Invasione russa in Ucraina, un instant book da riscoprire

Invasione russa in Ucraina, un instant book da riscoprire

(Invasione russa in Ucraina) Articolo scritto per Libri e Pillole di Cultura

A due anni dal quel fatidico 24 febbraio 2022 utile ritornare su un instant book uscito a poche settimane da quella data: Invasione russa in Ucraina di E.T.A. Egeskov

SOMMARIO

Normalmente gli istant book, come suggerisce il nome, sono libri da consumarsi subito, appena usciti.

Spesso a distanza anche di poco tempo invecchiano e perdono di significato.

Non tutti però.

Invasione russa in Ucraina scritto a poche settimane dal 24 febbraio 2022 a opera di E.T.A. Egeskov offre ancora oggi spunti di riflessioni interessanti.

Dopo due anni di guerra rileggere quelle pagine può essere utile per comprendere anche molte cose accadute.

E forse per aiutarci a ipotizzare quelle che potrebbero accadere nelle prossime settimane o mesi.

Invasione russa in Ucraina. Il tema del libro

Scritto a caldo, a poche settimane da quel fatidico 24 febbraio 2022, il volume aveva l’ambizione di fare un po’ il punto della situazione.

E di provare ad andare oltre la stretta attualità di cronaca di guerra ipotizzando scenari futuri.

In pratica l’autore aveva voluto fare luce su ciò che era accaduto, inquadrando il tutto nel contesto del diritto internazionale.

Ma anche provando a ipotizzare eventuali scenari futuribili, che nel frattempo sono ormai diventati passato e storia vissuta.

Invasione russa in Ucraina. Il capitolo dedicato alle sanzioni

In un capitolo del volume l’autore si dedica in modo approfondito ad analizzare le sanzioni poste in essere in quel 2022.

Ragionando anche su quelle che sarebbero potute seguire di lì a poco.

Interessante il ragionamento svolto riguardo all’Unione Europea e al ruolo che avrebbe dovuto/potuto giocare nello scenario politico dell’Ucraina invasa.

A partire proprio dalle sanzioni comminate dalla stessa Unione Europea.

Fa riflettere poi l’accostamento con la Cecoslovacchia degli anni ’30 e la remissiva passità degli stati europei di fronte alla sfrontatezza di Hitler e quanto accaduto in Ucraina per opera della Russia di Putin.

Invasione russa in Ucraina. Il diritto internazionale

Invasione russa in Ucraina

Assolutamente da rileggere il capitolo dedicato al diritto internazionale.

Capitolo all’interno del quale l’autore esplora tutti i protagonisti della scena mondiale e come essi interagiscono con il diritto internazionale.

Particolare attenzione viene prestata al ruolo dell’O.N.U., evidenziandone in modo specifico i limiti e le fragilità.

Il capitolo si chiude con la domanda cruciale di quelle prime settimane.

Ovvero la Russia aveva violato il diritto internazionale invadendo l’Ucraina?

Invasione russa in Ucraina. Russia. vs. Europa

Reduce dal positivo riscontro ottenuto dal volume Invasione russa in Ucraina pochi mesi più tardi E.T.A. Egeskov si cimentato con un altro volume sul tema.

Russia vs. Europa è un libro che affronta in modo più ampio e organico il tema dello scontro anche culturale fra Russia ed Europa.

In questo volume l’autore analizza nel dettaglio singole situazione, come ad esempio quella dei paesi baltici.

O la particolare condizione della Moldavia e della Georgia, oggi forse un po’ dimenticate ma da non sottovalutare per il prossimo futuro.

Interessante in questo volume l’analisi fatta dall’autore sui principali attori protagonisti nella scena internazionale.

Particolarmente attenta e rilevante la disamina dell’Unione Europa, del suo ruolo e delle sue prospettive future.

Invasione russa in Ucraina. Un anno dopo

A un anno esatto di distanza dalla data dell’invasione russa in Ucraina E.T.A. Egeskov ha rilasciato un terzo volume sul tema.

Invasione russa in Ucraina un anno dopo dice praticamente già tutto dal titolo sul suo contenuto.

Scritto dopo dodici mesi di guerra analizza quanto accaduto, cercando di comprendere le ragione di tutti gli attori in campo.

Ma anche e sopratutto gettando lo sguardo nel futuro, per cogliere possibili scenare.

Quello del guardare avanti è un po’ un chiodo fisso dell’autore il quale esprime spesso la sua preoccupazione sulle scelte di geopolitica.

Infatti sottolinea spesso E.T.A. Egeskov, anche nei suoi articoli pubblicati su queste pagine, che le azioni di oggi porteranno conseguenze anche domani.

E persino non agire è un modo di agire, dunque se si scegliere quella strada lo si deve fare consapevolmente e conoscendone gli esiti futuri.

