Residential Schools, un vergognoso genocidio dimenticato
(Residential Schools) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie, Fatti e società e La Forza di indignarsi Ancora
Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 8 – Residential Schools, il genocidio dimenticato” su Spreaker.Un sistema scolastico volto a “civilizzare” i figli dei Popoli Indigeni Canadesi ovvero le Residential Schools.
SOMMARIO
- Residential Schools. Come sono nate
- Residential Schools. Cosa s’insegnava in quei collegi?
- Residential Schools. Oltre 150.000 bambini, 6.000 morte accertate
- Residential Schools. Thuth and Reconciliation Commission
- Residential Schools. Oltre il genocidio, il lucro
- Residential Schools. Una richiesta
Le prime Residential Schools vennero inaugurate in Canada nel 1876.
Per Residential Schools s’intende un sistema scolastico basato su una rete di collegi istituiti per “civilizzare” i figli dei Popoli Indigeni Canadesi: Inuit, First Nations, Metis.
In questi Istituti si è perpetrato un vero e proprio genocidio, sistematico e culturale.
Un genocidio, dimenticato dalla storia.
Residential Schools. Come sono nate
Le Residential Schools vennero fondate dall’Indigenous and Northern Affairs Canada, struttura governativa Canadese, dopo l’approvazione dell’Indian Act del 1876 – principale Legge canadese sugli Indiani, nella quale veniva definito chi fosse “indiano” e quali diritti e divieti avessero i nativi canadesi registrati.
Gli Istituti venivano amministrati e gestiti da alcune organizzazioni religiose come la Chiesa Cattolica Canadese, la Chiesa Anglicana Canadese e la Chiesa Unita del Canada.
Per la precisione le Residential Schools sul territorio Canadese erano 118 – di cui 79 dipendevano direttamente dalla Santa Sede.
Residential Schools. Cosa s’insegnava in quei collegi?
S’istruivano gli aborigeni a diventare dei “bravi occidentali”.
Si perpetrava una colonizzazione più che subdola e incisiva perché: obbligando i bambini a separarsi dalle rispettive famiglie, s’interrompeva di fatto ogni forma di coinvolgimento emotivo, educativo e culturale con le proprie radici.
S’impediva così la trasmissione e l’insegnamento della lingua, del patrimonio ancestrale di questi popoli alle loro nuove generazioni.
Tutto spacciato per “civilizzazione“, ma la storia che si nasconde tra quelle mura è di ben altra natura e sussurra, grida, scalcia per essere ricordata.
Perché nelle Residential Schools i bambini furono vittime di: umiliazioni verbali, abusi fisici, violenze sessuali, sperimentazioni di psicofarmaci, omicidi, sterilizzazioni.
Si millantava civilizzazione. Si attuavano nefandezze di ogni genere.
Residential Schools. Oltre 150.000 bambini, 6.000 morte accertate
Le informazioni raccolte e archiviate ci riportano ad un numero impressionante di piccole vittime.
Nel corso dei 120 anni in cui le Residential Schools furono operative, vennero allontanati dalle proprie famiglie più di 150.000 bambini.
6000 furono le morti accertate.
Circa 50.000 i bambini che invece scomparvero letteralmente nel nulla e più di 30.000 furono le cause inoltrate per abusi e violenze sessuali.
Nel 1907 la testata giornalistica “Montreal Star” pubblicò un’inchiesta nella quale si evidenziava che circa il 40% dei bambini ospitati nelle strutture moriva prima dei 16 anni.
Definì la situazione “una vergogna nazionale.”
Ma nulla mutò.
Anche nel 1912, Peter Bryce – medico e funzionario del Dipartimento della Salute in Ontario – denunciò quanto avveniva all’interno degli istituti, pubblicando il saggio: The Story of a National Crime: Being an Appeal for Justice to the Indians of Canada; the wards of the nation, our allies in the Revolutionary War, our brothers-in-arms in the Great War.
Ma nulla cambiò.
Residential Schools. Thuth and Reconciliation Commission
Perché nel corso di tutti questi anni, nessuno – dai familiari dei bambini, agli inservienti, alle istituzioni stesse, come alle figure religiose all’interno delle Scuole Residenziali – ha mai fatto nulla di concreto per fermare il genocidio?
Esplicativa è questa frase estratta dalla sintesi del rapporto finale della Truth and Reconciliation Commission (TRC: Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada):
“Il governo canadese ha perseguito questa politica di genocidio culturale perché desiderava liberarsi dei suoi obblighi legali e finanziari nei confronti degli aborigeni e ottenere il controllo della loro terra e delle loro risorse. Se ogni persona aborigena fosse stata “assorbita nel corpo politico”, non ci sarebbero state riserve, trattati e diritti degli aborigeni.”
