con la rimozione degli occhi e l’estirpazione della lingua – l’autopsia non riuscirà mai a stabilire se la violenta rimozione fu effettuata pre o post-mortem.
Si pensa anche che i cadaveri ritrovati senza indumenti siano stati colpiti dal fenomeno dell’undressing paradossale.
Ovvero: l’irragionevole svestizione che vede protagonisti i soggetti in ipotermia i quali spogliandosi, avvertono una (illogica quanto illusoria) sensazione di riscaldamento. Percezione in realtà prodotta dall’alternarsi della vasocostrizione e della vasodilatazione che conducono il soggetto in ibernazione a percepire calore restando senza vestiti, mentre in realtà la temperatura corporea continua a precipitare.
Dopo il fenomeno dell’undressing paradossale, le vittime di ipotermia assumono la posizione a quattro zampe per strisciare sul terreno, per poi finire in posizione fetale e morire.
Forse anche i primi corpi ritrovati sono stati colpiti da questo fenomeno?
Si è infatti arrivati a supporre che gli altri ragazzi della compagnia abbiano poi utilizzato i vestiti di cui si sono liberati i propri compagni per cercare calore e riparo.
Perché, dalla posizione del ritrovamento dei corpi, si è presupposto che una parte del gruppo stesse provando a rientrare all’accampamento, prima di rimanere ucciso.
Il mistero che avvolge questa storia si amplifica con elementi che sfiorano il surreale e trascinano l’incidente al Passo di Dyatlov verso racconti oscuri e teorie naturalistiche.
Dyatlov. Tesi, supposizioni e leggende
Con l’archiviazione (frettolosa) dell’inchiesta, si solleva sempre più curiosità e desiderio di conoscere una verità che non sembra assolutamente essere stata chiarita dalle indagini.
Indagini che assumono agli occhi del mondo i contorni sbiaditi di un “segreto di Stato”.
Gli anni passano, ma la tragedia del Passo di Dyatlov non viene dimenticata, anzi…
Si moltiplicano le teorie più disparate che vanno da una valanga, fino all’attacco alieno.
Vengono ipotizzati pericolosi esperimenti militari clandestini.
Testimonianze di altri esploratori coinvolti in escursioni in quella stessa zona e periodo, focalizzarono le teorie sull’avvistamento di “sfere arancioni” nei cieli dei Monti Urali.
Altri non erano se non missili balistici R-7 sparati come esercitazione speciale dall’esercito.
Non si può dimenticare la supposizione che vede protagonisti un gruppo d’indigeni Mansi.
Responsabili di aver aggredito il gruppo di ragazzi in modo efferato e brutale perché colpevoli di aver sconfinato nella loro terra.
Si ipotizza addirittura che dietro alla morte dei giovani ci sia Almas, il mostruoso uomo delle nevi.
Insomma si moltiplicano le tesi, le storie sussurrate e si favoleggiano misteri e incredibili dinamiche.
Ma ai caduti e ai rispettivi familiari continua a mancare una concreta verità, plausibile e meritevole tanto da poter far riposare in pace le vittime e dare tregua ai loro cari.
Intorno agli anni ’90 i fascicoli dell’inchiesta vennero desegretati facendo emergere nuovi indizi utili a perorare un’altra ipotesi che vede coinvolto l’utilizzo di una potentissima quanto ignota arma segreta russa.
Nell’Ottobre del 2013 Donnie Eichar pubblica il suo romanzo “Dead Mountain: The Untold True Story of the Dyatlov Pass Incident” nel quale ripercorre il tragico incidente del Passo di Dyatlov.
Nel libro suggerisce la tesi della “tempesta perfetta”- un raro fenomeno naturale di una potenza talmente tanto devastante da essere in grado di creare numerosi micro-tornado e generare ultrasuoni impercettibili da orecchio umano.
Ultrasuoni in grado di alterare lo stato psico-motorio dei ragazzi, fino a compromettere la loro stabilità e lucidità inducendoli di fatto, a fuggire dalla tenda verso l’oscurità e la morte.
