Residential Schools, un vergognoso genocidio dimenticato

Residential Schools, un vergognoso genocidio dimenticato

(Residential Schools) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e StorieFatti e società e La Forza di indignarsi Ancora

Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 8 – Residential Schools, il genocidio dimenticato” su Spreaker.

Un sistema scolastico volto a “civilizzare” i figli dei Popoli Indigeni Canadesi ovvero le Residential Schools.

SOMMARIO

Le prime Residential Schools vennero inaugurate in Canada nel 1876.

Per Residential Schools s’intende un sistema scolastico basato su una rete di collegi istituiti per “civilizzare” i figli dei Popoli Indigeni Canadesi: Inuit, First Nations, Metis.

In questi Istituti si è perpetrato un vero e proprio genocidio, sistematico e culturale.

Un genocidio, dimenticato dalla storia.

Residential Schools. Come sono nate

Le Residential Schools vennero fondate dall’Indigenous and Northern Affairs Canada, struttura governativa Canadese, dopo l’approvazione dell’Indian Act del 1876 – principale Legge canadese sugli Indiani, nella quale veniva definito chi fosse “indiano” e quali diritti e divieti avessero i nativi canadesi registrati.

Gli Istituti venivano amministrati e gestiti da alcune organizzazioni religiose come la Chiesa Cattolica Canadese, la Chiesa Anglicana Canadese e la Chiesa Unita del Canada.

Per la precisione le Residential Schools sul territorio Canadese erano 118 – di cui 79 dipendevano direttamente dalla Santa Sede.

Residential Schools. Cosa s’insegnava in quei collegi?

S’istruivano gli aborigeni a diventare dei “bravi occidentali”.

Si perpetrava una colonizzazione più che subdola e incisiva perché: obbligando i bambini a separarsi dalle rispettive famiglie, s’interrompeva di fatto ogni forma di coinvolgimento emotivo, educativo e culturale con le proprie radici.

Residential Schools

S’impediva così la trasmissione e l’insegnamento della lingua, del patrimonio ancestrale di questi popoli alle loro nuove generazioni.

Tutto spacciato per “civilizzazione“, ma la storia che si nasconde tra quelle mura è di ben altra natura e sussurra, grida, scalcia per essere ricordata.

Perché nelle Residential Schools i bambini furono vittime di: umiliazioni verbali, abusi fisici, violenze sessuali, sperimentazioni di psicofarmaci, omicidi, sterilizzazioni.

Si millantava civilizzazione. Si attuavano nefandezze di ogni genere.

Residential Schools. Oltre 150.000 bambini, 6.000 morte accertate

Le informazioni raccolte e archiviate ci riportano ad un numero impressionante di piccole vittime.

Nel corso dei 120 anni in cui le Residential Schools furono operative, vennero allontanati dalle proprie famiglie più di 150.000 bambini.

6000 furono le morti accertate.

Circa 50.000 i bambini che invece scomparvero letteralmente nel nulla e più di 30.000 furono le cause inoltrate per abusi e violenze sessuali.

Nel 1907 la testata giornalistica “Montreal Star” pubblicò un’inchiesta nella quale si evidenziava che circa il 40% dei bambini ospitati nelle strutture moriva prima dei 16 anni.

Definì la situazione “una vergogna nazionale.” 

Ma nulla mutò.

Anche nel 1912, Peter Bryce – medico e funzionario del Dipartimento della Salute in Ontario – denunciò quanto avveniva all’interno degli istituti, pubblicando il saggio: The Story of a National Crime: Being an Appeal for Justice to the Indians of Canada; the wards of the nation, our allies in the Revolutionary War, our brothers-in-arms in the Great War.

Ma nulla cambiò.

Residential Schools. Thuth and Reconciliation Commission

Perché nel corso di tutti questi anni, nessuno – dai familiari dei bambini, agli inservienti, alle istituzioni stesse, come alle figure religiose all’interno delle Scuole Residenziali – ha mai fatto nulla di concreto per fermare il genocidio?

Residential Schools

Esplicativa è questa frase estratta dalla sintesi del rapporto finale della Truth and Reconciliation Commission (TRC: Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada):

Il governo canadese ha perseguito questa politica di genocidio culturale perché desiderava liberarsi dei suoi obblighi legali e finanziari nei confronti degli aborigeni e ottenere il controllo della loro terra e delle loro risorse. Se ogni persona aborigena fosse stata “assorbita nel corpo politico”, non ci sarebbero state riserve, trattati e diritti degli aborigeni.”

Ma voglio essere ancora più icastica per permettere alla verità di risaltare tra le pagine di questa storia, affermando che il sistema legislativo canadese non permetteva nessuna alternativa di miglioria o sospensione di questo programma, non tutelava le famiglie né tantomeno i bambini perché le vecchie normative canadesi dichiaravano che:

  • Gli Aborigeni erano legalmente e moralmente inferiori (istituiva le Residential Schools anche per questo)- Federal Indian Act del 1874. Legge attualmente in vigore.
  • Le famiglie indigene erano obbligate legalmente a firmare un documento che trasferiva i diritti di tutela suoi propri figli, alle scuole residenziali cristiane – Gradual Civilization Act, Legge del 1857. Inoltre chi rifiutava di firmare tale documentazione, veniva arrestato e perseguito con sanzioni economiche.

Il trasferimento legale dei diritti sui minori, comportava anche il trasferimento dei beni territoriali di quest’ultimi, in caso di morte.

Residential Schools. Oltre il genocidio, il lucro

Appena raggiunta la pubertà, molti gruppi di “ospiti” venivano sterilizzati.

Nel 1933 venne abrogata la Sterilization Law che ha permesso una poderosa e organizzata castrazione di massa dei ragazzi e ragazze nativi.

Nella British Columbia – provincia più Occidentale del Canada – la Sterilization Law è ancora attiva.

Voglio sbarazzarmi del problema indiano. Non credo che il paese debba proteggere continuamente una classe di persone che sono in grado di stare da sole … Il nostro obiettivo è continuare fino a quando non ci sarà un solo indiano in Canada che non sia stato assorbito nel corpo politica e non c’è questione indiana, e nessun dipartimento indiano, questo è l’intero oggetto di questo disegno di legge.” Duncan Campbell Scott, Dipartimento degli affari indiani, 1920.

L’ultima Residential Schools venne ufficialmente chiusa nel 1996.

Il Governo Canadese ufficializzò le scuse alle Popolazione Indigene, per quanto accaduto nelle Residential Schools, solo nel 2008.

Istituendo anche la “Truth and Reconciliation Commission” – Commissione di Verità e Riconciliazione- che non essendo stata dotata di poteri legislativi e giudiziali sufficienti, non ha potuto indagare in modo concreto sugli abusi testimoniati, o agire con procedimenti legali efficienti per arrestare i colpevoli.

Residential Schools

Nella legge finanziaria del 2010 il Governo Canadese s’impegnava a risarcire economicamente le vittime e le loro famiglie, supportandoli anche nel percorso psicologico ed emotivo.

A tutela delle testimonianze raccolte e visto il disaccordo nato tra le commissioni per i risarcimenti delle vittime, la Corte Suprema Canadese nel 2017 ha dichiarato che: le deposizioni raccolte durante i processi per il risarcimento su abusi e violenze, verranno conservate per 15 anni e poi distrutte.

A meno che, su esplicita richiesta dei legittimi interessati, la documentazione non venga archiviata e conservata.

La verità sulle Residential Schools ha lottato per essere scritta fra le pagine della Storia – tra denunce, tracce e tenacia – ma resta ancora oggi il fatto che nessun uomo o donna (mandante o esecutore) che abbia perpetrato questi crimini ne ha mai pagato le conseguenze.

È stata ammessa la verità, riconosciute le vittime, ma non perseguiti i carnefici.

I sopravvissuti ancora oggi portano cicatrici visibili sul corpo e quelle ancora più profonde nell’anima e non smettono di chiedere giustizia, anche in nome di chi ha perso la vita dentro quelle strutture.

Residential Schools. Una richiesta

Gli anziani del Consiglio hanno espressamente fatto questa richiesta:

[…] identificare il posto dove sono sepolti i bambini morti, affinché i loro resti vengano restituiti ai familiari per una degna sepoltura […], di identificare e consegnare le persone responsabili per queste morti […], di divulgare tutte le prove riguardanti questi decessi e i crimini commessi nelle scuole residenziali, consentendo il pubblico accesso agli archivi del Vaticano ed ai registri delle altre chiese coinvolte[…], di revocare le bolle pontificie Romanus Pontifex (1455) e Inter Caetera (1493), e tutte le altre leggi che sanzionarono la conquista e la distruzione dei popoli indigeni non-cristiani nel Nuovo Mondo[…], di revocare la politica del Vaticano che richiede che vescovi e preti tengano segrete le prove degli abusi subiti da bambini indigeni nelle loro chiese invitando le vittime al silenzio.

Dal 1876 al 1996…Tutto in nome della “civilizzazione“.

Ho sempre incolpato la scuola residenziale per aver ucciso mio fratello. Dalton era il suo nome. Non li ho mai, mai, mai e poi mai perdonati. Non so se mio padre e mia madre abbiano mai saputo come è morto, ma non l’ho mai scoperto. Ma so che è morto laggiù. Mi hanno permesso di [andare] a vederlo una volta prima che morisse, e non mi conosceva nemmeno. Era un ragazzino, sdraiato nel letto in infermeria, morente, e non lo sapevo finché non è morto. Sai, quella fu la fine della mia educazione.” Ray Silver, da “The Survivors Speak: A Report of the Truth and Reconciliation Commission of Canada


Fonti:

  • Ytali: il genocidio dimenticato
  • Indigenous Peoples Atlas of Canada: History of Residential Schools
  • Il mondo degli archivi: il complesso retaggio delle Residential Schools in Canada
AMELIA SETTELE

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Operazione Babylift. Scatole da scarpe e bambini Vietnamiti

(Operazione Babylift) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e StorieFatti e società e La Forza di indignarsi Ancora

Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 7 – L’operazione Babylift” su Spreaker.