Ma voglio essere ancora più icastica per permettere alla verità di risaltare tra le pagine di questa storia, affermando che il sistema legislativo canadese non permetteva nessuna alternativa di miglioria o sospensione di questo programma, non tutelava le famiglie né tantomeno i bambini perché le vecchie normative canadesi dichiaravano che:
- Gli Aborigeni erano legalmente e moralmente inferiori (istituiva le Residential Schools anche per questo)- Federal Indian Act del 1874. Legge attualmente in vigore.
- Le famiglie indigene erano obbligate legalmente a firmare un documento che trasferiva i diritti di tutela suoi propri figli, alle scuole residenziali cristiane – Gradual Civilization Act, Legge del 1857. Inoltre chi rifiutava di firmare tale documentazione, veniva arrestato e perseguito con sanzioni economiche.
Il trasferimento legale dei diritti sui minori, comportava anche il trasferimento dei beni territoriali di quest’ultimi, in caso di morte.
Residential Schools. Oltre il genocidio, il lucro
Appena raggiunta la pubertà, molti gruppi di “ospiti” venivano sterilizzati.
Nel 1933 venne abrogata la Sterilization Law che ha permesso una poderosa e organizzata castrazione di massa dei ragazzi e ragazze nativi.
Nella British Columbia – provincia più Occidentale del Canada – la Sterilization Law è ancora attiva.
“Voglio sbarazzarmi del problema indiano. Non credo che il paese debba proteggere continuamente una classe di persone che sono in grado di stare da sole … Il nostro obiettivo è continuare fino a quando non ci sarà un solo indiano in Canada che non sia stato assorbito nel corpo politica e non c’è questione indiana, e nessun dipartimento indiano, questo è l’intero oggetto di questo disegno di legge.” Duncan Campbell Scott, Dipartimento degli affari indiani, 1920.
L’ultima Residential Schools venne ufficialmente chiusa nel 1996.
Il Governo Canadese ufficializzò le scuse alle Popolazione Indigene, per quanto accaduto nelle Residential Schools, solo nel 2008.
Istituendo anche la “Truth and Reconciliation Commission” – Commissione di Verità e Riconciliazione- che non essendo stata dotata di poteri legislativi e giudiziali sufficienti, non ha potuto indagare in modo concreto sugli abusi testimoniati, o agire con procedimenti legali efficienti per arrestare i colpevoli.
Nella legge finanziaria del 2010 il Governo Canadese s’impegnava a risarcire economicamente le vittime e le loro famiglie, supportandoli anche nel percorso psicologico ed emotivo.
A tutela delle testimonianze raccolte e visto il disaccordo nato tra le commissioni per i risarcimenti delle vittime, la Corte Suprema Canadese nel 2017 ha dichiarato che: le deposizioni raccolte durante i processi per il risarcimento su abusi e violenze, verranno conservate per 15 anni e poi distrutte.
A meno che, su esplicita richiesta dei legittimi interessati, la documentazione non venga archiviata e conservata.
La verità sulle Residential Schools ha lottato per essere scritta fra le pagine della Storia – tra denunce, tracce e tenacia – ma resta ancora oggi il fatto che nessun uomo o donna (mandante o esecutore) che abbia perpetrato questi crimini ne ha mai pagato le conseguenze.
È stata ammessa la verità, riconosciute le vittime, ma non perseguiti i carnefici.
I sopravvissuti ancora oggi portano cicatrici visibili sul corpo e quelle ancora più profonde nell’anima e non smettono di chiedere giustizia, anche in nome di chi ha perso la vita dentro quelle strutture.
Residential Schools. Una richiesta
Gli anziani del Consiglio hanno espressamente fatto questa richiesta:
[…] identificare il posto dove sono sepolti i bambini morti, affinché i loro resti vengano restituiti ai familiari per una degna sepoltura […], di identificare e consegnare le persone responsabili per queste morti […], di divulgare tutte le prove riguardanti questi decessi e i crimini commessi nelle scuole residenziali, consentendo il pubblico accesso agli archivi del Vaticano ed ai registri delle altre chiese coinvolte[…], di revocare le bolle pontificie Romanus Pontifex (1455) e Inter Caetera (1493), e tutte le altre leggi che sanzionarono la conquista e la distruzione dei popoli indigeni non-cristiani nel Nuovo Mondo[…], di revocare la politica del Vaticano che richiede che vescovi e preti tengano segrete le prove degli abusi subiti da bambini indigeni nelle loro chiese invitando le vittime al silenzio.
Dal 1876 al 1996…Tutto in nome della “civilizzazione“.