Dyatlov. Nel 2019 si riapre l’inchiesta
Gli studiosi chiamati a cercare di fare (finalmente) luce sulle vere cause della vicenda sono Johan Gaume, professore alla Scuola Politecnica Federale di Losanna e Alexander Puzrin del Politecnico di Zurigo.
Attraverso i moderni strumenti a loro vantaggo e ricreano il possibile scenario di quella famosa notte del 1° Febbraio.
I due esperti dichiarano che solo una valanga di enormi proporzioni, può considerarsi la vera causa della tragedia sul Passo di Dyatlov.
Teoria che venne subito presa in considerazione anche dagli esperti, 63 anni fa.
Quello che Gaume e Puzrin portano in evidenzia è che i giovani – pur essendo degli esperti alpinisti – vennero ingannati dalla conformazione del territorio dove decisero di accamparsi.
Picconando la tenda in quel luogo e tagliando la neve per poter fissare il proprio campo base, hanno dato inconsapevolmente inizio allo smottamento che si è trasformato dopo poco in una slavina che li travolse e uccise.
“Se non avessero tagliato il pendio, questa tragedia non si sarebbe consumata” (Alexander Puzrin).
Quest’ultima ipotesi non è stata accolta con molto clamore o giubilo:
“Le persone non vogliono credere che sia stata una valanga. È una spiegazione troppo normale” (Johan Gaume)
Dopo tutti questi anni intorno all’incidente del Passo Dyatlov continuano ad aleggiare mistero e supposizioni.
Come se niente e nessuno fosse capace di spiegare in modo concreto, cosa capitò veramente:
“La verità è che nessuno sa cosa accadde davvero quella notte. Ma quanto abbiamo scoperto indica che l’ipotesi valanga è assolutamente plausibile” (A. Puzrin)
L’incidente del Passo di Dyatlov consolida e conferisce alla natura il ruolo di unica e imperitura testimone e (forse) carnefice delle infauste sorti di:
Igor Alekseevič Djatlov , capospedizione, 23 anni, Zinaida Alekseevna Kolmogorova, 22 anni
Ljudmila Aleksandrovna Dubinina, 23 anni , Aleksandr Sergeevič Kolevatov, 24 anni
Rustem Vladimirovič Slobodin, 23 anni , Jurij Alekseevič Krivoniščenko, 23 anni
Jurij Nikolaevič Dorošenko, 21 anni , Nikolaj Vladimirovič Thibeaux-Brignolles, 23 anni e
Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, 35 anni.
Relegando le loro vite spezzate al freddo silenzio di una morte senza colpevoli.
- Midnight Factory: “La vera storia che ha ispirato il Passo del Diavolo”
- Wikipedia: “L’incidente sul Passo di Dyatlov”
- Montagna.tv: ”La storia horror del Passo di Dyatlov. Un mistero mai risolto”
- National Geographic: ”Il mistero del Passo di Dyatlov: la scienza può spiegare il tragico incidente?”
- Animali e Animali: ”L’incidente del Passo Dyatlov, una storia vera. Uno Yeti killer”
- Corriere.it: “Mistero del Passo Dyatlov…”
- Focus: ”La tragedia del Passo Dyatlov: fu davvero (solo) una valanga”
Mangia Peccati, una figura storica tra leggenda e oblio
(Mangia Peccati) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
“Chi tra di voi è senza peccato scagli la pietra per primo.” Vangelo secondo Giovanni: 8.3
Tra il XVIII e il XIX secolo si concretizzò la figura simil-religiosa del Mangia Peccati – Sin Eater – che aveva il compito di assorbire le colpe del defunto, attraverso l’assunzione di cibo sul letto del moribondo.
SOMMARIO
- Mangia Peccati. Le origini
- Mangia Peccati. Chi era?
- Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
- Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
- Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
Irrimediabilmente quando si narra del Mangia Peccati si è costretti a pensare agli ultimi istanti di vita di una persona.
Perché per chi crede, i peccati commessi devono essere redenti prima di esalare l’ultimo respiro, così da permettere alla propria anima un sicuro viaggio per l’aldilà.