Tra il 3 e il 26 Aprile 1975 venne attuata l’operazione di evacuazione denominata “Babylift” (ascensore per bambini).

SOMMARIO

La guerra del Vietnam fu un conflitto cruento molto lungo che durò circa vent’anni: dal 1 Novembre 1955 (data di costituzione del Fronte  di Liberazione  Nazionale Filo-Comunista) al 30 Aprile 1975 (caduta di Saigon)  che vide l’esercito Americano supportare il governo del Vietnam del Sud e combattere  le milizie del Vietnam del Nord.

Uno scontro che ha delineato la storia di entrambi i paesi coinvolti e per il quale sotto alcuni aspetti il mondo ancora oggi, ascolta    gli echi e vive le sue conseguenze.

In Vietnam il conflitto viene anche ricordato come: “Guerra di Resistenza contro gli Stati Uniti”.

Operazione Babylift. Una costola di “Operation New Life”

La storia che sto per raccontarvi, si svolge pochi giorni prima del ritiro delle truppe statunitensi dal conflitto.

Esattamente tra il 3 e il 26 Aprile 1975 venne attuata l’operazione di evacuazione denominata “Babylift” – “ascensore per bambini”.

È subito importante sottolineare che l’operazione “Babylift” è una costola “preziosa” dell’altro  esodo vietnamita, promosso e organizzato dagli Americani , passato alla storia come Operation New Life”.   

Il quale    permise – attraverso un ponte aereo americano – l’espatrio di circa 110.000 civili verso l’Occidente.

Operazione Babylift. Solo neonati e bambini

Per la precisione, l’operazione “Babylift“ ebbe come protagonisti esclusivamente neonati e bambini (per lo più orfani) provenienti dal Vietnam del Sud.

Operazione Babylift

Ne furono imbarcati circa 3.300, ma il numero esatto non è mai stato reso pubblico o ufficializzato.

I contingenti americani permisero  un vero e proprio espatrio di massa volto ad allontanare i bambini dal proprio paese.

Al fine di essere messi al sicuro e adottati da famiglie in grado di accoglierli.

Va altresì sottolineato che il governo degli Stati uniti approvò e organizzò l’evacuazione sotto richiesta delle associazioni umanitarie che operavano sul territorio in quel periodo.

Associazioni come: International Orphans ” (oggi Childhelp), “la Fondazione Pearl S. Buck” e molte altre.

Le organizzazioni umanitarie vista la situazione del paese, credettero più giusto allontanare quanti più orfani e neonati possibili dagli scenari che si andavano a delineare all’orizzonte.

Convinte come erano di non essere più in grado di supportarli e crescerli come fino ad allora avevano fatto.

Ad accogliere tale richiesta fu il Presidente Gerald Ford.

Il quale dichiarò di aver progettato l’evacuazione organizzando 30 voli di grandi aerei da trasporto (come il C-5 A Galaxy).

Aerei che garantivano a un folto numero di piccoli passeggeri di arrivare verso luoghi sicuri come: l’America, il Canada, l’Australia e la Francia.

Per poter ricominciare una nuova vita con le famiglie d’adozione sparse per il mondo.

Operazione Babylift. Distacco doloroso

La maggior parte tra neonati e bambini arrivarono all’aeroporto internazionale mentre Saigon era sotto bombardamenti.

Tra gli ultimi devastanti atti di una guerra che sembrava non avere più fine, i giovani protagonisti di questa pagina storica vennero fatti salire a bordo, tra il rumore agghiacciante delle bombe e i sospiri di chi rimaneva a terra.

Oltre agli orfani, ad infoltire il numero di piccoli passeggeri inconsapevolmente pronti per essere imbarcati, ci furono anche molti bambini.

Questi ultimi lasciati tra le braccia dei militari dalle stesse famiglie d’origine.

La maggior parte di esse avevano appoggiato e supportato gli Americani e pertanto decisero di vivere questo sacrificio perché convinti di garantire un futuro migliore ai propri figli.

Migliore rispetto a quello che li avrebbe attesi se fossero rimasti con loro.

Infatti le ripercussioni per tanti sud-vietnamiti furono di una brutalità enorme.

Tra i passeggeri del ponte umanitario molti erano ancora in fasce, tanto da essere imbarcati e custoditi  dentro scatole di scarpe improvvisate come culle.

Un giaciglio inconsueto che però garantiva loro un riparo per affrontare il lungo viaggio aereo.

Operazione Babylift. Un disastro terribile

Purtroppo non tutto filò liscio e il primo aereo a decollare con a bordo i bambini rifugiati, ebbe un incidente.

Poco dopo le 16 del 4 aprile 1975, il Lockheed C-5 Galaxy decollò dall’aeroporto Saigon-Than Son Nhat per schiantarsi appena dodici minuti più tardi.

Si contarono 153 vittime, di cui 78 bambini.

La disgrazia colpì l’opinione pubblica in modo incisivo e saltò agli occhi anche l’urgenza di portare via a ritmo più serrato sia i bambini che gli altri rifugiati.

A seguito della tragedia e con lo scarseggiare dei veicoli militari utili per portare avanti l’emigrazione, tutta l’operazione ebbe un rallentamento.

Solo l’aiuto provvidenziale dell’uomo d’affari Robert Macauley che noleggiò – a proprie spese – un Boing 747 della compagnia Pan Am, permise di far partire più di 300 bambini.

Per far fronte a tutte le spese del viaggio, Macauley ipotecò la sua casa.

Operazione Babylift. Polemiche

Sin da subito l’operazione Babylift accese e fomentò molti dibattiti.

Anche se nata come “operazione umanitaria”, non tutti l’accolsero come unica soluzione possibile e giusta nei confronti di questi minori.

Sicuramente fu un corridoio umanitario senza precedenti fino a quel momento storico, che merita pertanto di essere ricordato.

Com’è anche vero che molti sud-vietnamiti che avevano appoggiato le truppe americane, pagarono un contraccolpo altissimo dopo l’abbandono statunitense.

Delineando un panorama che avrebbe reso difficile la sopravvivenza anche ai piccoli rifugiati, espatriati grazie all’operazione Babylift.

Operazione Babylift. Distacco doloroso

Oggi, molti di quei neonati che furono adagiati dentro scatole di scarpe, come alcuni di quei bambini ammassati nelle fusoliere dei grandi aerei americani sono cresciuti.

Alcuni di loro hanno fondato l’Operation Reunite – un’organizzazione senza scopo di lucro – che anche grazie alla rete ha permesso a molti di loro di ritrovare le proprie famiglie d’origine.   

Affidando ai test del Dna la possibilità concreta di ritrovare i parenti biologici.

Allontanati dal conflitto, cresciuti al sicuro, non hanno comunque mai abbandonato le loro radici e ancora adesso cercano la propria identità familiare e culturale.

Vista l’attuale situazione mondiale è difficile non rievocare L’operazione babylift come un vero e proprio dejà vu con il suo clamore e il suo dolore.

Capace di riflettere un’altra pagina storica da poco scritta che risalta agli occhi l’ennesimo ritiro delle truppe americane da una terra dilaniata da un conflitto ventennale, che porta il nome di Afghanistan.

La storia si ripete, ma l’uomo non impara.


Fonti:

  • Istorica: “L’Operazione Babylift, la grande evacuazione americana”
  • Vanilla Magazine: “Da Saigon in una Scatola da Scarpe: la rocambolesca Operazione Babylift alla fine della Guerra del Vietnam”
  • Wikipedia: “Operazione Babylift” e “Guerra in Vietnam”
AMELIA SETTELE

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Marie Laveau, la Regina del Voodoo di New Orleans

(Marie Laveau) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e StorieFatti e società, Pagine Svelate.

Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 5 – Marie Laveau, la Regina del Woodoo di New Orleans” su Spreaker.

New Orleans è considerata uno dei luoghi più affascinanti del mondo, epicentro di magia e mistero. La sua storia come la sua cultura e il suo folklore sono unici e a impreziosirli ci sono personaggi di notevole rilevanza documentata, come la protagonista di cui sto per raccontarvi: Madame Marie Laveau, la Regina del Voodoo.

SOMMARIO

Nel corso del tempo la Voodoo Queen è diventata l’emblema di avvenimenti pervasi di sortilegi e arcani segreti che continuano a stregare e sedurre.

Ambasciatrice di una religione che da sempre ammalia e intimorisce.

Una donna tanto atipica per i suoi tempi quanto – sotto molti aspetti – pioniera dei nostri, che della Religione Voodoo resta ancora oggi una delle sue più grandi divulgatrici.

Marie Laveau. La Religione Voodoo

Il Voodoo (o Voudu, Vudù) è una delle religioni più antiche al mondo.

La parola Voodoo deriva da “Vodu”, termine africano che significa “Spirito” o “Divinità”.

Siamo abituati ad associare a questo culto immagini tetre e ambigue, ma il Voodoo è a tutti gli effetti una Religione con i propri liturgie, divinità e riti.

Nasce in Africa e viene diffusa in America con l’arrivo degli schiavi, prendendo piede soprattutto nel Sud.

Ha caratteri esoterici e sincretici.

Per culti sincretici s’intendono tutte quelle confessioni tradizionali che con l’arrivo del colonialismo, entrano in contatto con il cristianesimo, unendo e mescolando elementi tradizionali con i riti cristiani.

Il Voodoo è un culto che si basa sulla venerazione della natura e dei propri antenati.

Vi è una profonda convinzione che il mondo dei vivi coesista con quello dei morti, in un connubio perfetto per il quale fanno da tramite i “Loa” – Spiriti guida che agevolano la convivenza.

Le cerimonie Voodoo sono riti intrisi di gesti e ricordi primitivi, mentre l’idea del peccato è molto semplice.

Chi pratica questo credo dovrebbe sempre compiere buone azioni, qualora non se ne compissero si verrà puniti.

Il Voodoo nato e praticato in Africa “sfuma” e si differenzia da quello che viene professato in America.