Diomede: poche bracciate di nuoto separano USA e Russia

(Diomede) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Ascolta “Il crogiuolo. Puntata 5 – Isole Diomede, U.S.A. e Russia a poche bracciate di nuoto” su Spreaker.

Solo 3,8 chilometri separano le due isole Diomede, ma oltre ad avere 21 ore di fuso orario appartengono anche a due “mondi” differenti.

SOMMARIO

Quando si pensa alla Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica il pensiero va subito al muro di Berlino.

Al ponte delle spie e alla Cortina di Ferra che divideva in due l’Europa, a Ovest con gli Usa, a est con l’URSS.

Pochi sanno che le due superpotenze si spiavano vicendevolmente da pochi chilometri di distanza.

Meno di quattro per l’esattezza, ma da tutt’altra parte del mondo rispetto all’Europa.

Diomede. Lo stretto di Bering

Fino al 1648 nessuno sapeva dell’esistenza di un braccio di mare che separava il continente nordamericano da quello asiatico.

Fu il comandante Semen Dežnëv che esplorò l’estremità orientale della Siberia per conto dello zar a scoprire per primo il braccio di mare.

Ma a quel punto nemmeno se ne rese conto e la scoperta non fu mai dichiarata come tale.

Almeno sino al 1728 quando il comandante Vitus Bering bordeggiò le coste della Kamckacta.

Per questo motivo più tardi a lui fu intitolato lo stretto che porta il suo nome.

Quello stretto braccio di mare (meno di 100 km) risultava spesso ghiacciato e per questo motivo non se ne conosceva l’esistenza.

Diomede. L’Alaska russa

Quello che oggi è lo stato più settentrionale degli USA fino al 1867 era in realtà territorio dell’Impero Russo.

Fu lo zar Alessandro II a vendere l’immenso territorio ghiacciato dell’Alaska agli Stati Uniti.

Quello che nell’Ottocento parve ai russi un affarone potrebbe essere stato l’affare più fallimentare della storia fra nazioni.

Diomede
Diomede Grande (a sinistra) e Diomede Piccola (a destra)

Infatti solo più tardi si sarebbe scoperto che quell’immenso territorio inospitale custodiva nel suo sottosuolo immense ricchezze.

Dall’oro al petrolio, ancora oggi il 49° Stato dell’Unione è uno dei più ricchi nonostante sia soltanto il 48° per numero di popolazione.

Davanti solo a Vermont e Wyoming oltre al District of Columbia.

Diomede. Le isole

Proprio nel mezzo dello stretto di Bering sono poste due piccole isole rocciose.

Una, chiamata Diomede Grande, ha una superficie di circa 29 km².

L’altra, invece, nominata Diomede Piccola, consta di soli 6 km².

Il loro nome non è un omaggio alla mitologia classica ma al martire omonimo di Tarso.

Ricorrenza che gli ortodossi festeggiano il 17 agosto.

E proprio in quella data il comandante Bering documentò l’esistenza delle isole che pertanto furono battezzate con il nome del martire.

Estremamente inospitali le due isole non offrono granché, vista anche la latitudine alla quale sono poste.

Esse sono infatti prossime al Circolo Polare Artico.

Diomede. Divise dalla Guerra Fredda

Quando nel 1867 lo zar Alessandro II vendette agli Stati Uniti d’America il territorio dell’Alaska fu deciso che le due isole fossero separate.

Così l’isola più occidentale, chiamata Diomede Grande, restò alla Russia.

Mentre l’isola più orientale, denominata Diomede Piccola, andò con l’Alaska continentale agli Stati Uniti.

In mezzo fra le isole uno stretto di mare largo circa 3,8 chilometri che le separa.

Quando dopo la seconda Guerra Mondiale scoppiò la cosidetta Guerra Fredda anche le due isole furono coinvolte.

Essendo ognuna delle due isole il territorio “nemico” più vicino per ciascuna nazione entrambe divennero un punto strategico.

Su ognuna delle due isole furono installate apparecchiature di sorveglianza e installazioni militari.

Per questo motivo i nativi Yoruk, che popolavano l’isola russa, furono costretti dal governo sovietico ad abbandonarla.

Essendo diventata l’isola un luogo esclusivamente militare.

Diomede. Così vicine, così lontane

Le due isole distano così poco che un’americana di nome Lynne Cox raggiunse l’altra isola dopo solo due ore di nuotata.

Ma per un certo verso sono anche così lontane giacché sono separate da ben ventuno ore di fuso orario.

Perché quella Grande (russa) è a ovest della Linea del Cambiamento di Data.

Mentre quella Piccola (americana) è a est della medesima linea immaginaria che stabilisce la nascita del nuovo giorno.

Infatti le isole, essendo situate a 169° Est, risultano essere le terre più a Oriente del Meridiano di Greenwich.

Anche se come abbiamo visto a separarle passa la linea immaginaria del cambiamento di data.