Mangia Peccati. Le origini
Per molto tempo, in alcune parti del mondo il Mangia Peccati ne ha rappresentato un valido aiuto.
Figura emblematica e ormai dai contorni poco nitidi, ha preso principalmente piede nell’entroterra Inglese e in alcune zone del Galles e della Scozia.
Soprattutto nei luoghi più isolati e remoti.
Sulle origini del Mangia Peccati ci sono poche notizie, ma quelle più concrete datano la sua nascita nel periodo del basso medioevo.
Anche se alcune fonti sono portate a dichiarare che nasca insieme al Cristianesimo stesso.
Certo è che se la storia lo ha oramai relegato solo nelle nicchie dei ricordi.
In alcune zone del pianeta (come l’Alabama) rappresenta ancora oggi il protagonista di cupe storie folkloristiche.
Mangia Peccati. Chi era?
Il Mangia Peccati – o Sin Eater, in Inglese – la maggior parte delle volte, era un uomo che veniva chiamato dalla famiglia del moribondo sul letto di morte per praticare questo rito.
Rito nel quale le pietanze offerte al Sin Eater rappresentavano i peccati commessi dal defunto.
Il Mangia Peccati assumeva quelle pietanze e l’anima del defunto si alleggeriva, permettendo un trapasso sereno.
Un rito e una figura quella del Sin Eater che incarnano in modo chiaro e tangibile l’importanza per gli uomini, di affrancarsi l’anima dai peccati, restando altresì coscienti di gravare su quella di un altro.
Sicuramente non era un lavoro ambito da molti.
Nella maggior parte dei casi, erano uomini poveri ai margini della società che – davvero per fame – intraprendevano questo mestiere.
Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
Quando l’estrema unzione o l’ultima confessione non erano possibili, ci si rivolgeva al Sin Eater.
Sicuramente nelle zone rurali era più facile usufruire dei servigi di un Mangia Peccati, rispetto alle grandi città dove, invece, era più facile reperire un sacerdote per una “classica” estrema unzione o ultima confessione.
La maggior parte delle volte il Sin Eater – veniva contattato dalla famiglia del morente – e sotto un minimo compenso raggiungeva l’uomo in fin di vita al suo capezzale, per ascoltare le ultime confessioni.
In quel lasso di tempo veniva anche preparato il pasto frugale, che il Mangia Peccati ingeriva o sul letto del defunto o addirittura sul suo petto.
Ascoltando e mangiando, permetteva all’anima del morente di lasciare le spoglie terrene, alleggerita dalle colpe commesse e dichiarate e di trovare pace in eterno.
Il defunto aveva l’anima redenta, ma il Mangia peccati allo stesso tempo appesantiva la sua, aggravandola di oscure e impenetrabili memorie.
Qualora fosse arrivato troppo tardi, ad accoglierlo sul letto ci sarebbe stato solo il pasto simbolico e il silenzio.
Nella maggior parte dei casi, il pasto era composto dal pane in quanto simbolicamente associato all’anima dei defunti.
Anche se al Sin Eater si poteva offrire anche del sale e un piatto di stufato o minestra.
Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
La confessione come il parco convivio erano fasi di un vero e proprio rituale, intervallato da preghiere sussurrate e arcaiche formule:
“The ease and rest of the soul are gone” (La facilità e il riposo dell’anima se ne sono andati) Brand’s popular Antiquities of Great Britain
Un cerimoniale che ha i toni ancestrali, che si perdono nella notte dei tempi…
Intorno alla figura del Mangia Peccati, aleggia la costante comprensione di quanto sia stata dura ricoprire questo ruolo.
Solitamente era un uomo senza famiglia che per pochi penny (di solito non più di 4) e un tozzo di pagnotta, non esitava a venire a patti con i peccati degli altri, per poter avere lo stomaco pieno.
Era considerato un vero professionista, ma allo stesso tempo messo agli angoli dalla società del tempo.
Un reietto con l’anima pesante e la solitudine come compagna.
Infatti il tempo e le superstizioni, avvicinarono la figura del Sin Eater alla stregoneria e al satanismo.
