Skid Row, the other side of Los Angeles
(Skid Row) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
La città di Los Angeles – dopo New York City – è la seconda metropoli più grande d’America.
SOMMARIO
- Skid Row. Accesso all’inferno
- Skid Row. Casa di 3000/5000 clochard
- Skid Row. Sembra impossibile da recuperare
- Skid Row. Ma come nasce?
La città è celebre per essere il fulcro dell’industria cinematografica, per i quartieri lussuosi, la ricchezza ostentata.
Senza dimentucare la celebre collina dove spicca l’iconico cartello “Hollywood”.
Ma cela anche un lato oscuro e inquietante.
Skid Row. Accesso all’inferno
La mia penna aveva già sfiorato l’argomento, mentre vi raccontavo del Cecil Hotel e della sua triste storia.
Ora è giunto il momento di portarvi a Skid Row: il ghetto di Los Angeles.
Il suo nome – Los Angeles, la città degli Angeli – può trarvi in inganno.
Perché questa metropoli possiede anche le chiavi per le porte dell’inferno e Skid Row, è uno degli accessi.
Ufficialmente conosciuto come Central City East è un distretto della Downtown (centro amministrativo e geografico della città).
Ospita la più grande comunità di senzatetto stabili degli Stati Uniti.
Skid Row. Casa di 3000/5000 clochard
Nel quartiere vive una gremita comunità di clochard che si aggira tra le 3000 e le 5000 persone.
Qui governa la violenza, la coercizione e il pressante disagio di uno specchio sociale.
Che si scontra con vite graffiate, interrotte, consumate da droga, alcool, squilibrio mentale ed estrema povertà.
Le luci e i sogni di Los Angeles s’infrangono a Skid Row dove non si vive, si sopravvive.
Dove non si sogna, ma si lotta per mangiare e continuare ad avere almeno uno sputo di marciapiede da occupare e chiamare “casa”.
Ricettacolo e degrado.
Droga, alcool, prostituzione, giro di vite e lotta intestina per la sopravvivenza.
È fortunato chi può permettersi come alloggio al coperto una tenda da campeggio.
Mentre la maggior parte dei clochard scompare di notte in cartoni ammassati agli angoli più bui per cercare di proteggersi le carni e la dignità.
Skid Row. Sembra impossibile da recuperare
In questa realtà sociale sopravvive non solo solo chi ha ceduto tutto alle dipendenze delle droghe, oppure ai vizi che offre l’alcool.
Ci sono anche ex veterani di guerra, disabili mentali non pericolosi per gli altri.
E gente “semplicemente” sfortunata che ha perso: lavoro, casa, risparmi e la possibilità di poter ricominciare.
Da anni ormai il quartiere – un agglomerato di isolati a pochi minuti dai quartieri “bene” – sembra impossibile da recuperare.
Ci sono vicoli impraticabili da transitare per la sporcizia e l’indigenza imperante.
Feci ed urine appestano l’aria, dove banchettano mosche e prolificano batteri.
E il popolo di Skid Row continua ad arrancare e a sopravvivere.
Ombre umane simbolo del decadimento di una società troppo caotica e occupata a non osservare queste creature sopraffatte dagli eventi e incapaci di recuperare.
Un perfetto set per i film sugli zombie.

Skid Row, ma come nasce?
Già nell’800 l’area urbana era presente a Los Angeles.
Il nome Skid Row indicava la strada utilizzata dai taglialegna per far arrivare i tronchi verso la costa.
Laddove poi venivano caricati sulle navi e spediti.
Con la grande depressione alla fine del 1929 – e il relativo crollo di Wall Street – il quartiere brulicava sempre più di emarginati, alcolizzati e di bordelli.
Con gli anni la popolazione aumentava, il degrado con lei.
Anche la fine della guerra in Vietnam (1975) e il ritorno a casa dei veterani, permise al quartiere di prosperare.
Perché molti reduci rientrati con fardelli insopportabili da gestire, non riuscirono a reinserirsi nella società e trovarono facile rifugio nel quartiere.
Nel corso degli anni, diverse amministrazioni comunali hanno cercato d’intervenire.
Rendendo la presenza massiccia delle forze dell’ordine un monito per gli abitanti del quartiere.
Ma quello che accade a Skid Row è pesante, pressante e non è di facile risoluzione.
Gli anni infatti passano, ma lo scenario non cambia.
Ancora oggi osservare Skid Row e i suoi “ospiti” rende chiaro che il girone infernale che rappresentano non può essere dimenticato né sottovalutato.
Visto che rappresenta non solo il fallimento di una metropoli, ma della società tutta.
Noi compresi.

Fonti:
- La Stampa: Skid Row, il quartiere fantasma che assedia le luci di Los Angeles
- Los Angeles Times: L.A. settles homeless rights case, likely limiting ability to clear skid row streets
- Company People: Skid Row la zombie area di Los Angeles
Il telefono del vento. The phone online with Death!
(telefono del vento) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
In Giappone – nel giardino privato di Bell Gardia – c’è una cabina telefonica per “parlare” con i morti.
Esistono molti luoghi nel mondo dove commemorare i defunti.
Uno dei posti più inconsueti e originali si trova in Giappone, nella città di Ōtsuchi.
Un centro abitato a Nord Est dell’isola, nella prefettura di Iwate e più precisamente in un giardino privato chiamato Bell Gardia.
Il monumento si chiama 風の電話 kaze no denwa, il cui significato è Telefono del Vento.