È meno contaminato dalla cultura colonialista per cui è stato boicottato e tacciato come un credo volto solo alla stregoneria e alla magia nera.

Ma non è così, infatti il Voodoo ha divinità solari e pacifiche da adorare, che prendono il nome di Loa Rada.

Mentre il Voodoo maggiormente conosciuto è quello nato dalla sofferenza che accomuna e si manifesta nella corrente americana, influenzata dal dolore degli schiavi neri deportati negli Stati Uniti.

La disperazione causata dalle deportazioni e dalla schiavitù generò il culto oscuro, le cui divinità prendono il nome di Loa Petro e sono vendicativi, dispotici e furiosi.

Marie Laveau. I tre elementi principali del Voodoo

Il Sacrificio: è la base di ogni rito e pratica.

Ogni sacrificio è volto a dare energia utile al Loa prescelto, per arrivare a manifestarsi sulla terra.

Nella maggior parte dei casi, il sacrificio si compie con carne animale, ma sono bene accetti anche elementi come tabacco e caffè.

I Veve: sono i simboli attraverso i quali si contattano i Loa.

La Possessione: avviene da parte del Loa verso il Sacerdote (o Sacerdotessa) che l’ha invocato.

A seconda delle esigenze e richieste si deve invocare il Loa specifico.

Quelli più comunemente conosciuti sono:

Papa Legba: Custode dei due mondi.

È una divinità che viene dal culto Rada (quindi solare) e spesso viene raffigurato come un vecchietto con cilindro per cappello e un bastone.

È colui che “apre la porta” e permette ai vivi di parlare con le divinità.

È patrono della stregoneria.

Baron Samedi: Signore della Morte. Re dell’aldilà e della vita oltre la vita.

A lui, prima o poi tutti si prostreranno.

È il Signore della magia nera e il mito degli zombie è legato al suo nome.

È in assoluto il Loa più temuto e rispettato.

Maman Brigitte: La Regina del Cimitero. Moglie di Baron Samedi, è l’unica Loa di carnagione chiara.

È un Loa potente e la tradizione narra che ami cantare e ballare nei cimiteri, dove protegge solo determinati sepolcri contraddistinti da croci particolari.

Met Kalfou: la traduzione del suo nome in Creolo è Signore dei Crocicchi.

Questo Loa è la parte oscura di Papa Legba. Entrambi sono l’uno complementare all’altro.

È lui il vero padrone della magia e governa tutti gli spiriti della notte e le anime perse.

Se Papa Legba è luce, lui è tenebra.

Se Met Kalfou è guerra, Papa Legba è pace.

Se Papa Legba è un anziano arzillo, Met Kalfou è un giovane sfacciato e affascinante.

Erzulie: Signora dell’amore, del fascino e della sensualità.

Protegge i sogni e le speranze di ognuno, ha tre mariti ma conserva la sua verginità in quanto il suo amore trascende la fisicità.

La lista dei Loa è in continua evoluzione e cambiamento.

A parte le principali Divinità – alcune appena citate- anche le anime degli uomini e delle donne meritevoli, possono essere elevati a divenire Loa.

Madame Marie Laveau, Regina del Voodoo è una di loro.

Marie Laveau. La storia

Madame Laveau è stata una maga, religiosa e praticante del Voodoo della Louisiana.

Nata a New Orleans probabilmente il 10 Settembre 1784 – anche se alcune fonti, dichiarano che fosse il 1801 – da una fugace relazione tra il ricco proprietario terriero Charles Laveau e Margherite H. D’Arcantel, una schiava liberata.

Le informazioni più concrete sulla vita di Madame Marie non sono molte e non tutte troppo attendibili, ma di sicuro si sa che la giovane è la prima persona della sua famiglia a nascere libera.

Vive con i suoi parenti nel Vieux Carrè – il quartiere francese – una delle zone più antiche della città.

Ha un carattere forte, risoluto e volitivo.

Sguardo incisivo, occhi d’ebano, pelle ambrata e lunghi capelli neri e ricci a incorniciarle il volto.

Capelli che crescendo amerà raccogliere in eccentrici e colorati ritagli di stoffa, trasformando queste acconciature in un vero e proprio segno di riconoscimento.

Grazie al supporto del padre riesce a imparare a leggere e scrivere.

Viene Battezzata con Rito Cristiano, ma sin da bambina la madre la indottrina alla pratica dei riti Voodoo, che Marie professerà per tutta la vita.

Marie Laveau

Si sposa giovanissima, appena diciottenne, convola a nozze con un uomo creolo haitiano di nome Jacques Paris.

Dal 1824 dell’uomo si perdono le tracce, pur non essendoci nessun certificato di morte a confermare la sua fine, Jacques sembra essere letteralmente svanito nel nulla.

Marie inizia a farsi chiamare Vedova Paris.

Della loro relazione resta solo il certificato di matrimonio, conservato nella Cattedrale di San Luigi.

Marie e Jacques hanno avuto due figlie, anch’esse scomparse inspiegabilmente.

Dopo la misteriosa fine del suo primo matrimonio, inizia una lunga relazione con Louis Cristophe Dumesnil de Gliapon uomo statunitense di origini francesi che commercia terre e schiavi.

I due staranno insieme per tutta la vita, ma non potranno mai sposarsi a causa delle dure leggi contro la mescolanza razziale.

Leggi introdotte nel XVII secolo nell’America Settentrionale e rimaste in vigore in molti Stati sino al 1967.

Imponevano attraverso una serie di atti legislativi la segregazione razziale e l’impossibilità di unirsi in matrimonio, come ad avere rapporti sessuali, tra persone appartenenti a razze diverse.

Si narra che Marie e Louis Cristophe insieme hanno quindici figli.

Solo due di loro, Marie Eloise Eucharistie e Marie Philomène raggiungeranno l’età adulta e avranno un ruolo nell’eredità religiosa post mortem della Regina del Voodoo.

Anche la scomparsa di Louis Cristophe, come quella del primo compagno di Marie, è avviluppata nel più totale mistero.

Madame Laveau è una donna che non si dedica solo alla famiglia e alle pratiche del Voodoo, ma è anche un’imprenditrice.

Avvia un’attività di parrucchiera a New Orleans che, sin da subito, riscuote particolare consenso.

Tra le sue clienti non mancano le donne benestanti e più influenti della città che, si sussurra, non richiedano solo acconciature o trattamenti di bellezza, ma anche servizi extra come: pozioni e incantesimi.

Marie accetta le richieste sia dalle persone meno abbienti che dagli esponenti più in voga di New Orleans.

Leggenda vuole che nel retrobottega della sua attività offrisse tali servigi, concretizzando la sua figura di Sacerdotessa Voodoo.

Il deposito adibito a tali pratiche è anche il luogo dove custodisce le sue formule e i suoi ingredienti utili per creare gli amuleti e le pozioni, come: erbe, pietre, capelli e ossa.

Svolge i suoi riti Voodoo non solo nel retrobottega, ma anche in altri tre ambienti distinti e specifici:

  • La sua casa a St. Anne Street, dove officia cerimonie e riceve i clienti.
  • Sulle rive del Lago Pontchartrain – a Bayou St. John– dove si svolgono le cerimonie d’iniziazione ai nuovi adepti del Voodoo. Eventi importanti e affollati nei quali Madame Marie viene sempre affiancata da un Re Voodoo.
  • Congo Square, una piazza pubblica divenuta nel tempo ritrovo domenicale per schiavi ed ex schiavi, dove Marie Laveau incontra la sua gente per pregare.

In ogni occasione, Madame Marie manifesta il suo carisma e le sue capacità tanto che le voci inerenti alla sua magia definiscono i suoi sortilegi talmente potenti, da riuscire ad arrivare a colpire non solo il malcapitato, ma anche le sue future generazioni!

Ad accompagnarla nei suoi riti c’è sempre l’amato serpente Zombie (in onore di una divinità Voodoo Africana).

La storia sussurra che a darle le giuste competenze e ad accrescere le sue capacità nella magia nera sia stato un ex schiavo, personaggio inquietante ed enigmatico passato alla storia con l’appellativo di Dottor John o “Re Voodoo” di New Orleans.

Marie Laveau. La Regina di New Orleans

Marie Laveau è una donna capace di divenire punto di riferimento di un’intera comunità, formata in maggior numero da creoli ed ex schiavi.

In lei vedono forza e capacità di aiutare il prossimo bisognoso, non tirandosi mai indietro.

Indubbio il suo fascino e la sua empatia soprattutto nei confronti degli ultimi, di cui ne diventa la paladina.

È rispettata e temuta in egual misura da tutta la comunità cittadina e lei sfrutta questa sua posizione anche per aiutare i più disagiati.

Riuscendo a tessere una rete concreta di supporto e aiuto per schiavi, ex schiavi e condannati a morte.

Madame Laveau è una Sacerdotessa fiera e preparata, che nasconde un animo nobile e volenteroso.

In molti però la paventano e cercano di ucciderla.

Si vocifera che persino il suo secondo compagno tentò di assassinarla, ma Marie riuscì a sventare l’attentato, lanciando una terribile maledizione:

[…] Durante la notte decine di persone affermarono di aver visto in strada un “branco di ombre mostruose” penetrare negli alloggi dove erano ospitate le guardie e la mattina seguente i 15 uomini furono trovati massacrati e con il collo spezzato; […] l’unica giustificazione che riuscirono a fornire le autorità della Louisiana fu che un orso fosse entrato nella stanza chiusa a chiave, al secondo piano e li avesse uccisi. Gli abitanti di New Orleans non ebbero dubbi: era opera della magia nera di Madame Laveau.

Marie Laveau. La morte

Come molti aspetti e periodi della sua vita, anche la morte di Madame Marie è avvolta nell’oscurità.

Alcune fonti ci dicono che sia morta nel 1835, a soli 41 anni.

Tesi mai del tutto accertata per la mancanza di documenti che ne attestino la veridicità.

Mentre secondo altri il trapasso delle Regina del Voodoo è databile il 15 Giugno 1881.