Un alone di mistero e maledizione aggravato anche dalla convinzione popolare che il Sin Eater fosse l’unico in grado d’impedire ai morti viventi di risorgere!!
Una figura storica e religiosa che è stata presente sino agli inizi del XX secolo.
Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
L’ultimo Mangia Peccati che la storia ci riporti è Richard Munslow (1838 – 1906) che onorò il suo compito nella Contea di Shropshire sino agli inizi del ‘900.
Il suo menù, contrariamente alla tradizione, prevedeva: torta alla ricotta, fondi di carciofi e trippa… senza mai dimenticare i sei pence previsti per la prestazione.
Al contrario di molti suoi colleghi e predecessori, ad avvicinare Munslow alla professione di Mangia Peccati, non fu l’indigenza o la fame, ma il lutto per la perdita di quattro suoi figli.
Di cui tre, nella stessa settimana.
Profondamente turbato da questa drammatica esperienza, scelse di diventare un Sin Eater per vivere questa professione, come forma di lutto.
Della figura enigmatica del Mangia Peccati restano poche concrete testimonianze.
Il silenzio e la solitudine che ne hanno rappresentato gli elementi più concreti, ci permettono di immaginarlo come un triste compagno che segue la Morte nelle sue peregrinazioni, tra un’anima e l’altra.
Capace ancora di accogliere il mistero degli ultimi istanti di vita dell’essere umano, tra sussurri e briciole di pane.
- Blog. Necrologi: “Sin Eater: colui che mangia i peccati”
- Altroevo: “Il Mangia Peccati, la storia e la leggenda del mangiatore di peccati”
- The Weird Side: “Il Mangia Peccati e l’Accabador”
Roopkund, il lago degli scheletri
(Roopkund) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
Per narrarvi i misteri di questa storia dovete accompagnarmi sull’Himalaya e più precisamente nello Stato Indiano di Uttarakhand. Qui si trova il Lago Roopkund, denominato anche il lago degli scheletri e dei misteri.
SOMMARIO
- Roopkund. La scoperta
- Roopkund. Le diverse supposizioni
- Roopkund. Cosa scoprirono gli studiosi
- Roopkund. La leggenda himalayana
Situato nel ventre del massiccio di Trishul, è di origini glaciale e si trova a circa 5020 metri di altitudine.
Pur essendo stato classificato come lago, per la capienza e la profondità (che non supera i 3 metri) ha le caratteristiche più vicine a quelle di uno stagno.
La zona è completamente disabitata e impervia, la natura domina il sito tra ghiaccio, rocce e … scheletri.
La particolarità del Lago è nell’essere custode di centinaia di ossa umane e arcani enigmi.
Quando il ghiaccio si scioglie, il Lago riporta alla luce centinaia di ossa.
È in questa capsula di ghiaccio, quasi perennemente abbracciata dalla neve, che riposano decine e decine di antichi resti umani.
Roopkund. La scoperta
Sebbene si abbiano notizie sullo Skeleton Lake – il lago degli scheletri – già dal IX secolo, l’ufficialità della scoperta viene datata nel 1942 quando il ranger Hari Kishan Madhwal scoprì i resti ossei che fluttuavano sul pelo dell’acqua.
Con il passar dei giorni e con il maggiore scioglimento del ghiaccio, il lago continuò a restituire altri resti umani, insieme a schegge di lance, manufatti in legno e anelli, brandelli di tessuto umano e capelli, vestiti e pantofole di cuoio.
Le autorità Britanniche – visto il periodo storico – inizialmente ipotizzarono che fossero cadaveri di soldati Giapponesi morti durante il tentativo di valicare i confini Indiani, per cercare di attuare una vera e propria invasione.
Terrorizzato da tale supposizione, il Governo Inglese avviò un’indagine inviando degli esperti sul luogo della scoperta.
Quest’ultimi decretarono che le ossa erano molto antiche e non potevano appartenere ai soldati nipponici.
Da quel momento il lago divenne il fulcro di misteriose storie, scarse prove concrete e la certezza della sua unicità.