“Ho sempre incolpato la scuola residenziale per aver ucciso mio fratello. Dalton era il suo nome. Non li ho mai, mai, mai e poi mai perdonati. Non so se mio padre e mia madre abbiano mai saputo come è morto, ma non l’ho mai scoperto. Ma so che è morto laggiù. Mi hanno permesso di [andare] a vederlo una volta prima che morisse, e non mi conosceva nemmeno. Era un ragazzino, sdraiato nel letto in infermeria, morente, e non lo sapevo finché non è morto. Sai, quella fu la fine della mia educazione.” Ray Silver, da “The Survivors Speak: A Report of the Truth and Reconciliation Commission of Canada
Fonti:
- Ytali: il genocidio dimenticato
- Indigenous Peoples Atlas of Canada: History of Residential Schools
- Il mondo degli archivi: il complesso retaggio delle Residential Schools in Canada
Irma Grese, “la Bestia Bionda” di Auschwitz
(Irma Grese) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie, Fatti e società e La Forza di indignarsi Ancora
Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 2 – Irma Grese, “la Bestia Bionda” di Auschwitz” su Spreaker.L’Olocausto perpetrato dal Terzo Reich tra il 1933 (ascesa al potere di Hitler) e il 1945 (27 Gennaio 1945, liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa), portò alla morte di oltre 17 milioni di persone: donne, uomini, bambini.
17 milioni di persone: ebrei, Rom, omosessuali, malati mentali, dissidenti politici, testimoni di Geova, infermi.
Si è giustamente spinti a pensare alla vittime, ai nomi, alle sembianze.
Il più delle volte sono nomi che evocano futuri mai vissuti, vite spezzate, corpi mai ritrovati.
Famiglie distrutte, legami annientati, tra la polvere da sparo e il delirio dei folli.
Quello che perpetrò il regime nazista nel mondo è ancora oggi un macigno che incombe sulle pagine della storia dell’uomo.
Irma Grese. La bestia bionda
Non possiamo dimenticare. Non dobbiamo.
Ed è giusto anche ricordare chi non è stato vittima, ma carnefice.
Perché il male ha un volto, occhi, espressioni e carattere.
A rappresentarlo in questo spicchio di racconto è una ragazza tedesca, passata alla storia con più appellativi.
Uno più infausto dell’altro: “la bestia bionda”, “la iena”, “la bella bestia”.
Lei si chiamava Irma Grese ed è stata una delle carceriere più efferate e crudeli di Auschwitz.
Irma Grese. Un passato difficile
Irma nasce a Wrechen in Germania, il 7 Ottobre 1923.
Sin da bambina sogna di divenire infermiera, ha un carattere timido e riservato.
Nel 1936 tutto cambia nella sua vita, quando la madre si suicida.
Un lutto dilaniante che la colpisce nell’età dell’adolescenza e dal quale si susseguono importanti cambiamenti.
Da giovane mite e tranquilla, diventa spietata e senza scrupoli.
Hanno inizio problemi comportamentali anche con i suoi coetanei, tanto da spingerla a ritirarsi da scuola a soli 15 anni.
Pur vivendo con il padre – fervente oppositore di Hitler – Irma è completamente soggiogata dall’ideologia nazista.
Nel Fuhrer e nelle sue promesse, crede di poter realizzare la propria vita.
Irma Grese. L’adesione al nazismo
S’iscrive alla Lega delle ragazze tedesche (Bund Deutscher Mädel), un’organizzazione di giovani Naziste.
Tenta di concretizzare il suo sogno d’indossare la divisa d’infermiera senza riuscirci, mai.
Ma le scelte che intraprese la portano sì a vestire una livrea, ma la più pericolosa e maledetta: quella delle SS.
A 19 anni inizia a lavorare come guardia nel campo di concentramento femminile di Ravensbruck.
Grazie alle sue “doti”, fa presto carriera e solo un anno dopo viene trasferita ad Auschwitz.
Luogo dove il suo nome e le sue crudeltà diventano un connubio mortale per i prigionieri, e motivo di vanto tra i gerarchi nazisti.
Quando il padre viene a sapere del trasferimento della figlia e delle sue mansioni nel campo di concentramento, la caccia di casa.
Lei lo denuncia e l’uomo viene recluso.
Irma indossando quell’uniforme, dona il peggio di sé perpetrando torture e indicibili nefandezze su donne e bambini.
Irma Grese. Sadica, crudele, efferata
Sul suo volto, sino alla fine, non traspare dubbio o colpa.
Irma svolge il suo “lavoro” con dedizione, passione e malefica capacità.
Riesce a conquistare l’ambito grado (tra le donne SS) di: Supervisore Capo.
I sopravvissuti raccontano che “La Bestia Bionda” era la più temibile, capace d’infliggere torture sino a quando non vedeva la vittima prescelta esalare l’ultimo respiro.