Così se quella Piccola è mezzogiorno di sabato su quella Grande saranno le nove del mattino di domenica.

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Capodanno, perché si festeggia il 1 gennaio?

(Capodanno) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Il 1 gennaio nel mondo occidentale, e non solo ormai, è ufficialmente l’inizio del nuovo anno. Ma da quando è così? e chi lo ha stabilito?

SOMMARIO

Il 1 gennaio è sicuramente una delle feste più diffuse e condivise del pianeta.

Iniziare un nuovo anno è certamente un momento simbolicamente importante.

E meritevole di festeggiamenti.

Ma chi ha deciso che il capodanno dovesse essere proprio il 1 gennaio?

Capodanno. Il Calendario Giuliano

Secondo la tradizione fu Giulio Cesare che nel 46 a.C. riformò il calendario dando vita a quello che sarebbe stato conosciuto come Calendario Giuliano.

Fu proprio in quell’occasione che il dittatore Cesare volle far coincidere l’inizio dell’anno con l’entrata in carica dei consoli.

Infatti occorre ricordare che i consoli romani entravano in carica il 1 gennaio.

L’anno però iniziava il 1 marzo.

Giulio Cesare decise dunque di far coincidere l’entrata in carica dei consoli con il primo giorno dell’anno.

Capodanno

Capodanno. Il mese di Giano

Il nome romano del mese di gennaio deriva dal dio Giano, la divinità bifronte.

Secondo alcuni studiosi è proprio grazie al dio Giano che il 1 gennaio è stato scelto come primo giorno dell’anno.

Giano, essendo bifronte, guarda sia avanti che indietro.

Si rivolge dunque al passato come al futuro.

Quale miglior modo per iniziare l’anno se non con il primo giorno del mese dedicato a Giano dunque?

Capodanno. Il caos medievale

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente non vi fu solo l’imbarbarimento dei costumi.

Ne fecero le spese anche le infrastrutture, le città e le strade.

I collegamenti divennero più ardui e la nascita dei comuni portò a volersi distinguere gli uni dagli altri.

Anche nel modo di conteggiare i giorni e dunque persino nello stabilire il primo giorno dell’anno.

A Venezia si riprese l’antica usanza della Roma Repubblicana facendo iniziare l’anno il 1 marzo.

A Pisa e Firenze l’anno iniziava il 25 marzo (ipotetica data del concepimento di Gesù Cristo).

Nell’Impero Romano d’Oriente (e poi anche in Russia e in altre luoghi d’Europa) l’anno iniziava il 1 settembre.

In Francia si usava la data della Pasqua come inizio d’anno.

A tal proposito bisogna tener presente che la ricorrenza pasquale non cade ogni anno nello stesso giorno.

Pertanto la lunghezza degli anni francesi era molto variabile a seconda di come “cadeva” la Pasqua di volta in volta.

Vi era poi chi faceva iniziare l’anno il 25 dicembre, ovvero nel giorno di Natale.

Capodanno. Il Calendario Gregoriano mette tutti d’accordo

Come si è visto durante il medioevo a anche successivamente l’anno iniziava in tempi diversi a secondo dei luoghi.

Questo comportava notevoli problemi man mano che i commerci si intensificavano e le varie nazioni o città interagivano sempre più frequentemente.

La data spartiacque per un riordino generale in merito al Capodanno fu il 1582 con l’adozione del Calendario Gregoriano.

Avendo riallinetato il calendario umano con la posizione astronomica della terra si passò dal 4 al 15 ottobre 1582.

Nel contempo fu stabilito che l’anno sarebbe iniziato il 1 gennaio per tutta la cristianità (almeno quella cattolica).

Progressivamente quasi tutti i paesi si adattarono e di fatto il 1 gennaio è diventato universalmente il primo giorno dell’anno.

Foto di Flash Alexander da Pixabay

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Dyatlov, A Mystery Pass That Has Never Been Solved

(Dyatlov) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura

Russia, versante orientale dei Monti Cholatčachl’ – che in lingua Mansi (lingua obugrica parlata in Russia, nel distretto autonomo degli Hanti e dei Mansi) significa “Montagna dei Morti” – è nel freddo e nel silenzio di questo luogo che si dipanano gli inspiegabili eventi che vedono protagonisti nove escursionisti ritrovati privi di vita, nel 1959.

SOMMARIO

Solo più tardi il valico di montagna, palcoscenico della drammatica sciagura, verrà rinominato: Passo di Dyatlov”, in memoria del capo della spedizione Igor Dyatlov.

Quella che doveva essere un’escursione impegnativa e bellissima, si è tramutata in uno dei cold-case più inquietanti che la storia dell’alpinismo mondiale ricordi.

Dyatlov. Come inizia l’enigmatica storia

Il 23 Gennaio 1959 inizia il viaggio. 