Un cimitero tra i ghiacci che per circa 300 persone – senza un motivo apparentemente sensato – fu luogo di morte tra gelo e pietre.
Perché si erano recate in questo posto così proibitivo e pericoloso?
Come erano decedute?
Dal 1950 ai giorni nostri sono state diverse le spedizioni organizzate da team di studiosi sul lago Roopkund.
Esplorazioni volte ad analizzare i resti, per trovare risposte realistiche così da poter dissipare l’alone di mistero e folklore che aleggia su questo sito, così unico e particolare.
Roopkund. Le diverse supposizioni
All’inizio si ipotizzò che tutti i cadaveri rinvenuti fossero morti nello stesso momento e per la stessa causa.
Poi si suppose che il lago Roopkund era stato per millenni una fossa comune, che aveva dato eterno riposo alle vittime di un’ipotetica epidemia, o di un suicidio collettivo.
Altri invece sostenevano che il Lago fosse un luogo sacro, utilizzato per sacrifici religiosi.
Le vittime di tali riti venivano condotte sin lassù per immolarsi durante le cerimonie.
Altre tesi spingono a credere che il Lago sia invece solo un luogo di passaggio per arrivare a compiere il pellegrinaggio al Nanda Devi – considerata una delle montagne più sacre dell’India.
Sin dalla notte dei tempi, a questa montagna sono legate storie demologiche e potenti energie, in grado di richiamare molti pellegrini per visitarla.
L’atmosfera che aleggia sul Nanda Devi (in italiano: Dea dispensatrice di Beatitudine- Dea della Gioia) sembrerebbe donare concentrazione e vigore utili per la meditazione.
Il Governo Indiano non ha mai rilasciato facilmente autorizzazioni per scalarla e/o per compiere il pellegrinaggio alla montagna, a causa dei rapporti tesi con la Cina.
È necessario ricordare che questa barriera Himalayana è considerata un territorio molto delicato, perché confina a Nord con l’altopiano del Tibet e a Sud con la pianura del Gange.
Roopkund. Cosa scoprirono gli studiosi
Certo è che per i circa 300 resti umani ritrovati, poche erano le certezze e troppe le supposizioni. Utili e concreti sarebbero stati solo e soltanto gli studi e le ricerche sui reperti.
Purtroppo c’è da dire che oltre i ricercatori- in tutti questi anni – spesso si sono succeduti anche curiosi poco attenti che, per toccare i resti che l’acqua ha restituito alla storia, hanno alterato di fatto la zona dei ritrovamenti.
Inoltre diversi scheletri sono stati utilizzati per creare delle inquietanti composizioni ossee (ancora visibili accanto alle sponde del lago) e altri, depredati.
Queste alterazioni portate avanti da mani inesperte non solo hanno concretamente influenzato lo scenario originale del lago, ma anche influenzato negativamente il risultato su alcuni esami effettuati.
Analisi che sono emerse alterate proprio a causa di queste manipolazioni avvenute sulle spoglie.
Tanto da compromettere la conservazione naturale del sito stesso.
Dopo questa doverosa precisazione posso tornare a rivelarvi cosa gli studiosi sono riusciti a scoprire sugli scheletri.
Si è rinvenuto che in realtà nel lago riposavano due gruppi etnici distinti. Separati non solo per razza, ma anche per periodo storico, infatti:
- sul primo gruppo di scheletri analizzati, gli studi hanno affermato che provenivano dall’Asia Meridionale (India, Bangladesh, Nepal) e incontrarono la morte nei pressi del Roopkund tra il VII e il X secolo. (Solo uno scheletro venne identificato come appartenente alla zona più Orientale dell’Asia – Giappone, Cina, Indonesia)
- Mentre il secondo gruppo proveniente dal Mediterraneo (Grecia, Iran e Creta) sopraggiunse nei pressi del lago per incontrare il proprio triste destino, tra il XVI e il XIX secolo.
In entrambe le compagnie erano presenti sia donne che uomini.
Sono tutti morti nello stesso luogo, ma con uno “scarto temporale” di circa 1000 anni gli uni dagli altri.