SOMMARIO
- Il telefono del vento. Ma chi ha ideato il Kaze no Denwa e perché?
- Il telefono del vento. La storia del Telefono del Vento è intensa, importante e nasce perché
- Il telefono del vento. Il terremoto e maremoto di Tōhoku
- Il telefono del vento. Silenzioso cordone umano a Bell Gardia
È una cabina telefonica che spicca tra la bellezza naturalistica del giardino.
Cabina al cui interno è installato un vecchio modello di telefono in bachelite, privo di linea, attraverso il quale si può “dialogare” con i morti.
Il visitatore che decide di entrare nella cabina, può intrattenere una chiacchierata onirica o rimanere nel più assoluto silenzio.
Cullato dall’abbraccio del vento che sferza e rafforza l’atmosfera preziosa e unica dell’opera.
La cabina è di legno bianco e pannelli di vetro, mentre il telefono è sistemato sopra una mensola.
Accanto vi è un quaderno, dove gli ospiti possono lasciare un segno del loro passaggio: una firma, un pensiero.
Il telefono del vento. Ma chi ha ideato il Kaze no Denwa e perché?
Il Telefono del Vento è stato progettato nel 2010 da Itaru Sasaki, progettista di giardini che ha creato l’opera dopo la scomparsa di suo cugino.
La cabina telefonica è diventata, col tempo, una sorte di portale immaginario.
Dove poter parlare con i defunti, in un dialogo chimerico e profondamente commovente.
Alzando la cornetta si può immaginare di colloquiare con chiunque si desideri, anche con sé stessi, come e soprattutto con chi non è più con noi.
Sognare di dialogare attraverso quel telefono privo di linea è come pregare e sperare.
Ponendosi dinnanzi a uno dei sentimenti più profondi e laceranti che caratterizzano l’essere umano: il dolore del lutto.
Il Telefono del Vento permette di credere almeno per un istante di poter essere in contatto con chi non ci è più accanto.
Il telefono del vento. La storia del Telefono del Vento è intensa, importante e nasce perché
Itaru Sasaki dopo il grave lutto che colpì lui e i suoi parenti, immaginò un luogo dove poter continuare a “parlare” col suo familiare deceduto.
E per farlo pensò a due elementi soltanto: il telefono e il vento.
“Poiché i miei pensieri non potevano essere trasmessi su una normale linea telefonica, volli che fossero portati dal vento.” (I. Sasaki)
Il Signor Sasaki era sicuro che la sua opera l’avrebbe aiutato a metabolizzare il dolore.
Ma quello che non poteva minimamente immaginare, accadde appena un anno dopo.
Un evento di tali proporzioni da cambiare le venture – e le vite – di migliaia di persone come della storia stessa del Telefono del Vento.
Tanto da trasformandolo in un vero e proprio luogo di pellegrinaggio, ancora più toccante e mistico.
L’evento che modifica per sempre la storia che vi sto narrando avviene l’11 Marzo 2011, quando un potentissimo terremoto colpisce il Giappone.
Il telefono del vento. Il terremoto e maremoto di Tōhoku
Nord del Giappone – Isola di Honshū – 11 Marzo 2011, ore 14:46 (le 6:46 in Italia).
La terra inizia a tremare.
Un terremoto di magnitudo 9.1 matura e deflagra a largo delle coste dell’isola più grande della nazione nipponica.
Dopo pochi minuti sopraggiunge un mostruoso tsunami che colpisce e devasta soprattutto le coste della regione di Tōhoku.
Il sisma avvertito, risulta essere da subito violentissimo e viene catalogato come uno dei cinque più potenti mai registrati nella storia del mondo dal 1900.
Oltre a essere, ancora oggi, quello più forte mai rilevato in Giappone.
La scossa è intensa ma lontana dalla terra ferma pertanto, l’elemento che porta distruzione e morte è il maremoto generatosi pochi istanti dopo.
Onde alte più di 10 metri si abbattono sulla costa con una tale violenza da spazzare via ogni cosa.
Oltre 15.000 vittime
Solo a Tōhoku le vittime sono più di 15.000… trasportati via da un’onda irrefrenabile che ha lacerato vite, sogni e realtà.
La centrale nucleare di Fukushima esplode.
L’enorme onda creatasi a seguito del terremoto, arriva a danneggiare la struttura in modo irreparabile.
La tragedia verrà ricordata proprio con il nome della regione più colpita, Tōhoku.
La conta delle vittime lascia il mondo attonito, dinnanzi agli occhi dei sopravvissuti si palesa la potenza di una natura devastante e distruttrice.
Un terremoto che scuote letteralmente il mondo e ferisce pesantemente il Giappone.
Morte, disastro e dolore restano le conseguenze più tangibili di questa catastrofe.
È proprio a seguito di questo evento che Itaru Sasaki decide di aprire il suo giardino privato ai familiari e agli amici delle vittime dello tsunami.

Dialogare con i cari scomparsi
Mette a loro disposizione la cabina e lascia che utilizzino il Telefono del Vento per cercare un dialogo non solo con i propri cari scomparsi.
Ma anche con quel dolore sordido e martellante che li stringe ormai in una morsa senza fine e che lui conosce bene.
Da quel momento, grazie anche al passaparola, il Telefono del Vento diventa una vera e propria meta.
In più di 12 anni, le persone che hanno visitato il luogo sono state davvero molte, le stime ne dichiarano circa 30.000!