Fatto comprovato da un certificato di morte che attestava il decesso di Madame Marie Glapion Laveau alla veneranda età di 86 anni.

Ma anche dall’obituario pubblicato il giorno seguente sul quotidiano The New Orleans Daily Picayune che recitava queste parole: donna di grande bellezza, intelletto e carisma, che era anche devota, caritatevole e un’abile guaritrice con le erbe”.

In molti dichiararono di aver incontrato Madame Laveau nei giorni successivi alla sua (presunta) morte, alimentando il suo mito e il suo mistero.

Certo è che ancora oggi la sua tomba – che si presume possa essere quella sita nel più antico cimitero cattolico di New Orleans – al Saint Louis Cemetery numero 1, attiri migliaia di visitatori da tutto il mondo.

Anime inquiete che rendono omaggio al suo mito, lasciando segni concreti del loro passaggio come le tre X sulle pareti della Cappella, sperando che la Regina del Voodoo ascolti ed esaudisca le loro richieste.

Purtroppo non possiamo negare che la storia spesso releghi ai confini donne di questa caratura.

Madame Laveau, forse, ne è l’esempio più concreto.

Nata donna in un’epoca in cui la società, le influenze religiose e di costume non permettevano alle ragazze di poter immaginare un futuro diverso da quello già scritto, ghettizzandole tra obblighi e doveri.

Lei è un grido di libertà e di forza che neppure la storia è riuscito ad azzittire.

Permettendo all’eco che mescola e richiama ai canti di un culto atavico e immortale come quello di cui la Laveau fu fiera Sacerdotessa, di continuare a vibrare insieme al suo nome.


Fonti:

  • Site.Unibo: “L’anima mistica di New Orleans: Marie Laveau la Regina del Voodoo”
  • Satanisti la nostra verità: “Voodoo, storia e origine”
  • National Geographic: “Marie Laveau, la Regina Vudù di New Orleans”
  • Vanilla Magazine: “Marie Laveau, la vera storia della Regina del Voodoo di New Orleans”
  • Britannica: “Marie Laveau, Regina Vodou Americana”
AMELIA SETTELE

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Irma Grese, “la Bestia Bionda” di Auschwitz

(Irma Grese) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie, Fatti e società e La Forza di indignarsi Ancora

Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 2 – Irma Grese, “la Bestia Bionda” di Auschwitz” su Spreaker.

L’Olocausto perpetrato dal Terzo Reich tra il 1933 (ascesa al potere di Hitler) e il 1945 (27 Gennaio 1945, liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa), portò alla morte di oltre 17 milioni di persone: donne, uomini, bambini.

17 milioni di persone: ebrei, Rom, omosessuali, malati mentali, dissidenti politici, testimoni di Geova, infermi.

Si è giustamente spinti a pensare alla vittime, ai nomi, alle sembianze.

Il più delle volte sono nomi che evocano futuri mai vissuti, vite spezzate, corpi mai ritrovati.

Famiglie distrutte, legami annientati, tra la polvere da sparo e il delirio dei folli.

Quello che perpetrò il regime nazista nel mondo è ancora oggi un macigno che incombe sulle pagine della storia dell’uomo.

Irma Grese. La bestia bionda

Non possiamo dimenticare. Non dobbiamo.

Ed è giusto anche ricordare chi non è stato vittima, ma carnefice.

Perché il male ha un volto, occhi, espressioni e carattere.

Irma Grese

A rappresentarlo in questo spicchio di racconto è una ragazza tedesca, passata alla storia con più appellativi.

Uno più infausto dell’altro: “la bestia bionda”, “la iena”, “la bella bestia”.

Lei si chiamava Irma Grese ed è stata una delle carceriere più efferate e crudeli di Auschwitz.

Irma Grese. Un passato difficile

Irma nasce a Wrechen in Germania, il 7 Ottobre 1923.

Sin da bambina sogna di divenire infermiera, ha un carattere timido e riservato.

Nel 1936 tutto cambia nella sua vita, quando la madre si suicida.

Un lutto dilaniante che la colpisce nell’età dell’adolescenza e dal quale si susseguono importanti cambiamenti.

Da giovane mite e tranquilla, diventa spietata e senza scrupoli.

Hanno inizio problemi comportamentali anche con i suoi coetanei, tanto da spingerla a ritirarsi da scuola a soli 15 anni.

Pur vivendo con il padre – fervente oppositore di Hitler – Irma è completamente soggiogata dall’ideologia nazista.

Nel Fuhrer e nelle sue promesse, crede di poter realizzare la propria vita.

Irma Grese. L’adesione al nazismo

S’iscrive alla Lega delle ragazze tedesche (Bund Deutscher Mädel), un’organizzazione di giovani Naziste.

Tenta di concretizzare il suo sogno d’indossare la divisa d’infermiera senza riuscirci, mai.

Ma le scelte che intraprese la portano sì a vestire una livrea, ma la più pericolosa e maledetta: quella delle SS.

A 19 anni inizia a lavorare come guardia nel campo di concentramento femminile di Ravensbruck.

Grazie alle sue “doti”, fa presto carriera e solo un anno dopo viene trasferita ad Auschwitz.

Irma Grese

Luogo dove il suo nome e le sue crudeltà diventano un connubio mortale per i prigionieri, e motivo di vanto tra i gerarchi nazisti.

Quando il padre viene a sapere del trasferimento della figlia e delle sue mansioni nel campo di concentramento, la caccia di casa.

Lei lo denuncia e l’uomo viene recluso.

Irma indossando quell’uniforme, dona il peggio di sé perpetrando torture e indicibili nefandezze su donne e bambini.

Irma Grese. Sadica, crudele, efferata

Sul suo volto, sino alla fine, non traspare dubbio o colpa.

Irma svolge il suo “lavoro” con dedizione, passione e malefica capacità.

Riesce a conquistare l’ambito grado (tra le donne SS) di: Supervisore Capo.

I sopravvissuti raccontano che “La Bestia Bionda” era la più temibile, capace d’infliggere torture sino a quando non vedeva la vittima prescelta esalare l’ultimo respiro.

Amava scegliere le prigioniere da spedire nelle camere a gas soprattutto per la loro bellezza.

Picchiava, violentava le donne costringendo alcune di esse ad assistere allo scempio, allo stupro delle proprie malcapitate compagne.

Arrivò a sciogliere i cani – lasciati senza razioni per giorni – per farli cibare delle carni dei prigionieri.

Irma Grese. Il mostro in mezzo ai mostri

I suoi stessi colleghi la definivano crudele.

Osò essere il mostro, in mezzo ai mostri.

Testimonianze affermano che fu sempre lei a far montare dei paralumi creati con la pelle dei deportati.

Nefandezze, espressioni di una disumanità pari a pochi che le permisero di scalare i vertici del potere nazista all’interno dei campi di concentramento di Ravensbruck, Auschwitz e Bergen-Belsen.

Venne arrestata dall’esercito Britannico il 17 Aprile del 1945, insieme ad altre SS.

Durante tutto il processo di Belsen, non ebbe mai un attimo di pentimento.

Irma Grese

Fiera, concreta e insolente non rinnegò mai i suoi ideali né le sue decisioni.

Venne condannata alla pena massima: impiccagione come criminale di guerra

Aveva 22 anni al momento dell’esecuzione, le sue ultime parole furono: “Schnell” (rapidamente).

Quella rapidità che non offriva mai alle proprie vittime, per le quali godeva nel seviziarle.


Fonti:

  • Gulliber: La bella Bestia di Auschwitz
  • Berlino Magazine: Irma Grese, la Bella Bestia di Belsen
  • Bet Magazine Mosaico: Nazismo al femminile: Irma Grese e le altre
AMELIA SETTELE, Bolivia

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Cecil Hotel ha ispirato “The American Horror Story”

(Cecil Hotel) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili

Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 3 – Cecil Hotel” su Spreaker.

Cecil Hotel, l’inquietante albergo che ha ispirato la serie TV “The American Horror Story”

SOMMARIO

640 S Main St, Los Angeles, CA 90014, Stati Uniti: risponde a questo indirizzo il tristemente famoso Cecil Hotel.

Uno dei luoghi più ambigui ed inquietanti che siano noti.

Teatro di omicidi irrisolti, suicidi, brutali incidenti e l’infelice primato di aver ospitato almeno due feroci serial Killer tra le sue stanze.

Cecil Hotel. Costruito negli anni ’20

Una fama che conferma la maledizione del suo nome, tanto d’aver ispirato la famosa serie tv americana “The American Horror Story” .

Da qualche anno è stato classificato come edificio d’interesse storico culturale.

Ma per gli abitanti della città degli Angeli e per il resto del mondo, rimane uno degli alberghi più misteriosi e agghiaccianti della storia.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire

il telefono del vento

Costruito nel 1920 soprattutto per appagare le necessità degli imprenditori che erano di passaggio a L.A., l’hotel vanta ben 19 piani e 600 stanze.

Sin dalla sua progettazione il Cecil Hotel doveva essere un esempio dell’industria edile americana, per il quale venne spesa una cifra stratosferica: un milione di dollari.

Ma ben presto s’innescano più fattori che gli fanno perdere prestigio e lustro:

  • la grave e profonda crisi economica iniziata nel 1929
  • l’ubicazione nelle vicinanze di Skid Row, quartiere di pessima fama.

Skid Row ufficialmente conosciuto come Central City East – sin dalla Grande Depressione a oggi – è un sobborgo abitato prevalentemente da senzatetto, emarginati, tossicodipendenti e prostitute.

Ben presto infatti, il Cecil Hotel si convertì da albergo ad affittare camere.

I prezzi modici e la possibilità di soggiornarci a lungo termine, attirarono di fatto una vasta e variegata gamma di clienti.

Cecil Hotel. La maledizione

La maledizione del Cecil Hotel lo rende tristemente famoso negli anni ’50 – ’60 e ’70 come luogo prediletto per i suicidi.

Tanto da venire soprannominato “The Suicide”.