Le notizie certe registrate prima dell’incidente, annotano che il 25 Gennaio la compagnia arriva in treno sino a Ivdel (città della Russia Siberiana Nordoccidentale).

Per poi spostarsi in camion fino a Vizhaj – l’ultimo distaccamento abitato.

Il 27 Gennaio il gruppo coordinato da Igor Dyatlov, prosegue l’escursione.

La comitiva è composta da esperti sciatori di cui otto sono uomini e due sono donne.

Dyatlov

Tutti provenienti dall’Istituto Politecnico degli Urali di Ekaterinburg (nove studenti e un professore di sport).

Affrontano un’escursione importante e ostica che li avrebbe dovuti condurre sino al Monte Otorten.

Il percorso scelto per quel periodo dell’anno è classificato di terza categoria ovvero, il più difficile.

Tra tutti i partecipanti solo uno si salva, in quanto un improvviso malore lo costringe a ritirarsi.

Il suo nome era Jurij Efimovič Judin, aveva 22 anni.

Si allontanerà dal gruppo il giorno dopo e sarà l’unico superstite.

Da quel momento la compagnia sarà formata da 9 membri.

Dyatlov. Un’esplorazione che sembrava tranquilla

Le macchine fotografiche, le cineprese e i diari ritrovati sul luogo del massacro sembrano dire qualcosa.

Testimoniano che il gruppo di escursionisti durante i primi cinque giorni di viaggio, aveva esplorato in totale tranquillità luoghi bellissimi e magnetici come: foreste e laghi ghiacciati.

Circondati da una natura vigorosa e polare. 

Il clima tra i viaggiatori era sereno e goliardico.

Nulla sembrava presagire quello che sarebbe accaduto.

Il 31 Gennaio arrivano sul bordo di un altopiano dove si preparano per iniziare la salita.

Organizzati al meglio, depositano anche scorte di cibo ed equipaggiamento validi da utilizzare durante il ritorno.

Il 1° Febbraio iniziano a percorrere il passo, ma una tempesta di neve intensa e minacciosa capace persino di disorientarli, li obbliga a deviare verso Ovest…

Verso la Montagna dei Morti.

Una tormenta che interromperà per sempre ogni tipo di comunicazione e notizia sul e dal gruppo.

Dyatlov. Le ricerche

Dyatlov aveva dichiarato che appena rientrati a Vizhaj avrebbe telegrafato alla loro associazione sportiva e alla famiglia.

Per rendere noto che la spedizione stava proseguendo senza problemi.

Mentre i giorni passavano, nessuno nell’immediato – vista la difficoltà dell’itinerario intrapreso e gli scarsi mezzi di comunicazione presenti a quel tempo- si allarmò.

Ma quando l’assenza di trasmissioni superò i giorni di ritardo accettabili e consueti, la preoccupazione portò anche i parenti dei ragazzi a sollecitare l’intervento dei soccorsi.

Interventi che vennero organizzati e fatti partire 25 giorni dopo. 

Inizialmente parteciparono alle ricerche solo volontari tra studenti e professori.

Più tardi vennero coinvolti l’esercito e la polizia che integrarono e supportarono le ricerche della comitiva anche con aeromobili.

Dyatlov. Il ritrovamento

È il 26 Febbraio quando viene ritrovata la tenda della comitiva, pesantemente compromessa e squarciata dall’interno.

Sin da subito si denota una anomalia in quanto l’accampamento – senza ragione logica alcuna – è collocato su un pendio ghiacciato e non nella foresta.

Come invece sarebbe stato più ideale e consono alle necessità del team.

Seguendo le numerose impronte che conducono verso il bosco – a pochi metri di distanza dal campo, sotto un albero di cedro – i soccorritori ritrovano i resti di un fuoco e i primi due cadaveri.

Sono quelli di Jurij Nikolaevič Dorošenko e Jurij Alekseevič Krivoniščenko.

Entrambi i corpi sono privi di vestiario (indossavano solo la biancheria intima) e sembrano essere deceduti per ipotermia.

Sui due poveri ragazzi non si evidenziano tracce di traumi o ferite visibili a occhio nudo.

Poco tempo dopo vengono rinvenuti anche i corpi di Igor Alekseevič Djatlov, Zinaida Alekseevna Kolmogorova e Rustem Vladimirovič Slobodin.

Vengono ritrovati tra il campo base e l’albero di cedro che ha custodito i corpi delle prime vittime. 

Dagli esami autoptici effettuati sui cadaveri, i medici dichiarano che la morte per ipotermia sembra essere la diagnosi più plausibile. 

Sposando questa tesi, i medici declassano l’importanza della frattura cranica rinvenuta su uno dei cadaveri ritrovati.

Gli inquirenti decidono anche che la carne ritrovata sulla corteccia del cedro, come alcuni suoi rami spezzati fino ad un’altezza di 4 metri, non abbiano necessità di trovare spiegazione e connessione valida, che possa far luce sull’incidente.