Il telefono del vento. Silenzioso cordone umano a Bell Gardia
Un rispettoso e silenzioso cordone umano ha continuato ad andare a Bell Gardia, oramai ribattezzata “la collina del telefono del vento”.
Per potersi immergere in quell’atmosfera profondamente toccante che si annida tra le sferzate di vento e il bianco candore della cabina.
Chi ha visitato l’opera di Sasaki ha intrapreso un viaggio personale intenso e significativo.
L’opera del garden designer è stata ripresa in altre parti del mondo.
Con lo stesso significato e lo stesso rispetto verso il dolore di chi deve convivere con la pesante assenza di una persona cara che non c’è più.
Cercando rifugio e sollievo tra i fili di un telefono privo di linea e l’ascendente della natura.
Non posso chiudere quest’articolo senza citare il bellissimo romanzo di Laura Imai Messina: “Quel che affidiamo al vento” (edito da Piemme).
Romanzo grazie al quale ho conosciuto questa storia e che vi suggerisco di leggere almeno una volta nella vita.
“In fondo era quanto ci si augurava per tutti, che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita, ognuno se lo fabbricasse da sé, in un luogo che ognuno individuava diverso.” Laura Imai Messina
Ricordatevi sempre che il tempo batte ritmi incessanti e non arresta mai il suo scorrere.
Mentre il Telefono del Vento continua a custodire migliaia di parole, lacrime e ricordi, cullato e protetto da una natura maestosa. E da sentimenti che non muoiono mai.
- Sempre dire Banzai: “Il telefono del vento: in Giappone esiste una cabina per “parlare” con i morti
- Internazionale: “Il telefono del vento per parlare con le vittime dello tsunami”
- IO Donna: “In Giappone c’è una cabina telefonica per parlare con i defunti”
- Wikipedia: “Telefono del vento”
- Studio Bellesi: “Il giardino di Bell Gardia e il telefono del vento”
Hei Zhy Gou, la foresta del non ritorno
(Hei Zhy Gou) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
In Cina, nella regione del Sichuan, si trova uno dei luoghi più misteriosi e inquietanti del pianeta. È la foresta di Hei Zhy Gou, soprannominata anche: “Foresta del non ritorno”.
SOMMARIO
- Hei Zhy Gou. La foresta del non ritorno
- Hei Zhy Gou. La foresta non restituisce neppure i cadaveri
- Hei Zhy Gou. Abitata da un enorme drago a due teste
Gli abitanti delle zone limitrofe la chiamano “La terrificante valle della morte”.
Se tradotto, il suo significato dovrebbe essere: “La gola del Bambù nero”.
Hei Zhy Gou. La foresta del non ritorno
Immersa in una gola profonda, avvolta quasi perennemente da fitti banchi di nebbia la “foresta del non ritorno”, è affascinante ma nefasta.
Sembra sospesa nel tempo, lontana dalla realtà e sprofondata in un mondo parallelo.
Da anni si narra che nessun essere umano sia capace di esplorarla e … di tornare indietro sano e salvo!

Numerose sparizioni infatti, accompagnano la storia di questo labirinto di bambù.
Si ritiene che la “foresta del non ritorno” sia letteralmente in grado d’inghiottire uomini e veicoli.
Coraggiosi esploratori e persino alcuni aerei che sorvolavano la zona sono svaniti nel nulla, appena entrati in contatto con la foresta.
Sembra proprio che sia maledetta e non permetta a niente e nessuno di trovare la via del ritorno e di poter quindi, raccontare cosa (o chi) si celi al suo interno.
Hei Zhy Gou. La foresta non restituisce neppure i cadaveri
Quando il fitto fogliame viene inondato dal calore del sole, la foresta appare nei suoi ancestrali colori vivi ed intensi.
I profumi della natura rendono l’area un vero e proprio polmone verde, fulcro e culla di pace, spennellato di bruma e sinistro incanto.
Ma di notte tutto cambia.
Il buio padroneggia nelle sue tinte più cupe e impenetrabili, donando al luogo un’aurea spaventosa.
Antiche leggende e angoscianti storie hanno come protagonista proprio la foresta.
Hei Zhy Gou si trasforma infatti in un antro intricato e pericoloso.
Da anni, chi si addentra tra i suoi sentieri non fa più ritorno.
Hei Zhy Gou. Abitata da un enorme drago a due teste
La sua impenetrabilità non ha mai reso concrete e sicure le notizie inerenti la sua formazione e storia.
Alcune leggende locali giustificano i misteri che aleggiano sulla foresta raccontando che, sia abitata dal “Grande Uccello”.
Uno spaventoso mostro mitologico descritto come un enorme drago a due teste.
Certo è che – essendo il Drago un importante simbolo della cultura cinese, protagonista da millenni di storie e miti – nessuno ha mai cercato di scoprire cosa dominerebbe davvero “la foresta del non ritorno”, anteponendo a qualsiasi spiegazione logica, il rispetto della forza della natura e delle antiche tradizioni che hanno reso questo lembo di terra, uno dei luoghi più sventurati e maledetti che l’uomo conosca.