Cecil Hotel

Una lista di nomi (e di vite) che si allunga col passare degli anni:

  • nel 1931 viene registrato il suicidio di W.K. Norton, che decide di togliersi la vita ingerendo delle capsule piene di veleno.
  • nel 1934, il sergente L.D. Borden, si recide la gola con un rasoio.
  • nel Marzo del 1937, Grace E. Magro, cade dal nono piano dello stabile. Non si chiariranno mai le dimaniche dell’incidente per poter stabilire se fosse stato omicidio, o suicidio.
  • nel giugno del 1964, la pensionata soprannominata “Pidgeon Goldie”, viene trovata nella sua stanza: selvaggiamente picchiata, stuprata e accoltellata. Nessun colpevole pagherà per questo efferato crimine.
  • nel 1975, una donna sotto falso nome prenota la stanza 327. Ci rimane chiusa per quattro giorni, salvo poi decidere di suicidarsi buttandosi dal dodicesimo piano. La sua vera identità non verrà mai scoperta.

Non li ho volutamente citati tutti, ma non posso dimenticare uno dei cold case americani più famosi, che ha definitivamente etichettato il Cecil Hotel come “infestato e nefasto”.

Cecil Hotel. La tragedia

La tragedia avvenuta il 31 Gennaio del 2013 ha come protagonista una studentessa canadese di origine asiatiche di nome Elisa Lam.

Della giovane sono stati registrati gli ultimi angoscianti istanti di vita.

Elisa viene ripresa dalla telecamera di sicurezza posta nell’ascensore su cui sale.

Nel filmato è ben visibile la sua inquietudine che si manifesta in atteggiamenti davvero poco chiari o consoni al momento.

È agitata – come se qualcuno la seguisse – muove le mani in modo concitato e quasi innaturale.

Cecil Hotel

Nel video di circa quattro minuti, si evince chiaramente il profondo disagio in cui Elisa versa negli ultimi istanti di vita.

La ragazza lascia l’ascensore che subito dopo riprende la sua corsa, sparendo dall’occhio della telecamera.

Morirà di lì a poco.

Circa due settimane dopo, gli ospiti dell’albergo si lamentano alla reception perché l’acqua che fuoriesce dai rubinetti ha un odore nauseabondo e un colore stranissimo.

Vengono inviati i manutentori a controllare le cisterne sopra il terrazzo dell’hotel.

In una delle cisterne ispezionate, l’agghiacciante scoperta: viene rinvenuto il corpo nudo e in avanzato stato di decomposizione di Elisa Lam.

Cecil Hotel

Mille dubbi e supposizioni si fanno strada tra gli inquirenti.

Soprattutto perché risulta difficile capire come la ragazza sia arrivata ad aprire (e a richiudere) la cisterna e come abbia fatto ad eludere il sistema d’allarme per arrivare sin lassù.

Quello che dichiara l’autopsia è chiaro.

Elisa era sobria e non aveva assunto droghe al momento della morte.

Pur essendo affetta da un disturbo bipolare, il video pubblicato dalla polizia, come il suo tragico decesso lanciano molti dubbi e poche concrete verità.

Inoltre, la polizia ha presto chiuso le indagini, archiviando il caso come: “annegamento accidentale”.

Cecil Hotel. Oggi Stay on Main

Ancora oggi il Cecil Hotel – che è stato rinominato Stay on Main – è un albergo a tre stelle , aperto a tutti.

Conserva immutato nel tempo – tra i chiari scuri delle sue stanze e i lunghi corridoi – verità mai accertate e vite spezzate.


Fonti:

  • La Repubblica: L’albergo degli orrori diventa un monumento. Storia dell’Hotel Cecil e dei suoi misteri
  • Le foto che hanno segnato un’epoca: L’agghiacciante storia del Cecil Hotel, denominato l’Hotel dei suicidi
  • Metropolitan Magazine: Il caso di Elisa Lam: la 15ª morte “sospetta” al Cecil Hotel
AMELIA SETTELE

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Caligo legend: the fog that comes from the sea

(Caligo) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili

La nebbia arriva dal mare, sfiorando le onde e accarezzando la sabbia.

SOMMARIO

La sua leggenda accompagna i racconti dei marinai che lusingati dalle onde del mare, hanno tramandato il fascino suggestivo di questa storia.

Una storia che narra di anime perdute e inconsolabili che aspettano proprio questa nebbia per trovare la pace.

Caligo. La nebbia del mare

Scientificamente il fenomeno è definito come “la nebbia del mare”, anche conosciuto come “nebbia da avvezione”. 

Fenomeno che si forma quando l’aria umida passa per avvezione, movimento orizzontale dei flussi d’aria sopra il terreno freddo e viene così raffreddata.

Questo fenomeno è frequente sul mare quando l’aria tropicale incontra ad alte latitudini acqua più fredda.

È comune quando c’è molta differenza tra le temperature diurne e notturne, si dissolve non appena il sole, al mattino, comincia a scaldare l’aria.

Caligo. Dove si manifesta in Italia

Nel nostro Paese, le zone dove è facile che il fenomeno si manifesti (soprattutto a cavallo tra l’inverno e la primavera) sono le coste Apuane e quelle Liguri.

Se si osserva l’evento atmosferico sembra quasi che le acque lo sospingano verso l’entroterra, permettendogli di arrivare ad “abbracciare” la costa.

Caligo

Creando uno scenario gotico e surreale, complice anche la leggenda ad esso legata.

La nebbia del mare affascina e inquieta allo stesso tempo.

Fitti banchi di vapore acqueo sfiorano la superficie marina, mentre il profluvio continua il suo incessante ondeggiare e la sua costante magnificenza.

Caligo. Gli spiriti del mare

La fola popolare, che accompagna i sussurri della gente del mare ci permette di conoscere la “Leggenda del Caligo”.

Leggenda che narra che gli “Spiriti del mare” risalgano dagli abissi – avviluppati dalla nebbia – per trovare e liberare le anime afflitte, intrappolate tra la vita e l’aldilà.

Gli “Spiriti del mare” “raccoglierebbero” le anime perdute accompagnandole tra le onde.

Lasciando poi che il mare le culli e le quieti, permettendo loro di affrontare l’ultimo viaggio verso la pace e l’eternità.

Solo quando tutte le anime angosciate sono state ritrovate, la nebbia del mare scompare dalla costa lasciando di nuovo spazio al sole e al paesaggio marino che siamo da sempre abituati ad ammirare.

Suggestiva la leggenda, affascinante la nebbia che viene dal mare

Caligo. Insolite coincidenze

Ultimamente la Nebbia del Mare è stata avvistata in Liguria nei giorni della commemorazione delle vittime del Covid-19 e pochi giorni dopo il crollo del cimitero di Camogli.

Senza ombra di dubbio sono insolite coincidenze che rendono questi eventi straordinari segnali a cui la natura (o il fato, chissà?!) ha deciso di assistere generando il fenomeno. A testimonianza che ogni leggenda ha sempre una piccola fonte di verità… Difficile da credere, ma impossibile da spiegare.

Fonti:

  • Genova Today: La leggenda del Caligo
  • Il mio mondo libero: Caligo, la nebbia del mare. Curiosità e leggenda
  • Wikipedia: la nebbia da avvezione
AMELIA SETTELE

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Dyatlov, A Mystery Pass That Has Never Been Solved

(Dyatlov) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura

Russia, versante orientale dei Monti Cholatčachl’ – che in lingua Mansi (lingua obugrica parlata in Russia, nel distretto autonomo degli Hanti e dei Mansi) significa “Montagna dei Morti” – è nel freddo e nel silenzio di questo luogo che si dipanano gli inspiegabili eventi che vedono protagonisti nove escursionisti ritrovati privi di vita, nel 1959.

SOMMARIO

Solo più tardi il valico di montagna, palcoscenico della drammatica sciagura, verrà rinominato: Passo di Dyatlov”, in memoria del capo della spedizione Igor Dyatlov.

Quella che doveva essere un’escursione impegnativa e bellissima, si è tramutata in uno dei cold-case più inquietanti che la storia dell’alpinismo mondiale ricordi.

Dyatlov. Come inizia l’enigmatica storia

Il 23 Gennaio 1959 inizia il viaggio. 

Le notizie certe registrate prima dell’incidente, annotano che il 25 Gennaio la compagnia arriva in treno sino a Ivdel (città della Russia Siberiana Nordoccidentale).

Per poi spostarsi in camion fino a Vizhaj – l’ultimo distaccamento abitato.

Il 27 Gennaio il gruppo coordinato da Igor Dyatlov, prosegue l’escursione.

La comitiva è composta da esperti sciatori di cui otto sono uomini e due sono donne.

Dyatlov

Tutti provenienti dall’Istituto Politecnico degli Urali di Ekaterinburg (nove studenti e un professore di sport).

Affrontano un’escursione importante e ostica che li avrebbe dovuti condurre sino al Monte Otorten.

Il percorso scelto per quel periodo dell’anno è classificato di terza categoria ovvero, il più difficile.

Tra tutti i partecipanti solo uno si salva, in quanto un improvviso malore lo costringe a ritirarsi.

Il suo nome era Jurij Efimovič Judin, aveva 22 anni.

Si allontanerà dal gruppo il giorno dopo e sarà l’unico superstite.

Da quel momento la compagnia sarà formata da 9 membri.

Dyatlov. Un’esplorazione che sembrava tranquilla

Le macchine fotografiche, le cineprese e i diari ritrovati sul luogo del massacro sembrano dire qualcosa.

Testimoniano che il gruppo di escursionisti durante i primi cinque giorni di viaggio, aveva esplorato in totale tranquillità luoghi bellissimi e magnetici come: foreste e laghi ghiacciati.

Circondati da una natura vigorosa e polare. 

Il clima tra i viaggiatori era sereno e goliardico.

Nulla sembrava presagire quello che sarebbe accaduto.

Il 31 Gennaio arrivano sul bordo di un altopiano dove si preparano per iniziare la salita.

Organizzati al meglio, depositano anche scorte di cibo ed equipaggiamento validi da utilizzare durante il ritorno.