Amava scegliere le prigioniere da spedire nelle camere a gas soprattutto per la loro bellezza.
Picchiava, violentava le donne costringendo alcune di esse ad assistere allo scempio, allo stupro delle proprie malcapitate compagne.
Arrivò a sciogliere i cani – lasciati senza razioni per giorni – per farli cibare delle carni dei prigionieri.
Irma Grese. Il mostro in mezzo ai mostri
I suoi stessi colleghi la definivano crudele.
Osò essere il mostro, in mezzo ai mostri.
Testimonianze affermano che fu sempre lei a far montare dei paralumi creati con la pelle dei deportati.
Nefandezze, espressioni di una disumanità pari a pochi che le permisero di scalare i vertici del potere nazista all’interno dei campi di concentramento di Ravensbruck, Auschwitz e Bergen-Belsen.
Venne arrestata dall’esercito Britannico il 17 Aprile del 1945, insieme ad altre SS.
Durante tutto il processo di Belsen, non ebbe mai un attimo di pentimento.
Fiera, concreta e insolente non rinnegò mai i suoi ideali né le sue decisioni.
Venne condannata alla pena massima: impiccagione come criminale di guerra.
Aveva 22 anni al momento dell’esecuzione, le sue ultime parole furono: “Schnell” (rapidamente).
Quella rapidità che non offriva mai alle proprie vittime, per le quali godeva nel seviziarle.
Fonti:
- Gulliber: La bella Bestia di Auschwitz
- Berlino Magazine: Irma Grese, la Bella Bestia di Belsen
- Bet Magazine Mosaico: Nazismo al femminile: Irma Grese e le altre
Skid Row, the other side of Los Angeles
(Skid Row) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura, Persone e Storie, Fatti e società e La Forza di indignarsi Ancora
Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 6 – Skid Row, the other side of Los Angeles” su Spreaker.La città di Los Angeles – dopo New York City – è la seconda metropoli più grande d’America.
SOMMARIO
- Skid Row. Accesso all’inferno
- Skid Row. Casa di 3000/5000 clochard
- Skid Row. Sembra impossibile da recuperare
- Skid Row. Ma come nasce?
La città è celebre per essere il fulcro dell’industria cinematografica, per i quartieri lussuosi, la ricchezza ostentata. Senza dimenticare la celebre collina dove spicca l’iconico cartello “Hollywood”. Ma cela anche un lato oscuro e inquietante.
Skid Row. Accesso all’inferno
La mia penna aveva già sfiorato l’argomento, mentre vi raccontavo del Cecil Hotel e della sua triste storia.
Ora è giunto il momento di portarvi a Skid Row: il ghetto di Los Angeles.
Il suo nome – Los Angeles, la città degli Angeli – può trarvi in inganno.
Perché questa metropoli possiede anche le chiavi per le porte dell’inferno e Skid Row, è uno degli accessi.
Ufficialmente conosciuto come Central City East è un distretto della Downtown (centro amministrativo e geografico della città).
Ospita la più grande comunità di senzatetto stabili degli Stati Uniti.
Skid Row. Casa di 3000/5000 clochard
Nel quartiere vive una gremita comunità di clochard che si aggira tra le 3000 e le 5000 persone.
Qui governa la violenza, la coercizione e il pressante disagio di uno specchio sociale.
Che si scontra con vite graffiate, interrotte, consumate da droga, alcool, squilibrio mentale ed estrema povertà.
Le luci e i sogni di Los Angeles s’infrangono a Skid Row dove non si vive, si sopravvive.
Dove non si sogna, ma si lotta per mangiare e continuare ad avere almeno uno sputo di marciapiede da occupare e chiamare “casa”.
Ricettacolo e degrado.
Droga, alcool, prostituzione, giro di vite e lotta intestina per la sopravvivenza.
È fortunato chi può permettersi come alloggio al coperto una tenda da campeggio.
Mentre la maggior parte dei clochard scompare di notte in cartoni ammassati agli angoli più bui per cercare di proteggersi le carni e la dignità.
Skid Row. Sembra impossibile da recuperare
In questa realtà sociale sopravvive non solo solo chi ha ceduto tutto alle dipendenze delle droghe, oppure ai vizi che offre l’alcool.
Ci sono anche ex veterani di guerra, disabili mentali non pericolosi per gli altri.
E gente “semplicemente” sfortunata che ha perso: lavoro, casa, risparmi e la possibilità di poter ricominciare.
Da anni ormai il quartiere – un agglomerato di isolati a pochi minuti dai quartieri “bene” – sembra impossibile da recuperare.
Ci sono vicoli impraticabili da transitare per la sporcizia e l’indigenza imperante.
Feci ed urine appestano l’aria, dove banchettano mosche e prolificano batteri.