Le analisi hanno rilevato anche l’assenza di agenti patogeni utili per confermare un’epidemia.
Quello che invece è sopraggiunto all’attenzione dei ricercatori sul “gruppo Asiatico” sono state delle lesioni riportate solo sul cranio e sulle spalle degli scheletri.
Compatibili con dei colpi “tondeggianti” sferrati dall’alto.
Una tesi che si è andata concretizzando nel tempo e ipotizza che la causa del decesso sia attribuibile a una violenta grandinata.
In pratica sulle teste di questi uomini, sarebbero letteralmente piovute dal cielo delle schegge di ghiaccio.
Un profluvio di proporzioni impressionanti tanto fulmineo e veloce, da riuscire a ferirli fino a ucciderli.
Una tempesta di grandine che li avrebbe investiti e portati a una morte lenta e dolorosa.
Anche perché impossibilitati a trovare un rifugio utile per aver salva la vita.
Roopkund. La leggenda himalayana
A impreziosire questa teoria c’è un’antica leggenda tramandata tra le donne dell’Himalaya.
Leggenda che narra della furia di una Dea (Nanda Devi) che decise di castigare alcuni estranei che stavano profanando il suo Santuario.
Sussurrò l’anatema maledetto: “Farò piovere la morte su di loro”.
Scatenando così un temporale funesto con chicchi di pioggia duri come frammenti di ferro.
Casualità o strane coincidenze?
Quello che accomuna la leggenda con la tesi dichiarata dagli scienziati, non fa che rendere questo luogo ancora più enigmatico e oscuro.
Luogo dove il ghiaccio, il silenzio e il mistero custodiscono gli scheletri e le loro verità…
Fonti:
- Storie Notturne Insieme: “Roopkund, il lago degli scheletri”
- Fatti strani: “Il Lago Roopkund, l’inquietante specchio d’acqua colmo di scheletri…”
- Focus: “I misteri di Roopkund”
- Krishnadas: “Il Santuario del Nanda Devi”
- Montagna.tv:” Roopkund. Il misterioso lago degli scheletri che non…”
Centralia: la vera Silent Hill brucia da 60 anni
(Centralia) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 4 – Centralia: la vera Silent Hill brucia da 60 anni” su Spreaker.Tra gli amanti dei videogiochi a tema horror survival, Silent Hill rappresenta uno delle serie videoludiche più apprezzate di sempre.
Il prodotto immesso sul mercato nel 1999 è riconosciuto come un vero e proprio Cult e viene ritenuto anche il perfetto antagonista di un altro classico del genere: Resident Evil, un ulteriore successo nel settore dei videogiochi.
Nel corso degli anni entrambi i titoli, hanno avuto trasposizioni cinematografiche di successo, l’ultima in ordine di tempo è il reboot di “Resident Evil” uscito al cinema nel 2021.
Mentre dal videogioco di Silent Hill sono stati prodotti e commercializzati oltre ai film anche: fumetti, libri e romanzi. Insomma, un vero e proprio multimedia franchise.
Centralia. Ma cosa ha decretato il successo di Silent Hill?
Prodotto da Konami, è una delle poche serie in cui il protagonista è una “persona qualunque”.
Il giocatore ne prende il dominio, facendolo muovere tra le strade, le morti e le maledizioni della nefasta cittadina di Silent Hill.
Il gameplay di Silent Hill è molto semplice.
Si deve cercare di sopravvivere in questa ambientazione profondamente horror-gotica, provando a risolvere enigmi mentre si lotta per non farsi uccidere dalle forze del male che albergano tra gli edifici di questo lugubre centro urbano.
Uno degli elementi fondamentali che hanno decretato il successo della serie è, senza ombra di dubbio, la scenografia.
L’ambientazione infatti regala al giocatore (come allo spettatore del lungometraggio) uno scenario degno dei peggiori incubi.
Una tipica cittadina americana abbandonata e costantemente avviluppata nella nebbia più fitta che cela mistero, morte, segreti ed esecrazioni.
Centralia. E se Silent Hill esistesse davvero?