Il 1° Febbraio iniziano a percorrere il passo, ma una tempesta di neve intensa e minacciosa capace persino di disorientarli, li obbliga a deviare verso Ovest…

Verso la Montagna dei Morti.

Una tormenta che interromperà per sempre ogni tipo di comunicazione e notizia sul e dal gruppo.

Dyatlov. Le ricerche

Dyatlov aveva dichiarato che appena rientrati a Vizhaj avrebbe telegrafato alla loro associazione sportiva e alla famiglia.

Per rendere noto che la spedizione stava proseguendo senza problemi.

Mentre i giorni passavano, nessuno nell’immediato – vista la difficoltà dell’itinerario intrapreso e gli scarsi mezzi di comunicazione presenti a quel tempo- si allarmò.

Ma quando l’assenza di trasmissioni superò i giorni di ritardo accettabili e consueti, la preoccupazione portò anche i parenti dei ragazzi a sollecitare l’intervento dei soccorsi.

Interventi che vennero organizzati e fatti partire 25 giorni dopo. 

Inizialmente parteciparono alle ricerche solo volontari tra studenti e professori.

Più tardi vennero coinvolti l’esercito e la polizia che integrarono e supportarono le ricerche della comitiva anche con aeromobili.

Dyatlov. Il ritrovamento

È il 26 Febbraio quando viene ritrovata la tenda della comitiva, pesantemente compromessa e squarciata dall’interno.

Sin da subito si denota una anomalia in quanto l’accampamento – senza ragione logica alcuna – è collocato su un pendio ghiacciato e non nella foresta.

Come invece sarebbe stato più ideale e consono alle necessità del team.

Seguendo le numerose impronte che conducono verso il bosco – a pochi metri di distanza dal campo, sotto un albero di cedro – i soccorritori ritrovano i resti di un fuoco e i primi due cadaveri.

Sono quelli di Jurij Nikolaevič Dorošenko e Jurij Alekseevič Krivoniščenko.

Entrambi i corpi sono privi di vestiario (indossavano solo la biancheria intima) e sembrano essere deceduti per ipotermia.

Sui due poveri ragazzi non si evidenziano tracce di traumi o ferite visibili a occhio nudo.

Poco tempo dopo vengono rinvenuti anche i corpi di Igor Alekseevič Djatlov, Zinaida Alekseevna Kolmogorova e Rustem Vladimirovič Slobodin.

Vengono ritrovati tra il campo base e l’albero di cedro che ha custodito i corpi delle prime vittime. 

Dagli esami autoptici effettuati sui cadaveri, i medici dichiarano che la morte per ipotermia sembra essere la diagnosi più plausibile. 

Sposando questa tesi, i medici declassano l’importanza della frattura cranica rinvenuta su uno dei cadaveri ritrovati.

Gli inquirenti decidono anche che la carne ritrovata sulla corteccia del cedro, come alcuni suoi rami spezzati fino ad un’altezza di 4 metri, non abbiano necessità di trovare spiegazione e connessione valida, che possa far luce sull’incidente.

Dyatlov. Il disgelo restituisce altri corpi

Si dovranno attendere lo sciogliersi della neve e del ghiaccio – per un tempo utile di due mesi – affinché la montagna restituisca i corpi degli altri componenti del gruppo.

Ovvero quelli di Nikolaj Vasil’evič Thibeaux-Brignolles, Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, Ljudmila Aleksandrovna Dubinina e Aleksandr Sergeevič Kolevatov.

I resti vengono ritrovati il 4 maggio in un burrone dentro il bosco, tutti completamenti vestiti.

Al contrario dei primi, quello che raccontano i cadaveri degli ultimi è impressionante e angosciante perché i corpi riportano importanti fratture craniche e costali.

Sul cadavere di una delle due ragazze era stata divelta la lingua e strappati via gli occhi…

Una scena da brividi che narra una storia angosciante, intrisa di violenza e mistero.

Una vicenda che capovolge e annulla le tesi finora espresse sia dagli investigatori impegnati nelle indagini che dai medici coinvolti nelle necroscopie.

Dyatlov. Ma chi o cosa ha ucciso i ragazzi?

La natura ha restituito i corpi di tutti i membri della spedizione.

Gli elementi raccolti provano che quanto accaduto sulla Montagna della Morte si tinge di un mistero difficile da chiarire.

Eppure le indagini aperte dalle autorità russe si chiuderanno in un tempo veramente breve, vista la complessità dell’evento e il mistero che aleggia.

L’inchiesta ufficiale attribuisce la causa della tragedia del Passo Dyatlov a “Una Forza Naturale Misteriosa e Sconosciuta”.

Gli indizi raccolti provano che i ragazzi hanno tagliato la tenda dall’interno per fuggire come se qualcuno (o qualcosa) di estremamente pericoloso, fosse lì con loro e dal quale dovevano allontanarsi il più in fretta possibile.

Inoltre il vestiario della comitiva presenta un alto tasso di radioattività e sulla scena dell’incidente sono stati rinvenuti pezzi di metallo, mai ufficialmente identificati. 

I medici, per cercare di spiegare cosa abbia massacrato il gruppo, paragonano le ferite riportate dai cadaveri a quelle dei coinvolti negli incidenti stradali.

Una forza d’impatto mostruosa, ma che non ha lasciato segni evidenti.

Niente ematomi, escoriazioni o ferite lacero contuse.

L’impeto dell’urto ha procurato traumi interni irreversibili.

Dyatlov

Solo il volto di una delle due ragazze è stato brutalizzato con la rimozione degli occhi e l’estirpazione della lingua – l’autopsia non riuscirà mai a stabilire se la violenta rimozione fu effettuata pre o post-mortem.

Si pensa anche che i cadaveri ritrovati senza indumenti siano stati colpiti dal fenomeno dell’undressing paradossale.

Ovvero: l’irragionevole svestizione che vede protagonisti i soggetti in ipotermia i quali spogliandosi, avvertono una (illogica quanto illusoria) sensazione di riscaldamento. Percezione in realtà prodotta dall’alternarsi della vasocostrizione e della vasodilatazione che conducono il soggetto in ibernazione a percepire calore restando senza vestiti, mentre in realtà la temperatura corporea continua a precipitare.

Dopo il fenomeno dell’undressing paradossale, le vittime di ipotermia assumono la posizione a quattro zampe per strisciare sul terreno, per poi finire in posizione fetale e morire. 

Forse anche i primi corpi ritrovati sono stati colpiti da questo fenomeno?

Si è infatti arrivati a supporre che gli altri ragazzi della compagnia abbiano poi utilizzato i vestiti di cui si sono liberati i propri compagni per cercare calore e riparo.

Perché, dalla posizione del ritrovamento dei corpi, si è presupposto che una parte del gruppo stesse provando a rientrare all’accampamento, prima di rimanere ucciso.

Il mistero che avvolge questa storia si amplifica con elementi che sfiorano il surreale e trascinano l’incidente al Passo di Dyatlov verso racconti oscuri e teorie naturalistiche.

Dyatlov. Tesi, supposizioni e leggende

Con l’archiviazione (frettolosa) dell’inchiesta, si solleva sempre più curiosità e desiderio di conoscere una verità che non sembra assolutamente essere stata chiarita dalle indagini.

Indagini che assumono agli occhi del mondo i contorni sbiaditi di un “segreto di Stato”.

Gli anni passano, ma la tragedia del Passo di Dyatlov non viene dimenticata, anzi…

Si moltiplicano le teorie più disparate che vanno da una valanga, fino all’attacco alieno.

Vengono ipotizzati pericolosi esperimenti militari clandestini.

Testimonianze di altri esploratori coinvolti in escursioni in quella stessa zona e periodo, focalizzarono le teorie sull’avvistamento di “sfere arancioni” nei cieli dei Monti Urali.

Altri non erano se non missili balistici R-7 sparati come esercitazione speciale dall’esercito.

Non si può dimenticare la supposizione che vede protagonisti un gruppo d’indigeni Mansi.

Responsabili di aver aggredito il gruppo di ragazzi in modo efferato e brutale perché colpevoli di aver sconfinato nella loro terra.

Dyatlov

Si ipotizza addirittura che dietro alla morte dei giovani ci sia Almas, il mostruoso uomo delle nevi.

Insomma si moltiplicano le tesi, le storie sussurrate e si favoleggiano misteri e incredibili dinamiche.

Ma ai caduti e ai rispettivi familiari continua a mancare una concreta verità, plausibile e meritevole tanto da poter far riposare in pace le vittime e dare tregua ai loro cari. 

Intorno agli anni ’90 i fascicoli dell’inchiesta vennero desegretati facendo emergere nuovi indizi utili a perorare un’altra ipotesi che vede coinvolto l’utilizzo di una potentissima quanto ignota arma segreta russa. 

Nell’Ottobre del 2013 Donnie Eichar pubblica il suo romanzo “Dead Mountain: The Untold True Story of the Dyatlov Pass Incident” nel quale ripercorre il tragico incidente del Passo di Dyatlov.

Nel libro suggerisce la tesi della “tempesta perfetta”- un raro fenomeno naturale di una potenza talmente tanto devastante da essere in grado di creare numerosi micro-tornado e generare ultrasuoni impercettibili da orecchio umano.

Ultrasuoni in grado di alterare lo stato psico-motorio dei ragazzi, fino a compromettere la loro stabilità e lucidità inducendoli di fatto, a fuggire dalla tenda verso l’oscurità e la morte.

Dyatlov. Nel 2019 si riapre l’inchiesta

Gli studiosi chiamati a cercare di fare (finalmente) luce sulle vere cause della vicenda sono Johan Gaume, professore alla Scuola Politecnica Federale di Losanna e Alexander Puzrin del Politecnico di Zurigo. 

Attraverso i moderni strumenti a loro vantaggo e ricreano il possibile scenario di quella famosa notte del 1° Febbraio.

I due esperti dichiarano che solo una valanga di enormi proporzioni, può considerarsi la vera causa della tragedia sul Passo di Dyatlov.

Teoria che venne subito presa in considerazione anche dagli esperti, 63 anni fa. 