Fonti:
- Travelglobe: La foresta di Hei Zhy Gou, tra bambù e misteri
- Urban Post: Cina: Foresta di Hei Zhy Gou, la valle dei bambù dalla quale nessuno torna
- Curiosando708090.altervista: Luoghi misteriosi: Foresta di Hei Zhy Gou (Cina)
25 novembre SPECIALE. Giulia, come le Altre
(25 novembre) Articolo scritto da Amelia Settele per Fatti e Società
25 novembre. In collaborazione per la rubrica La Forza di Indignarsi Ancora Radio C.S.D.R. trasmette l’audio lettura di questo articolo dal titolo Giulia, come le Altre, pezzo dedicato a tutte le donne vittime di femminicidio.
SOMMARIO
- 25 novembre. Giulia, un’altra vita spezzata che ingrossa le file dei femminicidi
- 25 novembre. Chi sono queste donne così apparentemente diverse tra loro? E perché fanno parte di questa storia?
- 25 novembre. Cos’è il Femminicidio?
- 25 novembre. Il Femminicidio in Italia fa sempre più vittime
25 novembre. Giulia, un’altra vita spezzata che ingrossa le file dei femminicidi
Vigonovo, provincia di Padova: Giulia Cecchettin è una Dottoressa, laureata in ingegneria Biomedica. Lei, suo padre e i suoi fratelli – Elena e Davide – sono una famiglia molto unita, costretta a vivere anche nel dolore nato dalla prematura scomparsa della madre. Giulia ha un ex fidanzato, Filippo Turutta.
Roma: l’avvocata Martina Scialdone ha 35 anni, professa il suo lavoro con passione ed è specializzata in diritto di famiglia. Ha un rapporto solido e forte con i suoi familiari. Ha da poco interrotto una relazione sentimentale con Costantino Bonaiuti.
Cerreto d’Esi, provincia di Ancona: Concetta Marruocco è un’infermiera di 53 anni da tutti chiamata Titti. Originaria di Torre del Greco (Napoli) continua a vivere nell’appartamento nel centro cittadino anche dopo la separazione dal suo compagno, Franco Panariello.
25 novembre. Chi sono queste donne così apparentemente diverse tra loro? E perché fanno parte di questa storia?
L’unico triste denominatore che le accomuna – come molte altre donne che riempiono ogni giorno una lista sempre più lunga – è quella di essere state vittime di femminicidio da parte dei loro rispettivi ex compagni. Ad armare le mani di chi ha strappato loro le vite, i sogni, gli affetti sono sempre questi uomini (o pseudo tali) che con maligna determinazione irrompono un’ultima sanguinosa volta nelle loro esistenze, per cercare di estorcere attenzione e possesso, fino a stringerle nel loro ultimo respiro.
So bene di averle descritte utilizzando un tempo presente, come se le loro vite fossero cristallizzate in un flash temporale in cui neppure la ferocia dei loro assassini, può alterarne il destino che avrebbero avuto il diritto di vivere. Ma c’ho non toglie che la verità è un’altra, che ci conduce verso una sola triste realtà che purtroppo conosciamo tutti: il femminicidio.
25 novembre. Cos’è il Femminicidio?
Il Femminicidio è la forma più estrema di violenza di genere contro le donne. Pertanto tutti gli omicidi dolosi o preterintenzionali in cui una donna viene assassinata da un uomo per motivi basati sul genere, devono essere identificati come tali. Per forma di genere, invece, s’intende qualsiasi forma di violenza contro una persona solo per il fatto di appartenere al genere femminile.
25 novembre. Il Femminicidio in Italia fa sempre più vittime
Secondo i dati rilasciati dal Viminale solo nel 2023 nel nostro paese sono stati commessi ben 286 omicidi di cui 103 sono donne. 54 di loro sono state ammazzate da chi diceva di amarle, dai loro compagni o ex.
Una lista lunghissima che si alimenta di donne e del loro sangue, della loro fiducia verso chi, invece, voleva solo possederle fino alla morte.
Con un ritmo di quasi 1 femminicidio ogni 3 giorni, questi omicidi continuano ad appesantire gli occhi di lacrime e la coscienza di tutti noi, allungando una lista di vite spezzate che non dovremmo mai dimenticare.
La recente tragedia di Giulia Cecchettin ha riacceso il dibattito su questa vera e propria piaga sociale che delinea uno scenario per le donne, sempre più difficile da vivere e affrontare.
Mentre l’indignazione e il cordoglio si uniscono ancor di più in questo giorno di novembre, dedicato proprio alle vittime di femminicidio, nessuna donna è al sicuro. Spetta a noi tutti ricordarle non solo adesso, ma sempre. Giulia come tutte le Altre sono lo specchio di un disastro mimetizzato in una relazione sentimentale tossica e malata, tale da condurle alla morte. In memoria di queste madri, figlie, sorelle, nipoti dobbiamo trovare tutti noi la giusta dose di forza per aiutarle a fuggire e a denunciare chi finge di amarle mentre impugna un’arma sempre più affilata che distrugge i loro sogni, la loro dignità e il loro futuro. Per ogni femminicidio, la nostra società perde filamenti di luce e umanità.
Le donne hanno una voce e troppo spesso, invece, sono costrette a gridare in silenzio. Spezziamo questa catena in nome di Giulia come delle Altre.