E il popolo di Skid Row continua ad arrancare e a sopravvivere.
Ombre umane simbolo del decadimento di una società troppo caotica e occupata a non osservare queste creature sopraffatte dagli eventi e incapaci di recuperare.
Un perfetto set per i film sugli zombie.
Skid Row, ma come nasce?
Già nell’800 l’area urbana era presente a Los Angeles.
Il nome Skid Row indicava la strada utilizzata dai taglialegna per far arrivare i tronchi verso la costa.
Laddove poi venivano caricati sulle navi e spediti.
Con la grande depressione alla fine del 1929 – e il relativo crollo di Wall Street – il quartiere brulicava sempre più di emarginati, alcolizzati e di bordelli.
Con gli anni la popolazione aumentava, il degrado con lei.
Anche la fine della guerra in Vietnam (1975) e il ritorno a casa dei veterani, permise al quartiere di prosperare.
Perché molti reduci rientrati con fardelli insopportabili da gestire, non riuscirono a reinserirsi nella società e trovarono facile rifugio nel quartiere.
Nel corso degli anni, diverse amministrazioni comunali hanno cercato d’intervenire.
Rendendo la presenza massiccia delle forze dell’ordine un monito per gli abitanti del quartiere.
Ma quello che accade a Skid Row è pesante, pressante e non è di facile risoluzione.
Gli anni infatti passano, ma lo scenario non cambia.
Ancora oggi osservare Skid Row e i suoi “ospiti” rende chiaro che il girone infernale che rappresentano non può essere dimenticato né sottovalutato.
Visto che rappresenta non solo il fallimento di una metropoli, ma della società tutta.
Noi compresi.
Fonti:
- La Stampa: Skid Row, il quartiere fantasma che assedia le luci di Los Angeles
- Los Angeles Times: L.A. settles homeless rights case, likely limiting ability to clear skid row streets
- Company People: Skid Row la zombie area di Los Angeles
25 novembre SPECIALE. Giulia, come le Altre
(25 novembre) Articolo scritto da Amelia Settele per Fatti e Società
25 novembre. In collaborazione per la rubrica La Forza di Indignarsi Ancora Radio C.S.D.R. trasmette l’audio lettura di questo articolo dal titolo Giulia, come le Altre, pezzo dedicato a tutte le donne vittime di femminicidio.
SOMMARIO
- 25 novembre. Giulia, un’altra vita spezzata che ingrossa le file dei femminicidi
- 25 novembre. Chi sono queste donne così apparentemente diverse tra loro? E perché fanno parte di questa storia?
- 25 novembre. Cos’è il Femminicidio?
- 25 novembre. Il Femminicidio in Italia fa sempre più vittime
25 novembre. Giulia, un’altra vita spezzata che ingrossa le file dei femminicidi
Vigonovo, provincia di Padova: Giulia Cecchettin è una Dottoressa, laureata in ingegneria Biomedica. Lei, suo padre e i suoi fratelli – Elena e Davide – sono una famiglia molto unita, costretta a vivere anche nel dolore nato dalla prematura scomparsa della madre. Giulia ha un ex fidanzato, Filippo Turutta.
Roma: l’avvocata Martina Scialdone ha 35 anni, professa il suo lavoro con passione ed è specializzata in diritto di famiglia. Ha un rapporto solido e forte con i suoi familiari. Ha da poco interrotto una relazione sentimentale con Costantino Bonaiuti.
Cerreto d’Esi, provincia di Ancona: Concetta Marruocco è un’infermiera di 53 anni da tutti chiamata Titti. Originaria di Torre del Greco (Napoli) continua a vivere nell’appartamento nel centro cittadino anche dopo la separazione dal suo compagno, Franco Panariello.
25 novembre. Chi sono queste donne così apparentemente diverse tra loro? E perché fanno parte di questa storia?
L’unico triste denominatore che le accomuna – come molte altre donne che riempiono ogni giorno una lista sempre più lunga – è quella di essere state vittime di femminicidio da parte dei loro rispettivi ex compagni. Ad armare le mani di chi ha strappato loro le vite, i sogni, gli affetti sono sempre questi uomini (o pseudo tali) che con maligna determinazione irrompono un’ultima sanguinosa volta nelle loro esistenze, per cercare di estorcere attenzione e possesso, fino a stringerle nel loro ultimo respiro.
So bene di averle descritte utilizzando un tempo presente, come se le loro vite fossero cristallizzate in un flash temporale in cui neppure la ferocia dei loro assassini, può alterarne il destino che avrebbero avuto il diritto di vivere. Ma c’ho non toglie che la verità è un’altra, che ci conduce verso una sola triste realtà che purtroppo conosciamo tutti: il femminicidio.
25 novembre. Cos’è il Femminicidio?