Ebbene sì cari lettori, Silent Hill non è solo frutto della fantasia degli ideatori del videogame! Si trova nello stato della Pennsylvania – più precisamente nella Contea di Columbia – e porta il nome di Centralia.
Ha una particolarità che l’ha resa spettrale e unica allo stesso tempo, Centralia è avviluppata nelle spire di un incendio che divampa e la consuma da 60 anni.
Centralia. La storia di Centralia
Centralia venne fondata intorno al 1750 da un gruppo di coloni, con il nome di Centerville. Essendo già presente nella zona un villaggio omonimo si decise – anche per ovviare a problemi di natura burocratica – di modificare il nome della cittadina in Centralia.
Durante la sua costruzione, i giacimenti minerari furono subito rilevati, ma le miniere iniziarono a essere aperte e sfruttate solo intorno al 1850.
È in questo periodo, infatti, che Centralia inizia a crescere e a fiorire a livello economico e demografico.
La capienza dei giacimenti minerari è molto estesa e importante tanto da autorizzare la costruzione di ben due linee ferroviarie per il trasporto del carbone estratto.
Nel corso dei decenni la città cresce, sino ad arrivare al 1960 con un conteggio demografico di circa 2000 abitanti.
Si poteva usufruire di un servizio postale, almeno due istituti bancari avevano le rispettive sedi in città.
Molti anche i negozi e gli Enti scolastici utili per la crescita e la formazione dei giovani -ad eccezione dell’Università.
Tre cimiteri, Chiese di culti diversi e ben due teatri.
Si sviluppa un centro cittadino di tutto rispetto che – grazie alle miniere – garantisce lavoro e prosperità.
Di pari passo all’accrescimento sociale e urbano di Centralia, si estende anche il suo sottosuolo. Epicentro del vero tesoro che la contraddistingue.
Si fa sempre più consolidata e ben collegata la rete di tunnel in grado di unire i diversi giacimenti aperti, per l’estrazione del carbone.
Centralia rappresenta la tipica cittadina americana degli anni 60 che assicura occupazione, servizi e tranquillità.
Sino al 1962, quando divampa un incendio in una delle miniere ormai in disuso che comprometterà per sempre la storia di questo luogo.
Centralia. L’incendio
Dell’incidente che modificò e compromise ineluttabilmente le sorti di questa cittadina, si conosce solo la datazione: 1962.
La storia narra che, su autorizzazione del comitato cittadino, un gruppo di volontari dei vigili del fuoco gettò dell’immondizia all’interno di una miniera chiusa e desueta, appiccando un incendio per poter smaltire il materiale.
Quello che non venne valutato fu che la portata delle fiamme all’interno di una miniera in disuso sì – ma comunque collegata alle altre – poteva alimentare senza sforzo un imponente incendio nel sottosuolo, adibito all’estrazione del carbone e ai tunnel di collegamento per il trasporto in superficie del minerale.
Una combustione che inizialmente sembrò essere domata dai pompieri cittadini, ma che in realtà continuò a fiammeggiare, arrivando anche nelle altre gallerie e nelle altre miniere.
Tutto il sottosuolo di Centralia fu investito dal calore alimentato dal suo stesso tesoro minerario.
Il terreno inizialmente coinvolto dalle fiamme raggiunse le zone adiacenti, ricche di antracite.
L’antracite è un carbone puro, con una presenza minima di acqua, zolfo, ossigeno e azoto.
Ha un elevato stadio di carbonizzazione, con una cospicua presenza di carbonio al suo interno).
…Una conflagrazione che aprirà voragini alle fiamme dell’Averno…
Le strade iniziarono ad aprirsi con crepe e baratri, eruttando fumo e calore.
Vennero inghiottite nel sottosuolo case private, edifici pubblici e auto. La vegetazione iniziò a seccarsi e morire, rendendo il paesaggio della cittadina sempre più tetro.
Molti abitanti fuggirono da quello che sembrava essere uno scenario spettrale. Centralia ardeva dalle sue fondamenta, modificando per sempre il suo aspetto e la sua storia.
Centralia. Due tentativi per spegnare l’incendio
Tentarono in diversi modi e in molte occasioni di spegnere l’incendio, ma non ci riuscirono in nessun modo.