“Se domani sono io, se domani non torno, mamma distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.” (Cristina Torres Caceres. Perù, 2011)
- Femminicidioitalia.info
- Notizie.it: Femminicidi
- Rainews: Omicidio Giulia Cecchettin
25 novembre. NUMERI E INDIRIZZI UTILI
Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza
- Numero verde 1522
- Carabinieri – 112
- Polizia di Stato – 113
- Emergenza sanitaria – 118

Mangia Peccati, una figura storica tra leggenda e oblio
(Mangia Peccati) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
“Chi tra di voi è senza peccato scagli la pietra per primo.” Vangelo secondo Giovanni: 8.3
Tra il XVIII e il XIX secolo si concretizzò la figura simil-religiosa del Mangia Peccati – Sin Eater – che aveva il compito di assorbire le colpe del defunto, attraverso l’assunzione di cibo sul letto del moribondo.
SOMMARIO
- Mangia Peccati. Le origini
- Mangia Peccati. Chi era?
- Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
- Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
- Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
Irrimediabilmente quando si narra del Mangia Peccati si è costretti a pensare agli ultimi istanti di vita di una persona.
Perché per chi crede, i peccati commessi devono essere redenti prima di esalare l’ultimo respiro, così da permettere alla propria anima un sicuro viaggio per l’aldilà.
Mangia Peccati. Le origini
Per molto tempo, in alcune parti del mondo il Mangia Peccati ne ha rappresentato un valido aiuto.
Figura emblematica e ormai dai contorni poco nitidi, ha preso principalmente piede nell’entroterra Inglese e in alcune zone del Galles e della Scozia.
Soprattutto nei luoghi più isolati e remoti.
Sulle origini del Mangia Peccati ci sono poche notizie, ma quelle più concrete datano la sua nascita nel periodo del basso medioevo.
Anche se alcune fonti sono portate a dichiarare che nasca insieme al Cristianesimo stesso.
Certo è che se la storia lo ha oramai relegato solo nelle nicchie dei ricordi.
In alcune zone del pianeta (come l’Alabama) rappresenta ancora oggi il protagonista di cupe storie folkloristiche.
Mangia Peccati. Chi era?
Il Mangia Peccati – o Sin Eater, in Inglese – la maggior parte delle volte, era un uomo che veniva chiamato dalla famiglia del moribondo sul letto di morte per praticare questo rito.
Rito nel quale le pietanze offerte al Sin Eater rappresentavano i peccati commessi dal defunto.

Il Mangia Peccati assumeva quelle pietanze e l’anima del defunto si alleggeriva, permettendo un trapasso sereno.
Un rito e una figura quella del Sin Eater che incarnano in modo chiaro e tangibile l’importanza per gli uomini, di affrancarsi l’anima dai peccati, restando altresì coscienti di gravare su quella di un altro.
Sicuramente non era un lavoro ambito da molti.
Nella maggior parte dei casi, erano uomini poveri ai margini della società che – davvero per fame – intraprendevano questo mestiere.
Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
Quando l’estrema unzione o l’ultima confessione non erano possibili, ci si rivolgeva al Sin Eater.
Sicuramente nelle zone rurali era più facile usufruire dei servigi di un Mangia Peccati, rispetto alle grandi città dove, invece, era più facile reperire un sacerdote per una “classica” estrema unzione o ultima confessione.
La maggior parte delle volte il Sin Eater – veniva contattato dalla famiglia del morente – e sotto un minimo compenso raggiungeva l’uomo in fin di vita al suo capezzale, per ascoltare le ultime confessioni.
In quel lasso di tempo veniva anche preparato il pasto frugale, che il Mangia Peccati ingeriva o sul letto del defunto o addirittura sul suo petto.
Ascoltando e mangiando, permetteva all’anima del morente di lasciare le spoglie terrene, alleggerita dalle colpe commesse e dichiarate e di trovare pace in eterno.
Il defunto aveva l’anima redenta, ma il Mangia peccati allo stesso tempo appesantiva la sua, aggravandola di oscure e impenetrabili memorie.
Qualora fosse arrivato troppo tardi, ad accoglierlo sul letto ci sarebbe stato solo il pasto simbolico e il silenzio.
Nella maggior parte dei casi, il pasto era composto dal pane in quanto simbolicamente associato all’anima dei defunti.
Anche se al Sin Eater si poteva offrire anche del sale e un piatto di stufato o minestra.
Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
La confessione come il parco convivio erano fasi di un vero e proprio rituale, intervallato da preghiere sussurrate e arcaiche formule:
“The ease and rest of the soul are gone” (La facilità e il riposo dell’anima se ne sono andati) Brand’s popular Antiquities of Great Britain
Un cerimoniale che ha i toni ancestrali, che si perdono nella notte dei tempi…
Intorno alla figura del Mangia Peccati, aleggia la costante comprensione di quanto sia stata dura ricoprire questo ruolo.
Solitamente era un uomo senza famiglia che per pochi penny (di solito non più di 4) e un tozzo di pagnotta, non esitava a venire a patti con i peccati degli altri, per poter avere lo stomaco pieno.
Era considerato un vero professionista, ma allo stesso tempo messo agli angoli dalla società del tempo.
Un reietto con l’anima pesante e la solitudine come compagna.
Infatti il tempo e le superstizioni, avvicinarono la figura del Sin Eater alla stregoneria e al satanismo.
Un alone di mistero e maledizione aggravato anche dalla convinzione popolare che il Sin Eater fosse l’unico in grado d’impedire ai morti viventi di risorgere!!
Una figura storica e religiosa che è stata presente sino agli inizi del XX secolo.
Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
L’ultimo Mangia Peccati che la storia ci riporti è Richard Munslow (1838 – 1906) che onorò il suo compito nella Contea di Shropshire sino agli inizi del ‘900.