Quello che Gaume e Puzrin portano in evidenzia è che i giovani – pur essendo degli esperti alpinisti – vennero ingannati dalla conformazione del territorio dove decisero di accamparsi.

Picconando la tenda in quel luogo e tagliando la neve per poter fissare il proprio campo base, hanno dato inconsapevolmente inizio allo smottamento che si è trasformato dopo poco in una slavina che li travolse e uccise.

 “Se non avessero tagliato il pendio, questa tragedia non si sarebbe consumata” (Alexander Puzrin).

Quest’ultima ipotesi non è stata accolta con molto clamore o giubilo:

Le persone non vogliono credere che sia stata una valanga. È una spiegazione troppo normale” (Johan Gaume)

Dopo tutti questi anni intorno all’incidente del Passo Dyatlov continuano ad aleggiare mistero e supposizioni.

Come se niente e nessuno fosse capace di spiegare in modo concreto, cosa capitò veramente:

La verità è che nessuno sa cosa accadde davvero quella notte. Ma quanto abbiamo scoperto indica che l’ipotesi valanga è assolutamente plausibile” (A. Puzrin)

L’incidente del Passo di Dyatlov consolida e conferisce alla natura il ruolo di unica e imperitura testimone e (forse) carnefice delle infauste sorti di:

Igor Alekseevič Djatlov , capospedizione, 23 anni, Zinaida Alekseevna Kolmogorova, 22 anni

Ljudmila Aleksandrovna Dubinina, 23 anni , Aleksandr Sergeevič Kolevatov, 24 anni

Rustem Vladimirovič Slobodin, 23 anni , Jurij Alekseevič Krivoniščenko, 23 anni

Jurij Nikolaevič Dorošenko, 21 anni , Nikolaj Vladimirovič Thibeaux-Brignolles, 23 anni e

Aleksandr Aleksandrovič Zolotarëv, 35 anni.

Relegando le loro vite spezzate al freddo silenzio di una morte senza colpevoli.

Fonti:

  • Midnight Factory: “La vera storia che ha ispirato il Passo del Diavolo”
  • Wikipedia: “L’incidente sul Passo di Dyatlov”
  • Montagna.tv: ”La storia horror del Passo di Dyatlov. Un mistero mai risolto”
  • National Geographic: ”Il mistero del Passo di Dyatlov: la scienza può spiegare il tragico incidente?”
  • Animali e Animali: ”L’incidente del Passo Dyatlov, una storia vera. Uno Yeti killer”
  • Corriere.it: “Mistero del Passo Dyatlov…”
  • Focus: ”La tragedia del Passo Dyatlov: fu davvero (solo) una valanga”
AMELIA SETTELE

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Il telefono del vento. The phone online with Death!

(telefono del vento) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili

In Giappone – nel giardino privato di Bell Gardia – c’è una cabina telefonica per “parlare” con i morti.

Esistono molti luoghi nel mondo dove commemorare i defunti.

Uno dei posti più inconsueti e originali si trova in Giappone, nella città di Ōtsuchi.

Un centro abitato a Nord Est dell’isola, nella prefettura di Iwate e più precisamente in un giardino privato chiamato Bell Gardia.

Il monumento si chiama 風の電話 kaze no denwa, il cui significato è Telefono del Vento.

SOMMARIO

È una cabina telefonica che spicca tra la bellezza naturalistica del giardino.

Cabina al cui interno è installato un vecchio modello di telefono in bachelite, privo di linea, attraverso il quale si può “dialogare” con i morti.

Il visitatore che decide di entrare nella cabina, può intrattenere una chiacchierata onirica o rimanere nel più assoluto silenzio.

Cullato dall’abbraccio del vento che sferza e rafforza l’atmosfera preziosa e unica dell’opera.

La cabina è di legno bianco e pannelli di vetro, mentre il telefono è sistemato sopra una mensola.

Accanto vi è un quaderno, dove gli ospiti possono lasciare un segno del loro passaggio: una firma, un pensiero.

Il telefono del vento. Ma chi ha ideato il Kaze no Denwa e perché?

Il Telefono del Vento è stato progettato nel 2010 da Itaru Sasaki, progettista di giardini che ha creato l’opera dopo la scomparsa di suo cugino.

La cabina telefonica è diventata, col tempo, una sorte di portale immaginario.

Dove poter parlare con i defunti, in un dialogo chimerico e profondamente commovente.

Alzando la cornetta si può immaginare di colloquiare con chiunque si desideri, anche con sé stessi, come e soprattutto con chi non è più con noi.

Sognare di dialogare attraverso quel telefono privo di linea è come pregare e sperare.

Ponendosi dinnanzi a uno dei sentimenti più profondi e laceranti che caratterizzano l’essere umano: il dolore del lutto.

Il Telefono del Vento permette di credere almeno per un istante di poter essere in contatto con chi non ci è più accanto.

il telefono del vento

Il telefono del vento. La storia del Telefono del Vento è intensa, importante e nasce perché

Itaru Sasaki dopo il grave lutto che colpì lui e i suoi parenti, immaginò un luogo dove poter continuare a “parlare” col suo familiare deceduto.

E per farlo pensò a due elementi soltanto: il telefono e il vento.

Poiché i miei pensieri non potevano essere trasmessi su una normale linea telefonica, volli che fossero portati dal vento.” (I. Sasaki)

Il Signor Sasaki era sicuro che la sua opera l’avrebbe aiutato a metabolizzare il dolore.

Ma quello che non poteva minimamente immaginare, accadde appena un anno dopo.

Un evento di tali proporzioni da cambiare le venture – e le vite – di migliaia di persone come della storia stessa del Telefono del Vento.

Tanto da trasformandolo in un vero e proprio luogo di pellegrinaggio, ancora più toccante e mistico.

L’evento che modifica per sempre la storia che vi sto narrando avviene l’11 Marzo 2011, quando un potentissimo terremoto colpisce il Giappone.

Il telefono del vento. Il terremoto e maremoto di Tōhoku

Nord del Giappone – Isola di Honshū – 11 Marzo 2011, ore 14:46 (le 6:46 in Italia).

La terra inizia a tremare.

Un terremoto di magnitudo 9.1 matura e deflagra a largo delle coste dell’isola più grande della nazione nipponica.

Dopo pochi minuti sopraggiunge un mostruoso tsunami che colpisce e devasta soprattutto le coste della regione di Tōhoku

Il sisma avvertito, risulta essere da subito violentissimo e viene catalogato come uno dei cinque più potenti mai registrati nella storia del mondo dal 1900.

Oltre a essere, ancora oggi, quello più forte mai rilevato in Giappone.

La scossa è intensa ma lontana dalla terra ferma pertanto, l’elemento che porta distruzione e morte è il maremoto generatosi pochi istanti dopo.

Onde alte più di 10 metri si abbattono sulla costa con una tale violenza da spazzare via ogni cosa.

Oltre 15.000 vittime

Solo a Tōhoku le vittime sono più di 15.000… trasportati via da un’onda irrefrenabile che ha lacerato vite, sogni e realtà.

La centrale nucleare di Fukushima esplode.

L’enorme onda creatasi a seguito del terremoto, arriva a danneggiare la struttura in modo irreparabile.

La tragedia verrà ricordata proprio con il nome della regione più colpita, Tōhoku.

La conta delle vittime lascia il mondo attonito, dinnanzi agli occhi dei sopravvissuti si palesa la potenza di una natura devastante e distruttrice.

Un terremoto che scuote letteralmente il mondo e ferisce pesantemente il Giappone.

Morte, disastro e dolore restano le conseguenze più tangibili di questa catastrofe.

È proprio a seguito di questo evento che Itaru Sasaki decide di aprire il suo giardino privato ai familiari e agli amici delle vittime dello tsunami.

telefono del vento

Dialogare con i cari scomparsi

Mette a loro disposizione la cabina e lascia che utilizzino il Telefono del Vento per cercare un dialogo non solo con i propri cari scomparsi.

Ma anche con quel dolore sordido e martellante che li stringe ormai in una morsa senza fine e che lui conosce bene.

Da quel momento, grazie anche al passaparola, il Telefono del Vento diventa una vera e propria meta.

In più di 12 anni, le persone che hanno visitato il luogo sono state davvero molte, le stime ne dichiarano circa 30.000!

Il telefono del vento. Silenzioso cordone umano a Bell Gardia

Un rispettoso e silenzioso cordone umano ha continuato ad andare a Bell Gardia, oramai ribattezzata “la collina del telefono del vento”.

Per potersi immergere in quell’atmosfera profondamente toccante che si annida tra le sferzate di vento e il bianco candore della cabina.

Chi ha visitato l’opera di Sasaki ha intrapreso un viaggio personale intenso e significativo.

L’opera del garden designer è stata ripresa in altre parti del mondo.

Con lo stesso significato e lo stesso rispetto verso il dolore di chi deve convivere con la pesante assenza di una persona cara che non c’è più.

Cercando rifugio e sollievo tra i fili di un telefono privo di linea e l’ascendente della natura.

Non posso chiudere quest’articolo senza citare il bellissimo romanzo di Laura Imai Messina: “Quel che affidiamo al vento” (edito da Piemme).

Romanzo grazie al quale ho conosciuto questa storia e che vi suggerisco di leggere almeno una volta nella vita.

In fondo era quanto ci si augurava per tutti, che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita, ognuno se lo fabbricasse da sé, in un luogo che ognuno individuava diverso.” Laura Imai Messina

Ricordatevi sempre che il tempo batte ritmi incessanti e non arresta mai il suo scorrere.

Mentre il Telefono del Vento continua a custodire migliaia di parole, lacrime e ricordi, cullato e protetto da una natura maestosa. E da sentimenti che non muoiono mai.