Dyatlov. Il disgelo restituisce altri corpi

Si dovranno attendere lo sciogliersi della neve e del ghiaccio – per un tempo utile di due mesi – affinché la montagna restituisca i corpi degli altri componenti del gruppo.

Ovvero quelli di Nikolaj Vasil’evič Thibeaux-Brignolles, Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, Ljudmila Aleksandrovna Dubinina e Aleksandr Sergeevič Kolevatov.

I resti vengono ritrovati il 4 maggio in un burrone dentro il bosco, tutti completamenti vestiti.

Al contrario dei primi, quello che raccontano i cadaveri degli ultimi è impressionante e angosciante perché i corpi riportano importanti fratture craniche e costali.

Sul cadavere di una delle due ragazze era stata divelta la lingua e strappati via gli occhi…

Una scena da brividi che narra una storia angosciante, intrisa di violenza e mistero.

Una vicenda che capovolge e annulla le tesi finora espresse sia dagli investigatori impegnati nelle indagini che dai medici coinvolti nelle necroscopie.

Dyatlov. Ma chi o cosa ha ucciso i ragazzi?

La natura ha restituito i corpi di tutti i membri della spedizione.

Gli elementi raccolti provano che quanto accaduto sulla Montagna della Morte si tinge di un mistero difficile da chiarire.

Eppure le indagini aperte dalle autorità russe si chiuderanno in un tempo veramente breve, vista la complessità dell’evento e il mistero che aleggia.

L’inchiesta ufficiale attribuisce la causa della tragedia del Passo Dyatlov a “Una Forza Naturale Misteriosa e Sconosciuta”.

Gli indizi raccolti provano che i ragazzi hanno tagliato la tenda dall’interno per fuggire come se qualcuno (o qualcosa) di estremamente pericoloso, fosse lì con loro e dal quale dovevano allontanarsi il più in fretta possibile.

Inoltre il vestiario della comitiva presenta un alto tasso di radioattività e sulla scena dell’incidente sono stati rinvenuti pezzi di metallo, mai ufficialmente identificati. 

I medici, per cercare di spiegare cosa abbia massacrato il gruppo, paragonano le ferite riportate dai cadaveri a quelle dei coinvolti negli incidenti stradali.

Una forza d’impatto mostruosa, ma che non ha lasciato segni evidenti.

Niente ematomi, escoriazioni o ferite lacero contuse.

L’impeto dell’urto ha procurato traumi interni irreversibili.

Dyatlov

Solo il volto di una delle due ragazze è stato brutalizzato con la rimozione degli occhi e l’estirpazione della lingua – l’autopsia non riuscirà mai a stabilire se la violenta rimozione fu effettuata pre o post-mortem.

Si pensa anche che i cadaveri ritrovati senza indumenti siano stati colpiti dal fenomeno dell’undressing paradossale.

Ovvero: l’irragionevole svestizione che vede protagonisti i soggetti in ipotermia i quali spogliandosi, avvertono una (illogica quanto illusoria) sensazione di riscaldamento. Percezione in realtà prodotta dall’alternarsi della vasocostrizione e della vasodilatazione che conducono il soggetto in ibernazione a percepire calore restando senza vestiti, mentre in realtà la temperatura corporea continua a precipitare.

Dopo il fenomeno dell’undressing paradossale, le vittime di ipotermia assumono la posizione a quattro zampe per strisciare sul terreno, per poi finire in posizione fetale e morire. 

Forse anche i primi corpi ritrovati sono stati colpiti da questo fenomeno?

Si è infatti arrivati a supporre che gli altri ragazzi della compagnia abbiano poi utilizzato i vestiti di cui si sono liberati i propri compagni per cercare calore e riparo.

Perché, dalla posizione del ritrovamento dei corpi, si è presupposto che una parte del gruppo stesse provando a rientrare all’accampamento, prima di rimanere ucciso.

Il mistero che avvolge questa storia si amplifica con elementi che sfiorano il surreale e trascinano l’incidente al Passo di Dyatlov verso racconti oscuri e teorie naturalistiche.

Dyatlov. Tesi, supposizioni e leggende

Con l’archiviazione (frettolosa) dell’inchiesta, si solleva sempre più curiosità e desiderio di conoscere una verità che non sembra assolutamente essere stata chiarita dalle indagini.

Indagini che assumono agli occhi del mondo i contorni sbiaditi di un “segreto di Stato”.

Gli anni passano, ma la tragedia del Passo di Dyatlov non viene dimenticata, anzi…

Si moltiplicano le teorie più disparate che vanno da una valanga, fino all’attacco alieno.

Vengono ipotizzati pericolosi esperimenti militari clandestini.