Il suo menù, contrariamente alla tradizione, prevedeva: torta alla ricotta, fondi di carciofi e trippa… senza mai dimenticare i sei pence previsti per la prestazione.
Al contrario di molti suoi colleghi e predecessori, ad avvicinare Munslow alla professione di Mangia Peccati, non fu l’indigenza o la fame, ma il lutto per la perdita di quattro suoi figli.
Di cui tre, nella stessa settimana.
Profondamente turbato da questa drammatica esperienza, scelse di diventare un Sin Eater per vivere questa professione, come forma di lutto.
Della figura enigmatica del Mangia Peccati restano poche concrete testimonianze.
Il silenzio e la solitudine che ne hanno rappresentato gli elementi più concreti, ci permettono di immaginarlo come un triste compagno che segue la Morte nelle sue peregrinazioni, tra un’anima e l’altra.
Capace ancora di accogliere il mistero degli ultimi istanti di vita dell’essere umano, tra sussurri e briciole di pane.
- Blog. Necrologi: “Sin Eater: colui che mangia i peccati”
- Altroevo: “Il Mangia Peccati, la storia e la leggenda del mangiatore di peccati”
- The Weird Side: “Il Mangia Peccati e l’Accabador”
Messico: acqua potabile razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
(Messico) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
La città di San Cristobal de las Casas fu fondata nel 1528 e nel periodo coloniale spagnolo divenne capitale del Chiapas. Il Chiapas è uno dei 21 Stati che costituiscono la Repubblica Messicana e attualmente è una delle zone più povere della Nazione.
A San Cristobal de las Casas in Messico l’acqua potabile è razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
SOMMARIO
- Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
- Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
- Messico. Cosa e chi si cela dietro l’acronimo: FEMSA?
Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
San Cristobal spesso viene citato perché luogo dove il 1° Gennaio 1994 durante l’occupazione dei sette comuni, il Sub Comandantemarcos – rivoluzionario, ex portavoce dell’esercito Zapatista di liberazione nazionale (EZLN) movimento armato clandestino di stampo anarchico, indigenista e anticapitalista – lesse la prima dichiarazione della Selva Lacandona, attraverso la quale proclamava i diritti del proprio movimento e dichiarava guerra al Governo Messicano colpevole tra l’altro, di aver firmato il trattato TLC (Tractado de Libre Comercio – Trattato di libero commercio) con il Canada e gli Stati Uniti d’America.
Purtroppo oggi San Cristobal de las Casas risalta agli onori della cronaca per avvenimenti che la coinvolgono e che sotto alcuni aspetti rispecchiano una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN, il quale lottava con forza e vigore per la propria libertà e contro ogni forma di colonialismo e sfruttamento.

“Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte: prima contro la schiavitù, poi, durante la Guerra d’Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli, poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo Nord Americano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma, il popolo si ribellò e emersero i suoi leader come Villa e Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione; così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, ne’ terra, ne’ lavoro, ne’ assistenza sanitaria, ne’ cibo, ne’ istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, ne’ vi è indipendenza dallo straniero, ne’ vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!”
Comando Generale dell’EZNL – Selva Lacandona, Dicembre 1993
Quello che di sicuro sta accadendo agli abitanti della cittadina è preoccupante e indica una forma di “colonialismo” silente e astuta, rendendo i motti del movimento sopracitato solo echi lontani e indistinti perché, nella cittadina esiste e persiste un grande problema, l’acqua potabile – un bene primigenio ed essenziale per la vita sulla terra.
Della sua indispensabile importanza ne avevo già scritto nel mio articolo: “Flint Town e i suoi eterni veleni”, ma purtroppo m’imbatto sempre più spesso in storie in cui questo elemento primordiale ed essenziale per tutti, rischia di venire meno.
Proprio come in questa vicenda che non smette di stupire.

A seguito di una rapida urbanizzazione, di strutture idriche obsolete e di pericolosi cambiamenti climatici che ormai sono fautori di disastri immediati e a lungo termine, la cittadina di montagna ha visto diminuire vertiginosamente le scorte idriche utili alla vita quotidiana.
L’acqua potabile che confluisce nelle tubature della rete idrica cittadina, dev’essere sistematicamente razionata.
I pozzi non coprono il fabbisogno della popolazione, decretando una crisi che sembra possedere tutti i requisiti per avere un apogeo irreversibile.
Le condizioni che detta questa crisi idrica implicano e coinvolgono aspetti della vita sociale, politica e sanitaria dell’intera comunità di San Cristobal de las Casas tali da non poter essere sottovalutati.
L’acqua viene razionata anche perché gli impianti di depurazione non hanno le caratteristiche utili e conformi per filtrare l’approvvigionamento adeguato alle necessità del popolo.
La situazione è avversa a tal punto che gli abitanti di San Cristobal preferiscono attendere l’arrivo dei camion cisterna per avere un minimo di scorta nel proprio domicilio, mentre per dissetarsi acquistano bottiglie su bottiglie di… Coca Cola!
Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
Ebbene, NO! Perché l’acqua imbottigliata ha un costo maggiore rispetto alla famosa bevanda simbolo del capitalismo mondiale.

Le ripercussioni che agevolano (almeno all’apparenza) il budget familiare, si ripercuotono però su quello della salute.
Tant’è che le ricerche effettuate sul reale consumo di Coca Cola che dilaga tra gli abitanti di San Cristobal, hanno evidenziato un preoccupante aumento delle malattie metaboliche.
Soprattutto diabete e obesità.