Il Femminicidio è la forma più estrema di violenza di genere contro le donne. Pertanto tutti gli omicidi dolosi o preterintenzionali in cui una donna viene assassinata da un uomo per motivi basati sul genere, devono essere identificati come tali. Per forma di genere, invece, s’intende qualsiasi forma di violenza contro una persona solo per il fatto di appartenere al genere femminile.
25 novembre. Il Femminicidio in Italia fa sempre più vittime
Secondo i dati rilasciati dal Viminale solo nel 2023 nel nostro paese sono stati commessi ben 286 omicidi di cui 103 sono donne. 54 di loro sono state ammazzate da chi diceva di amarle, dai loro compagni o ex.
Una lista lunghissima che si alimenta di donne e del loro sangue, della loro fiducia verso chi, invece, voleva solo possederle fino alla morte.
Con un ritmo di quasi 1 femminicidio ogni 3 giorni, questi omicidi continuano ad appesantire gli occhi di lacrime e la coscienza di tutti noi, allungando una lista di vite spezzate che non dovremmo mai dimenticare.
La recente tragedia di Giulia Cecchettin ha riacceso il dibattito su questa vera e propria piaga sociale che delinea uno scenario per le donne, sempre più difficile da vivere e affrontare.
Mentre l’indignazione e il cordoglio si uniscono ancor di più in questo giorno di novembre, dedicato proprio alle vittime di femminicidio, nessuna donna è al sicuro. Spetta a noi tutti ricordarle non solo adesso, ma sempre. Giulia come tutte le Altre sono lo specchio di un disastro mimetizzato in una relazione sentimentale tossica e malata, tale da condurle alla morte. In memoria di queste madri, figlie, sorelle, nipoti dobbiamo trovare tutti noi la giusta dose di forza per aiutarle a fuggire e a denunciare chi finge di amarle mentre impugna un’arma sempre più affilata che distrugge i loro sogni, la loro dignità e il loro futuro. Per ogni femminicidio, la nostra società perde filamenti di luce e umanità.
Le donne hanno una voce e troppo spesso, invece, sono costrette a gridare in silenzio. Spezziamo questa catena in nome di Giulia come delle Altre.
“Se domani sono io, se domani non torno, mamma distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.” (Cristina Torres Caceres. Perù, 2011)
- Femminicidioitalia.info
- Notizie.it: Femminicidi
- Rainews: Omicidio Giulia Cecchettin
25 novembre. NUMERI E INDIRIZZI UTILI
Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza
- Numero verde 1522
- Carabinieri – 112
- Polizia di Stato – 113
- Emergenza sanitaria – 118
25 novembre. Diciamo STOP alla violenza sulle donne
(25 novembre) a cura di Ileana Aprea e Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società
25 novembre. Oggi come ogni anno ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e oggi, come ogni anno, anche noi ci uniamo al coro che urla STOP ALLA VIOLENZA SULLE DONNE!
Quest’anno Radio C.S.D.R. e Words & More Network hanno realizzato una puntata radiofonica speciale interamente dedicata a questa tematica. La dottoressa Ileana Aprea e Cecilia Simona Domenica Rossi affrontano la tematica della violenza insieme a due ospiti: Suajens Miazzo autrice del libro “La mia rosa bianca” edito da Kimerik Casa Editrice e la dottoressa Vincenza Palmieri Presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare e fondatore dell’Associazione Nazionale dei Pedagogisti Familiari.
25 novembre. La piaga del femminicidio sempre più viva
Le notizie che ci informano di femminicidi avvenuti nel nostro Paese sono sempre più numerose, un fenomeno che sembra impossibile da arrestare. I numeri, infatti, sono sempre più allarmanti. Il femminicidio, però, è l’ultimo passaggio di una spirale di violenza che parte da lontano e, spesso, sottotraccia. Le forme più gravi di violenza sono quelle domestiche, esercitate da partner, parenti o amici. Le peggiori situazioni in cui oltre al dolore e alla sofferenza fisica e psichica si sviluppa la delusione di essere state in qualche modo tradite da chi avrebbe dovuto proteggere o amare.
Ma cosa accade realmente all’interno di un rapporto vittima/carnefice? come è possibile riconoscere che si sta vivendo una situazione di violenza? e come difendersi e impedire che anche altre donne possano trasformarsi da compagne in vittime sacrificali?
A tutte queste domande le conduttrici cercano di rispondere con l’aiuto delle ospiti e delle loro testimonianze e competenze. Una trasmissione, questo speciale, fortemente voluta dalla nostra redazione tutta anche se siamo coscienti che si tratta di una piccola goccia in mezzo a un immenso mare. Noi di C.S.D.R. e di Words & More, però, siamo profondamente convinti che anche una singola goccia può erodere la roccia e se tante singole gocce si uniscono in questa battaglia la frase STOP ALLA VIOLENZA non sarà più solo una frase!