Testimonianze di altri esploratori coinvolti in escursioni in quella stessa zona e periodo, focalizzarono le teorie sull’avvistamento di “sfere arancioni” nei cieli dei Monti Urali.

Altri non erano se non missili balistici R-7 sparati come esercitazione speciale dall’esercito.

Non si può dimenticare la supposizione che vede protagonisti un gruppo d’indigeni Mansi.

Responsabili di aver aggredito il gruppo di ragazzi in modo efferato e brutale perché colpevoli di aver sconfinato nella loro terra.

Dyatlov

Si ipotizza addirittura che dietro alla morte dei giovani ci sia Almas, il mostruoso uomo delle nevi.

Insomma si moltiplicano le tesi, le storie sussurrate e si favoleggiano misteri e incredibili dinamiche.

Ma ai caduti e ai rispettivi familiari continua a mancare una concreta verità, plausibile e meritevole tanto da poter far riposare in pace le vittime e dare tregua ai loro cari. 

Intorno agli anni ’90 i fascicoli dell’inchiesta vennero desegretati facendo emergere nuovi indizi utili a perorare un’altra ipotesi che vede coinvolto l’utilizzo di una potentissima quanto ignota arma segreta russa. 

Nell’Ottobre del 2013 Donnie Eichar pubblica il suo romanzo “Dead Mountain: The Untold True Story of the Dyatlov Pass Incident” nel quale ripercorre il tragico incidente del Passo di Dyatlov.

Nel libro suggerisce la tesi della “tempesta perfetta”- un raro fenomeno naturale di una potenza talmente tanto devastante da essere in grado di creare numerosi micro-tornado e generare ultrasuoni impercettibili da orecchio umano.

Ultrasuoni in grado di alterare lo stato psico-motorio dei ragazzi, fino a compromettere la loro stabilità e lucidità inducendoli di fatto, a fuggire dalla tenda verso l’oscurità e la morte.

Dyatlov. Nel 2019 si riapre l’inchiesta

Gli studiosi chiamati a cercare di fare (finalmente) luce sulle vere cause della vicenda sono Johan Gaume, professore alla Scuola Politecnica Federale di Losanna e Alexander Puzrin del Politecnico di Zurigo. 

Attraverso i moderni strumenti a loro vantaggo e ricreano il possibile scenario di quella famosa notte del 1° Febbraio.

I due esperti dichiarano che solo una valanga di enormi proporzioni, può considerarsi la vera causa della tragedia sul Passo di Dyatlov.

Teoria che venne subito presa in considerazione anche dagli esperti, 63 anni fa. 

Quello che Gaume e Puzrin portano in evidenzia è che i giovani – pur essendo degli esperti alpinisti – vennero ingannati dalla conformazione del territorio dove decisero di accamparsi.

Picconando la tenda in quel luogo e tagliando la neve per poter fissare il proprio campo base, hanno dato inconsapevolmente inizio allo smottamento che si è trasformato dopo poco in una slavina che li travolse e uccise.

 “Se non avessero tagliato il pendio, questa tragedia non si sarebbe consumata” (Alexander Puzrin).

Quest’ultima ipotesi non è stata accolta con molto clamore o giubilo:

Le persone non vogliono credere che sia stata una valanga. È una spiegazione troppo normale” (Johan Gaume)

Dopo tutti questi anni intorno all’incidente del Passo Dyatlov continuano ad aleggiare mistero e supposizioni.

Come se niente e nessuno fosse capace di spiegare in modo concreto, cosa capitò veramente:

La verità è che nessuno sa cosa accadde davvero quella notte. Ma quanto abbiamo scoperto indica che l’ipotesi valanga è assolutamente plausibile” (A. Puzrin)

L’incidente del Passo di Dyatlov consolida e conferisce alla natura il ruolo di unica e imperitura testimone e (forse) carnefice delle infauste sorti di:

Igor Alekseevič Djatlov , capospedizione, 23 anni, Zinaida Alekseevna Kolmogorova, 22 anni

Ljudmila Aleksandrovna Dubinina, 23 anni , Aleksandr Sergeevič Kolevatov, 24 anni

Rustem Vladimirovič Slobodin, 23 anni , Jurij Alekseevič Krivoniščenko, 23 anni

Jurij Nikolaevič Dorošenko, 21 anni , Nikolaj Vladimirovič Thibeaux-Brignolles, 23 anni e

Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, 35 anni.

Relegando le loro vite spezzate al freddo silenzio di una morte senza colpevoli.