Inoltre è estremamente inquietante il coinvolgimento dei bambini che sin dalla più tenera età compromettono le proprie condizioni fisiche sorseggiando Coca Cola, anziché limpidi e salutari bicchieri d’acqua.
Le stime sull’abuso della bevanda lasciano sgomenti.
La gran parte della popolazione di San Cristobal ingerisce un quantitativo giornaliero pari almeno a 2 lt di Coca Cola al giorno.
Da uno studio effettuato sulla popolazione si è accertato che tra il 2013 e il 2016 l’aumento di casi di diabete è stato pari al 30%.
La maggior parte delle famiglie hanno al loro interno almeno un consanguineo affetto da questa patologia. Il diabete è la seconda causa di morte nel centro abitato nella zona meridionale del Messico.
È lecito e logico pensare subito: ma se c’è una crisi idrica tale da dover razionare la fornitura d’acqua alla popolazione, da dove arriva l’acqua utilizzata per preparare la Coke?
Messico. La risposta si racchiude in un’unica parola: Femsa.
La FEMSA – Fomento Económico Mexicano, S.A.B. de C.V. – è una multinazionale messicana fondata nel 1890 da cinque imprenditori (Isaac Garza, José Calderón Penilla, José A. Muguerza, Francisco Sada Gómez e Joseph M. Schnaider) che diedero inizio a quest’avventura, aprendo il birrificio “Cuauhtémoc Ice and Beer Factory”, a Monterrey, NL, Messico.
Da quel momento in poi la FEMSA non si è più fermata. È diventata la multinazionale messicana che su scala mondiale vanta impegni nel settore della ristorazione e delle bevande.
È la seconda maggior azionista della Heinken International ed è la più grande azienda imbottigliatrice di Coca Cola al mondo.
Ora cari lettori, dopo aver compreso e chiarito in grandi linee cos’è l’azienda FEMSA, torniamo a dare il giusto spazio al vero protagonista di questa storia: il popolo assetato.
Un’intera comunità che – anche attraverso la divulgazione di pubblicità ingannevoli – continua a bere Coca Cola come se fosse acqua; mentre l’acqua continua a essere razionata e mal distribuita.

Ma se l’acqua scarseggia, come riesce la FEMSA ad imbottigliare galloni e galloni di Coca Cola da far arrivare in quantità decisamente importanti a San Cristobal de las Casas, risparmiando a tal punto da far diventare più economico una confezione di Coca Cola, rispetto a una d’acqua?
Semplice, l’impianto locale della Coca Cola – sempre di proprietà della FEMSA – ha autorizzazioni utili per accedere alle riserve d’acqua della zona da poter utilizzare per essere depurate, addolcite e alterate fino a trasformarsi nella bevanda dal leggendario marchio rosso e bianco.
Messico, l’acqua alla multinazionale ma non ai cittadini!
La multinazionale può e ha accesso all’acqua, arrivando a poter utilizzare circa 300.000 litri al giorno da fonti idriche locali. La comunità di San Cristobal no.
I residenti del paesino situato tra le Montagne della Sierra Madre contestano, si lamentano anche e soprattutto quando si parla della salute sempre più compromessa della loro comunità. La FEMSA attraverso i suoi rappresentanti legali nega ogni responsabilità.
Imputabilità che rigetta attraverso dichiarazioni come questa, pubblicate dal New York Times, attribuite a uno dei dirigenti della FEMSA: “ha respinto le critiche che le bevande della compagnia abbiano un impatto negativo sulla salute pubblica. I messicani, ha detto, possono avere una propensione genetica verso il diabete“.
È imperativo che non ometta quanto sia ormai diffuso l’utilizzo delle bevande gassate e zuccherate come la Coca Cola (chiamate refrescos) su tutto il territorio Nazionale Messicano.
Messico, solo la punta dell’iceberg
Sotto certi aspetti, la storia di San Cristobal de Las Casas è solo la punta dell’iceberg perché negli anni il Messico ha scalato in modo celere la triste classifica dei Paesi consumatori di Coca Cola.
È secondo solo agli Stati Uniti d’America.
Resta il fatto che mentre gli abitanti di San Cristobal continuano ad attendere che l’acqua torni a poter essere utilizzata in modo concreto e giusto, la FEMSA continua a imbottigliare e a distribuire la famosa bevanda – frutto di una ricetta ancora oggi segreta – in quantità anche superiori alle reali necessità del luogo, mixando al sapore dolciastro e frizzantino famoso in tutto il mondo, l’amaro retrogusto di un subdolo capitalismo.
- Ciboserio: “Messico: intera città beve Coca Cola, perché manca l’acqua”
- Ytali: ”Chiapas, senz’acqua ma con la Coca Cola”
- L’Indro: “Il governo Messicano ha sete di Coca Cola”
- Femsa.com
- SBS News: This small town in Mexico is addicted to Coca-Cola. It also grapples with a deadly disease.
- Voices: San Cristobal de las Casas, the Mexican town that drank more coke than water
Alga Marimo e la sua leggenda. Discover the secrets in the world
(Marimo) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura
La storia che sto per raccontarvi affonda – letteralmente – le sue radici in un lago. Protagonista di questa leggenda è una simpatica alga a forma sferica dall’intenso colore verde scuro, comunemente conosciuta col nome di Marimo.