25 novembre. Ascolta la trasmissione completa
Ascolta “SPECIALE 25 novembre. Diciamo STOP alla violenza sulle donne” su Spreaker.25 novembre. NUMERI E INDIRIZZI UTILI
Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza
- Numero verde 1522
- Carabinieri – 112
- Polizia di Stato – 113
- Emergenza sanitaria – 118
25 novembre. Al messaggio lanciato con questa trasmissione si uniscono tutti i collaboratori delle nostre redazioni: Stefano F., Amelia Settele, Cecilia S.D. Rossi, Ileana Aprea, E.T.A. Egeskov e tutti i tecnici che ringraziamo per il preziosissimo aiuto che forniscono per la realizzazione delle trasmissioni radiofoniche e televisive.
25 novembre. VISITA LA PAGINA DELLA NOSTRA RADIO
Hai una storia da raccontare ai nostri microfoni? oppure vorresti essere ospite di una delle nostre rubriche? contatta la redazione della Radio all’indirizzo:
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Messico: acqua potabile razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
(Messico) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
La città di San Cristobal de las Casas fu fondata nel 1528 e nel periodo coloniale spagnolo divenne capitale del Chiapas. Il Chiapas è uno dei 21 Stati che costituiscono la Repubblica Messicana e attualmente è una delle zone più povere della Nazione.
A San Cristobal de las Casas in Messico l’acqua potabile è razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
SOMMARIO
- Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
- Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
- Messico. Cosa e chi si cela dietro l’acronimo: FEMSA?
Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
San Cristobal spesso viene citato perché luogo dove il 1° Gennaio 1994 durante l’occupazione dei sette comuni, il Sub Comandantemarcos – rivoluzionario, ex portavoce dell’esercito Zapatista di liberazione nazionale (EZLN) movimento armato clandestino di stampo anarchico, indigenista e anticapitalista – lesse la prima dichiarazione della Selva Lacandona, attraverso la quale proclamava i diritti del proprio movimento e dichiarava guerra al Governo Messicano colpevole tra l’altro, di aver firmato il trattato TLC (Tractado de Libre Comercio – Trattato di libero commercio) con il Canada e gli Stati Uniti d’America.
Purtroppo oggi San Cristobal de las Casas risalta agli onori della cronaca per avvenimenti che la coinvolgono e che sotto alcuni aspetti rispecchiano una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN, il quale lottava con forza e vigore per la propria libertà e contro ogni forma di colonialismo e sfruttamento.
“Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte: prima contro la schiavitù, poi, durante la Guerra d’Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli, poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo Nord Americano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma, il popolo si ribellò e emersero i suoi leader come Villa e Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione; così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, ne’ terra, ne’ lavoro, ne’ assistenza sanitaria, ne’ cibo, ne’ istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, ne’ vi è indipendenza dallo straniero, ne’ vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!”
Comando Generale dell’EZNL – Selva Lacandona, Dicembre 1993
Quello che di sicuro sta accadendo agli abitanti della cittadina è preoccupante e indica una forma di “colonialismo” silente e astuta, rendendo i motti del movimento sopracitato solo echi lontani e indistinti perché, nella cittadina esiste e persiste un grande problema, l’acqua potabile – un bene primigenio ed essenziale per la vita sulla terra.
Della sua indispensabile importanza ne avevo già scritto nel mio articolo: “Flint Town e i suoi eterni veleni”, ma purtroppo m’imbatto sempre più spesso in storie in cui questo elemento primordiale ed essenziale per tutti, rischia di venire meno.
Proprio come in questa vicenda che non smette di stupire.
A seguito di una rapida urbanizzazione, di strutture idriche obsolete e di pericolosi cambiamenti climatici che ormai sono fautori di disastri immediati e a lungo termine, la cittadina di montagna ha visto diminuire vertiginosamente le scorte idriche utili alla vita quotidiana.
L’acqua potabile che confluisce nelle tubature della rete idrica cittadina, dev’essere sistematicamente razionata.
I pozzi non coprono il fabbisogno della popolazione, decretando una crisi che sembra possedere tutti i requisiti per avere un apogeo irreversibile.
Le condizioni che detta questa crisi idrica implicano e coinvolgono aspetti della vita sociale, politica e sanitaria dell’intera comunità di San Cristobal de las Casas tali da non poter essere sottovalutati.
L’acqua viene razionata anche perché gli impianti di depurazione non hanno le caratteristiche utili e conformi per filtrare l’approvvigionamento adeguato alle necessità del popolo.