Non tutti i cittadini decisero di lasciare subito le proprie abitazioni.
Alcuni resistettero fino a quando anche i fumi esalati dalla terra violata e sconquassata dall’incendio sottostante, non divennero tossici e pericolosi per i pochi abitanti rimasti.
Ma due vicende distinte e separate portarono alla fuga degli ultimi abitanti rimasti:
- La prima, nel 1979 quando: il proprietario di una pompa di benzina, avvertì un significativo aumento del calore del carburante dentro una delle cisterne di conservazione sotterranee. Misurandolo, arrivò a costatare che la temperatura del liquido sfiorava i 77°!!!
- La seconda, nel 1981 quando: il dodicenne Todd Tomboski, residente a Centralia, sprofondò dentro una voragine apertasi proprio sotto i suoi piedi. Fortunatamente le sue grida vennero ascoltate da un passante che riuscì a tirarlo fuori, giusto in tempo. Se Todd fosse rimasto ancora per pochi minuti incastrato in quel gorgo, sarebbe sicuramente deceduto per le esalazioni tossiche e l’estremo calore sprigionato dal terreno.
Queste due particolari cronache riportate nella storia della città, ci annunciano che di lì a poco, la cittadina rimase praticamente deserta.
Le autorità imposero l’evacuazione rendendo a tutti gli effetti Centralia inesistente.
Gli ultimi abitanti rimasti non superano la decina e nel corso degli anni, hanno avuto un permesso speciale per continuare a vivere lì; con l’obbligo di non poter lasciare in eredità a niente e nessuno, né la propria abitazione né la propria terra.
Centralia. La morte della città
Centralia è destinata a morire, ammantata tra i fumi densi e nocivi. Le voragini sul terreno hanno continuato a proliferare come ferite aperte in un paesaggio che è sempre più desolato e spaventoso.
Gli studi effettuati hanno dichiarato che l’incendio si protrae su 1600 mq di terreno e potrebbe continuare a rimanere vivo per oltre 250 anni!
C’è un’unica strada accessibile – che funge da entrata e uscita- la “Graffiti Highway” (denominata così per i disegni e le incisioni colorate lasciate dai turisti a ricordo del loro passaggio) che continua a condurre avventurieri e curiosi a visitare una delle città fantasma più famose d’America.
Tutte le altre vie di comunicazioni sono state chiuse e gli altri percorsi serrati con cumoli di terra.
Oltre alle poche abitazioni ancora in piedi, sopravvive alla tempra del calore una Chiesa, utilizzata tutt’oggi per le funzioni religiose.
Dal 2002 Centralia non ha più un proprio codice d’assegnazione postale, in pratica NON ESISTE!
Centralia. Misteriose presenze
Aleggiano su Centralia non solo i fumi di un incendio perennemente vivo, ma anche molte storie che la vedono protagonista di inquietanti vicende come quella narrata nel 1998 da Ruth Edderson, il quale dichiarò di aver visitato la città insieme ad alcuni suoi amici e di aver avvistato due bizzarri individui vestiti da minatori, apparire e svanire dinnanzi ai loro occhi, avvolti in un fumo denso e pesante.
Altri ancora affermano con sicurezza di aver avvertito presenze inquietanti durante il loro passaggio a Centralia, riportando sensazioni di turbamento e smarrimento.
Quel che è certo, è che la storia di questa cittadina opprime e ammalia nello stesso tempo. E mentre risuona l’eco del fuoco che brucia e del silenzio che aleggia, posso solo sussurrare:
Benvenuti a Centralia…Benvenuti a Silent Hill…
- Paesi Fantasma: Centralia, la vera Silent Hill
- GreenMe: Centralia, la città di Silent Hill esiste davvero
- Travel 365: L’incendio perenne di Centralia: la vera Silent Hill
- Orgoglio Nerd: La città di Silent Hill esiste davvero in Pennsylvania
- La scimmia pensa: La vera Silent Hill che brucia perennemente da 60 anni
- Wikipedia: Centralia