SOMMARIO
- Marimo. Alga palla
- Marimo. Tesoro Naturale Giapponese
- Marimo. Simbolo di buon auspicio
- Marimo. Regole per il mantenimeno
Marimo in lingua giapponese significa biglia (Mari: biglia, Mo: pianta acquatica), appellativo datole intorno al 1820 dal botanico giapponese Tetsuya Kawakami.
Scientificamente appartiene alla famiglia delle Cladophoraceae, il cui nome per inciso è: Cladophora Aegagropila.
Marimo. Alga palla
L’alga palla oltre al suo intenso colore, è formata da sottilissimi e morbidi fusti che assorbono nitrati e nitriti presenti nell’acqua, convertendoli in ossigeno.
Proprio durante il processo di fotosintesi clorofilliana- se osservata alla luce – si possono notare piccole sfere di ossigeno attaccate ai fusti, che vengono emesse dall’alga.
Durante la fotosintesi l’alga palla si lascia fluttuare nell’acqua, come se danzasse. Questo ondeggiare ipnotico prende il nome di “Danza del Marimo”, particolare che la rende ancora più affascinante.
Ha una crescita lentissima che non supera i 5mm l’anno e la grandezza dei suoi esemplari di solito si aggira tra i 3 e i 10 cm.
È una pianta acquatica davvero longeva, può arrivare a vivere oltre 200 anni!
Marimo. Tesoro Naturale Giapponese
Solo tre laghi al mondo, hanno l’habitat perfetto per ospitare le colonie di questa alga e si trovano in: Giappone, Estonia e Islanda. Vive sui fondali temendo la luce diretta del sole e non paventa le temperature fredde.

Fu scoperta intorno alla prima metà del 1800.
Proprio dal botanico che le diede anche il nome – Tetsuya Kawakami – sulle sponde del lago Akan.
Il suo eccezionale rinvenimento, divenne ben presto d’interesse nazionale.
Nel 1921 il Governo Nipponico dichiarò il Marimo “Tesoro Naturale Giapponese” e specie protetta.
Inaugurando anche un museo dedicato all’alga palla e alla sua storia.
Troppe persone spinte dalla curiosità e dalla leggenda ad esso legata, si riversarono sulle rive del lago per cercare di appropriarsi (anche in modo non legale) di un esemplare di questa alga.
Procurando di fatto, un grave danno all’ecosistema delle colonie, che vennero colpite duramente anche dalla costruzione di una centrale idroelettrica poco distante dallo specchio d’acqua, sempre in quegli anni dei primi del 900.
Intorno alla metà del secolo scorso invece, proprio gli abitanti del luogo compresero il grave pericolo in cui riversavano le colonie si attivarono per proteggerle e salvaguardarle il più possibile.
Venne così istituto anche il Festival del Marimo.
Famoso e celebrato, ancora oggi (pandemia permettendo).
Marimo. Simbolo di buon auspicio
Da sempre il Marimo oltre alla sua importanza nell’ecosistema dei luoghi dove si sviluppa, è simbolo di buon auspicio e di amore eterno.
Viene donato solo a chi si vuole bene – infatti vista la sua secolarità, le famiglie lo tramandato di generazione in generazione – come se fosse un talismano in grado di favorire la longevità e l’abbondanza.
È considerato un potente portafortuna e sembrerebbe riuscire a esaudire i desideri di chi lo dona e di chi lo riceve.

Sopra ogni cosa, a quest’alga è legata una leggenda giapponese bellissima e struggente che voglio raccontarvi e inizia, così:
“C’erano una volta due giovani perdutamente innamorati. Le famiglie di entrambi però, osteggiavano il loro rapporto. Un giorno la coppia decise di fuggire lontano, ritrovandosi sulle sponde del Lago Akan. Sulle rive del lago i due ragazzi si giurarono amore eterno e i loro cuori si trasformarono in due Marimo, così da poter vivere uno accanto all’altra per l’eternità…”
La leggenda dei due innamorati ha permesso a questa pianta di diventare il simbolo di chi si ama.
Il Marimo infatti viene donato solo a chi si vuole veramente bene, perché emblema di un rapporto profondo e duraturo.
Marimo. Regole per il mantenimeno
Adottare o ricevere in dono un Marimo, comporta il rispetto di semplici e basilari regole:
- Mantenerlo sempre in un recipiente rigorosamente di vetro e immerso nell’acqua
- Non esporlo alla luce diretta del sole e ospitarlo in un luogo fresco
- Cambiare l’acqua ogni due settimane circa, aggiungendo di tanto in tanto dell’acqua frizzante per agevolarne “la danza” e la fotosintesi clorofilliana.
- Pulire il contenitore con attenzione per rimuovere (eventuali) residui di calcare
- Rigirare saltuariamente e con delicatezza il contenitore come a simulare il ritmo delle onde.
Le semplici e basilari regole per una buona manutenzione del proprio Marimo, hanno facilitato l’arrivo dell’alga palla in molte case (compresa la mia!).
Certo è che questa pianta acquatica è entrata nell’immaginario collettivo per molteplici fattori, dalla leggenda a cui è legato, alla dolce e ammaliante danza che dona splendore al suo “abbraccio” con l’acqua e al perenne ricordo di un amore immortale.
Offrendo un tocco di originalità che cattura e incanta sia chi lo dona e chi lo riceve…
Fonti:
- Casa Natura: L’alga degli innamorati
- Inspirando: Marimo, l’alga palla che arriva dal Giappone
- Fatti strani: La soffice alga marino si sviluppa…