Fonti:

  • Sempre dire Banzai: “Il telefono del vento: in Giappone esiste una cabina per “parlare” con i morti
  • Internazionale: “Il telefono del vento per parlare con le vittime dello tsunami”
  • IO Donna: “In Giappone c’è una cabina telefonica per parlare con i defunti”
  • Wikipedia: “Telefono del vento”
  • Studio Bellesi: “Il giardino di Bell Gardia e il telefono del vento”
AMELIA SETTELE

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Hei Zhy Gou, la foresta del non ritorno

(Hei Zhy Gou) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili

In Cina, nella regione del Sichuan, si trova uno dei luoghi più misteriosi e inquietanti del pianeta. È la foresta di Hei Zhy Gou, soprannominata anche: “Foresta del non ritorno”.

SOMMARIO

Gli abitanti delle zone limitrofe la chiamano “La terrificante valle della morte”.

Se tradotto, il suo significato dovrebbe essere: “La gola del Bambù nero”.

Hei Zhy Gou. La foresta del non ritorno

Immersa in una gola profonda, avvolta quasi perennemente da fitti banchi di nebbia la foresta del non ritorno”, è affascinante ma nefasta.

Sembra sospesa nel tempo, lontana dalla realtà e sprofondata in un mondo parallelo.

Da anni si narra che nessun essere umano sia capace di esplorarla e … di tornare indietro sano e salvo!

Numerose sparizioni infatti, accompagnano la storia di questo labirinto di bambù.

Si ritiene che la “foresta del non ritorno” sia letteralmente in grado d’inghiottire uomini e veicoli.

Coraggiosi esploratori e persino alcuni aerei che sorvolavano la zona sono svaniti nel nulla, appena entrati in contatto con la foresta.

Sembra proprio che sia maledetta e non permetta a niente e nessuno di trovare la via del ritorno e di poter quindi, raccontare cosa (o chi) si celi al suo interno.

Hei Zhy Gou. La foresta non restituisce neppure i cadaveri

Quando il fitto fogliame viene inondato dal calore del sole, la foresta appare nei suoi ancestrali colori vivi ed intensi.

I profumi della natura rendono l’area un vero e proprio polmone verde, fulcro e culla di pace, spennellato di bruma e sinistro incanto.

Ma di notte tutto cambia.

Hei Zhy Gou

Il buio padroneggia nelle sue tinte più cupe e impenetrabili, donando al luogo un’aurea spaventosa.

Antiche leggende e angoscianti storie hanno come protagonista proprio la foresta.

Hei Zhy Gou si trasforma infatti in un antro intricato e pericoloso.

Da anni, chi si addentra tra i suoi sentieri non fa più ritorno.

Hei Zhy Gou. Abitata da un enorme drago a due teste

La sua impenetrabilità non ha mai reso concrete e sicure le notizie inerenti la sua formazione e storia.

Alcune leggende locali giustificano i misteri che aleggiano sulla foresta raccontando che, sia abitata dal Grande Uccello”.

Uno spaventoso mostro mitologico descritto come un enorme drago a due teste.

Certo è che – essendo il Drago un importante simbolo della cultura cinese, protagonista da millenni di storie e miti – nessuno ha mai cercato di scoprire cosa dominerebbe davvero “la foresta del non ritorno”, anteponendo a qualsiasi spiegazione logica, il rispetto della forza della natura e delle antiche tradizioni che hanno reso questo lembo di terra, uno dei luoghi più sventurati e maledetti che l’uomo conosca.

Fonti:
  • Travelglobe: La foresta di Hei Zhy Gou, tra bambù e misteri
  • Urban Post: Cina: Foresta di Hei Zhy Gou, la valle dei bambù dalla quale nessuno torna
  • Curiosando708090.altervista: Luoghi misteriosi: Foresta di Hei Zhy Gou (Cina)
AMELIA SETTELE

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Mangia Peccati, una figura storica tra leggenda e oblio

(Mangia Peccati) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili

Chi tra di voi è senza peccato scagli la pietra per primo.” Vangelo secondo Giovanni: 8.3

Tra il XVIII e il XIX secolo si concretizzò la figura simil-religiosa del Mangia Peccati – Sin Eater – che aveva il compito di assorbire le colpe del defunto, attraverso l’assunzione di cibo sul letto del moribondo.

SOMMARIO

Irrimediabilmente quando si narra del Mangia Peccati si è costretti a pensare agli ultimi istanti di vita di una persona.

Perché per chi crede, i peccati commessi devono essere redenti prima di esalare l’ultimo respiro, così da permettere alla propria anima un sicuro viaggio per l’aldilà. 

Mangia Peccati. Le origini

Per molto tempo, in alcune parti del mondo il Mangia Peccati ne ha rappresentato un valido aiuto.

Figura emblematica e ormai dai contorni poco nitidi, ha preso principalmente piede nell’entroterra Inglese e in alcune zone del Galles e della Scozia.

Soprattutto nei luoghi più isolati e remoti.

Sulle origini del Mangia Peccati ci sono poche notizie, ma quelle più concrete datano la sua nascita nel periodo del basso medioevo.

Anche se alcune fonti sono portate a dichiarare che nasca insieme al Cristianesimo stesso.

Certo è che se la storia lo ha oramai relegato solo nelle nicchie dei ricordi.

In alcune zone del pianeta (come l’Alabama) rappresenta ancora oggi il protagonista di cupe storie folkloristiche.

Mangia Peccati. Chi era?

Il Mangia Peccati – o Sin Eater, in Inglese – la maggior parte delle volte, era un uomo che veniva chiamato dalla famiglia del moribondo sul letto di morte per praticare questo rito.

Rito nel quale le pietanze offerte al Sin Eater rappresentavano i peccati commessi dal defunto.

Mangia Peccati

Il Mangia Peccati assumeva quelle pietanze e l’anima del defunto si alleggeriva, permettendo un trapasso sereno.

Un rito e una figura quella del Sin Eater che incarnano in modo chiaro e tangibile l’importanza per gli uomini, di affrancarsi l’anima dai peccati, restando altresì coscienti di gravare su quella di un altro.

Sicuramente non era un lavoro ambito da molti. 

Nella maggior parte dei casi, erano uomini poveri ai margini della società che – davvero per fame – intraprendevano questo mestiere.

Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione

Quando l’estrema unzione o l’ultima confessione non erano possibili, ci si rivolgeva al Sin Eater.

Sicuramente nelle zone rurali era più facile usufruire dei servigi di un Mangia Peccati, rispetto alle grandi città dove, invece, era più facile reperire un sacerdote per una “classica” estrema unzione o ultima confessione.

La maggior parte delle volte il Sin Eater – veniva contattato dalla famiglia del morente – e sotto un minimo compenso raggiungeva l’uomo in fin di vita al suo capezzale, per ascoltare le ultime confessioni.

In quel lasso di tempo veniva anche preparato il pasto frugale, che il Mangia Peccati ingeriva o sul letto del defunto o addirittura sul suo petto. 

Ascoltando e mangiando, permetteva all’anima del morente di lasciare le spoglie terrene, alleggerita dalle colpe commesse e dichiarate e di trovare pace in eterno.

Il defunto aveva l’anima redenta, ma il Mangia peccati allo stesso tempo appesantiva la sua, aggravandola di oscure e impenetrabili memorie.

Qualora fosse arrivato troppo tardi, ad accoglierlo sul letto ci sarebbe stato solo il pasto simbolico e il silenzio.

Nella maggior parte dei casi, il pasto era composto dal pane in quanto simbolicamente associato all’anima dei defunti.

Anche se al Sin Eater si poteva offrire anche del sale e un piatto di stufato o minestra.

Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante

La confessione come il parco convivio erano fasi di un vero e proprio rituale, intervallato da preghiere sussurrate e arcaiche formule:

The ease and rest of the soul are gone” (La facilità e il riposo dell’anima se ne sono andati) Brand’s popular Antiquities of Great Britain

Un cerimoniale che ha i toni ancestrali, che si perdono nella notte dei tempi…

Intorno alla figura del Mangia Peccati, aleggia la costante comprensione di quanto sia stata dura ricoprire questo ruolo.

Solitamente era un uomo senza famiglia che per pochi penny (di solito non più di 4) e un tozzo di pagnotta, non esitava a venire a patti con i peccati degli altri, per poter avere lo stomaco pieno.

Era considerato un vero professionista, ma allo stesso tempo messo agli angoli dalla società del tempo. 

Un reietto con l’anima pesante e la solitudine come compagna.

Infatti il tempo e le superstizioni, avvicinarono la figura del Sin Eater alla stregoneria e al satanismo.

Un alone di mistero e maledizione aggravato anche dalla convinzione popolare che il Sin Eater fosse l’unico in grado d’impedire ai morti viventi di risorgere!!

Una figura storica e religiosa che è stata presente sino agli inizi del XX secolo.

Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo

L’ultimo Mangia Peccati che la storia ci riporti è Richard Munslow (1838 – 1906) che onorò il suo compito nella Contea di Shropshire sino agli inizi del ‘900.

Il suo menù, contrariamente alla tradizione, prevedeva: torta alla ricotta, fondi di carciofi e trippa… senza mai dimenticare i sei pence previsti per la prestazione.

Al contrario di molti suoi colleghi e predecessori, ad avvicinare Munslow alla professione di Mangia Peccati, non fu l’indigenza o la fame, ma il lutto per la perdita di quattro suoi figli.

Di cui tre, nella stessa settimana.

Profondamente turbato da questa drammatica esperienza, scelse di diventare un Sin Eater per vivere questa professione, come forma di lutto.

Della figura enigmatica del Mangia Peccati restano poche concrete testimonianze.

Il silenzio e la solitudine che ne hanno rappresentato gli elementi più concreti, ci permettono di immaginarlo come un triste compagno che segue la Morte nelle sue peregrinazioni, tra un’anima e l’altra.

Capace ancora di accogliere il mistero degli ultimi istanti di vita dell’essere umano, tra sussurri e briciole di pane.

Fonti:

  • Blog. Necrologi: “Sin Eater: colui che mangia i peccati”
  • Altroevo: “Il Mangia Peccati, la storia e la leggenda del mangiatore di peccati”
  • The Weird Side: “Il Mangia Peccati e l’Accabador”
AMELIA SETTELE

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