Fonti:

  • Midnight Factory: “La vera storia che ha ispirato il Passo del Diavolo”
  • Wikipedia: “L’incidente sul Passo di Dyatlov”
  • Montagna.tv: ”La storia horror del Passo di Dyatlov. Un mistero mai risolto”
  • National Geographic: ”Il mistero del Passo di Dyatlov: la scienza può spiegare il tragico incidente?”
  • Animali e Animali: ”L’incidente del Passo Dyatlov, una storia vera. Uno Yeti killer”
  • Corriere.it: “Mistero del Passo Dyatlov…”
  • Focus: ”La tragedia del Passo Dyatlov: fu davvero (solo) una valanga”
AMELIA SETTELE

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Pacifismo ipocrita sulla pelle degli ucraini

(Pacifismo) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Politica e Geopolitica

La guerra in Ucraina ha riportato alla luce un annoso dibattito fra i pacifisti senza se e senza ma e chi invece sostiene che la pace la si garantisce anche attraverso un’adeguata preparazione militare (si vis pacem para bellum).

SOMMARIO

Se i primi, i pacifisti, rifiutano l’uso delle armi e nello specifico caso dell’Ucraina rifiutano la possibilità di inviare anche armamenti difensivi al governo di Kiev, i secondi vorrebbero aumentare le spese militari e investire in armamenti almeno il 2% del PIL nazionale.

Vista da questa prospettiva sembrerebbe una battaglia ideologica senza alcuna possibilità di trovare un punto d’incontro, una soluzione reale.

Pacifismo, possibilità o utopia?

Vi è però un altro modo di guardare le cose, magari slegandosi dall’emotività del momento e ragionando con il metro della storia più che della cronaca.

Partiamo con il dire che siamo tutti d’accordo nell’affermare che l’uso delle armi dovrebbe essere escluso a priori, che nessuno dovrebbe trovarsi nella condizione di doversi difendere perché nessuno dovrebbe poter attaccare, aggredire militarmente altri paesi o territori o popolazioni.

Detto questo, che come aspirazione è senz’altro molto alta e condivisibile, c’è la realtà dei fatti.
Allo stato attuale delle cose nel mondo non è pensabile che ciò possa capitare e dunque occorre accettare il fatto che qualcuno, stato o gruppo terroristico che dir si voglia, sta usando le armi o ha intenzione di usarle o minaccia l’uso della forza.

Preso atto di questa realtà la questione è come ci si comporta con tali stati o gruppi terroristici?

Si segue l’idea del pacifismo a tutti i costi e si resta inermi?

Nel caso dell’Ucraina vuol dire restare a guardare mentre i russi massacrano anche i civili senza alzare un dito.

È giusto, è eticamente giusto?

Pacifismo. Il vero senso della non violenza

Fin da piccolo ho sempre ammirato la figura del mahatma Gandhi e ne ho fatte mie le idee di non violenza anche nelle battaglie per la giustizia e la verità.

Ma ricordo anche che Gandhi non ha mai detto che non violenza significa subire la violenza altrui senza far nulla.

Non violenza è rifiutare l’uso della forza come mezzo di risoluzione dei problemi, ma se è qualcun altro ad aggredirti tu hai tutto il diritto di difenderti, né più né meno di quanto dicono la maggior parte dei codici penali di quasi tutto il mondo, stando attenti alla proporzionalità della risposta rispetto all’offesa ricevuta.

Nel caso di un’aggressione personale se uno mi minaccia con una pistola e gli tiro un cazzotto è senz’altro legittima difesa per la legge, ma lo è anche moralmente.

Non è più legittima difesa se uno mi da uno spintone e io gli sparo un un fucile mitragliatore.

Se poi uno mi minaccia di farmi del male non sono mai autorizzato a “farmi giustizia” da solo.

Ancor meno se sono io a pensare che lui mi stia minacciando ma in realtà l’altro non ha fatto nulla in tal senso (il riferimento alla Russia di Putin è voluto!).

Pacifismo

Chiarito questo e tornando al problema ucraino che cosa dovrebbero fare gli stati democratici di fronte a un’ingiusta aggressione russa nei confronti dell’Ucraina?

Lasciare che i missili russi devastino le città e uccidano non solo i soldati ma anche i civili indifesi?

Non commento le affermazioni di chi, anche in ambito politico-istituzionale, afferma che gli ucraini dovrebbero arrendersi altrimenti il prezzo della benzina arriverà alle stelle.

Come se la liberà di un popolo fosse sacrificabile per una tanica di carburante in più!

Essere pacifisti non significa essere rinunciatari e lasciare al più forte campo libero.

Perché non agire, non intervenire, anche militarmente, questo significa: lasciare campo libero a chi invece non ha remore a usare la forza, a chi se ne infischia del pacifismo e usa le armi per i suoi scopi, legittimi o meno che possano apparirgli.

Al contrario, essere pacifisti, veri pacifisti, significa costruire le condizioni perché un domani nessuno possa più usare la forza e, per esempio, invadere uno stato vicino con qualsivoglia scusante.

Come?

Pacifismo. Il mondo unificato

Io un’idea ce l’ho ed è forse un po’ prematura rispetto alle condizioni storiche ma sono sicuro che con il tempo sempre più persone concorderanno con me.

Che cosa ha impedito ai paesi europei di farsi la guerra per quasi ottant’anni e possibilmente per non scendere mai in conflitto fra di loro nemmeno nel futuro?

L’unione, che noi adesso chiamiamo Unione Europea, che prima l’abbiamo conosciuto come CEE e prima ancora come MEC.

Se vi è vera integrazione allora il rischio del conflitto si riduce drasticamente, non dico annullato del tutto, ma reso talmente improbabile da essere prossimo allo zero.

Perché gli interessi comuni scoraggerebbero comunque colpi di testa, perché ci sarebbero deterrenze interne, e non tanto militari quanto economiche, culturali, di interesse nelle più varie accezioni.

Pacifisimo

La soluzione sarebbe dunque un mondo unificato sotto un governo universale tipo film di fantascienza?

Sì, ritengo che questa è, e non dico sarebbe ma uso apposta il presente indicativo “è”, l’unica strada perché la pace possa regnare ovunque e sempre.

Qualunque altra soluzione non potrà che essere nella migliore delle ipotesi transitoria, parziale, fallace se non addirittura controproducente come nel caso dell’Ucraina.

Non fornire armamenti a chi si sta difendendo è un crimine, perché sarebbe un voltarsi dall’altra parte e dire in nome di un presunto pacifismo che non possiamo macchiarci di vite umane fornendo armi senza tener conto che ci stiamo macchiando di vite umane lasciando che la Russia uccida indiscriminatamente cittadini ucraini, militari e civili, che non non hanno chiesto di essere in conflitto, che non sono scesi in guerra ma che sono stati aggrediti.

Se mentre sto camminando per strada vedo qualcuno che picchia o violenta una persona e non intervengo, magari anche solo chiamando le forze dell’ordine, sono moralmente (e legalmente) responsabile di quella violenza.

Inviare armi agli ucraini che difendono la loro terra, le loro città, il loro popolo, la loro libertà non è solo giusto, ma è anche un dovere morale che abbiamo noi occidentali se vogliamo continuare a chiamarci democratici e civili.

Pacifismo. Non quando è sulla pelle degli altri

Non stupisce che a essere contrario all’invio di armi e a nuove spese militari sia il Vaticano e Papa Francesco in particolare.

Il Sommo Pontefice è una guida spirituale e tenta fino all’ultimo di riportare all’uso della ragione i potenti (purtroppo con ben poche possibilità di successo).

Quello che stupisce è che a pensare che non si debbano inviare armi siano molti rappresentanti politici ai quali verrebbe da chiedere loro: e se fossimo noi al posto degli ucraini?

E fosse stata invasa l’Italia e paesi come Francia e Germania si voltassero dall’altra parte invocando il pacifismo?

Personalmente sono rimasto colpito dalla posizione degli ex partigiani, contrari all’invio di armi. Trovo quantomeno strana la loro posizione, visto quanto hanno fatto i partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale per tentare di scacciare l’occupante nazista.

Tra l’altro c’è appena stata la ricorrenza delle Fosse Ardeatine, reazione assurda dei nazisti all’attentato di via Rasella del 1943 dove persero la vita trentatré soldati tedeschi.

A quei partigiani che oggi dicono no all’invio di armi in Ucraina verrebbe da chiedere perché allora fecero quell’attentato, e molti altri peraltro, che si sapeva avrebbero portato a ripercussioni anche sui civili da parte dei nazisti?

Pacifismo. Aumentare la spesa militare per avere più pace?

Tornando al tema di partenza, la dicotomia fra pacifismo e aumento delle spese militari in realtà non esiste.

Oggi, in questo frangente storico, l’aumento delle spese militari non è solo legittimo ma anche doveroso per preservare gli spazi di libertà e democrazia che troppe guerre e troppi morti nel secolo scorso ci hanno lasciato in eredità.

Come impone il Trattato Atlantico la forza militare deve avere solo scopo difensivo e mai offensivo e contemporaneamente occorre che attraverso la diplomazia ma anche tutto il soft power possibile si riducano nel mondo gli spazi per le autocrazie o le dittature vere e proprie e nel contempo si creino sempre più legami e vincoli reciproci fra gli stati in modo da rendere sempre meno conveniente, e dunque sempre più improbabile, la nascita di nuovi conflitti.

Un giorno, che purtroppo so già di non poterci essere per vederlo, l’umanità si renderà conto che solo unendosi potrà salvarsi e allora sì che le spese militari potranno essere ridotte se non addirittura annullate perché non ci sarà più nessuno contro cui combattere.

Ma sino ad allora non parliamo di pacifismo senza se e senza ma, piuttosto chiamiamolo con il vero nome: o martirio se ci tocca in prima persona e siamo disposti a pagarne il prezzo, o ipocrisia se a pagarne le conseguenze sono solo altri lontani da noi!

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