La situazione è avversa a tal punto che gli abitanti di San Cristobal preferiscono attendere l’arrivo dei camion cisterna per avere un minimo di scorta nel proprio domicilio, mentre per dissetarsi acquistano bottiglie su bottiglie di… Coca Cola!
Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
Ebbene, NO! Perché l’acqua imbottigliata ha un costo maggiore rispetto alla famosa bevanda simbolo del capitalismo mondiale.
Le ripercussioni che agevolano (almeno all’apparenza) il budget familiare, si ripercuotono però su quello della salute.
Tant’è che le ricerche effettuate sul reale consumo di Coca Cola che dilaga tra gli abitanti di San Cristobal, hanno evidenziato un preoccupante aumento delle malattie metaboliche.
Soprattutto diabete e obesità.
Inoltre è estremamente inquietante il coinvolgimento dei bambini che sin dalla più tenera età compromettono le proprie condizioni fisiche sorseggiando Coca Cola, anziché limpidi e salutari bicchieri d’acqua.
Le stime sull’abuso della bevanda lasciano sgomenti.
La gran parte della popolazione di San Cristobal ingerisce un quantitativo giornaliero pari almeno a 2 lt di Coca Cola al giorno.
Da uno studio effettuato sulla popolazione si è accertato che tra il 2013 e il 2016 l’aumento di casi di diabete è stato pari al 30%.
La maggior parte delle famiglie hanno al loro interno almeno un consanguineo affetto da questa patologia. Il diabete è la seconda causa di morte nel centro abitato nella zona meridionale del Messico.
È lecito e logico pensare subito: ma se c’è una crisi idrica tale da dover razionare la fornitura d’acqua alla popolazione, da dove arriva l’acqua utilizzata per preparare la Coke?
Messico. La risposta si racchiude in un’unica parola: Femsa.
La FEMSA – Fomento Económico Mexicano, S.A.B. de C.V. – è una multinazionale messicana fondata nel 1890 da cinque imprenditori (Isaac Garza, José Calderón Penilla, José A. Muguerza, Francisco Sada Gómez e Joseph M. Schnaider) che diedero inizio a quest’avventura, aprendo il birrificio “Cuauhtémoc Ice and Beer Factory”, a Monterrey, NL, Messico.
Da quel momento in poi la FEMSA non si è più fermata. È diventata la multinazionale messicana che su scala mondiale vanta impegni nel settore della ristorazione e delle bevande.
È la seconda maggior azionista della Heinken International ed è la più grande azienda imbottigliatrice di Coca Cola al mondo.
Ora cari lettori, dopo aver compreso e chiarito in grandi linee cos’è l’azienda FEMSA, torniamo a dare il giusto spazio al vero protagonista di questa storia: il popolo assetato.
Un’intera comunità che – anche attraverso la divulgazione di pubblicità ingannevoli – continua a bere Coca Cola come se fosse acqua; mentre l’acqua continua a essere razionata e mal distribuita.
Ma se l’acqua scarseggia, come riesce la FEMSA ad imbottigliare galloni e galloni di Coca Cola da far arrivare in quantità decisamente importanti a San Cristobal de las Casas, risparmiando a tal punto da far diventare più economico una confezione di Coca Cola, rispetto a una d’acqua?
Semplice, l’impianto locale della Coca Cola – sempre di proprietà della FEMSA – ha autorizzazioni utili per accedere alle riserve d’acqua della zona da poter utilizzare per essere depurate, addolcite e alterate fino a trasformarsi nella bevanda dal leggendario marchio rosso e bianco.
Messico, l’acqua alla multinazionale ma non ai cittadini!
La multinazionale può e ha accesso all’acqua, arrivando a poter utilizzare circa 300.000 litri al giorno da fonti idriche locali. La comunità di San Cristobal no.
I residenti del paesino situato tra le Montagne della Sierra Madre contestano, si lamentano anche e soprattutto quando si parla della salute sempre più compromessa della loro comunità. La FEMSA attraverso i suoi rappresentanti legali nega ogni responsabilità.
Imputabilità che rigetta attraverso dichiarazioni come questa, pubblicate dal New York Times, attribuite a uno dei dirigenti della FEMSA: “ha respinto le critiche che le bevande della compagnia abbiano un impatto negativo sulla salute pubblica. I messicani, ha detto, possono avere una propensione genetica verso il diabete“.
È imperativo che non ometta quanto sia ormai diffuso l’utilizzo delle bevande gassate e zuccherate come la Coca Cola (chiamate refrescos) su tutto il territorio Nazionale Messicano.
Messico, solo la punta dell’iceberg
Sotto certi aspetti, la storia di San Cristobal de Las Casas è solo la punta dell’iceberg perché negli anni il Messico ha scalato in modo celere la triste classifica dei Paesi consumatori di Coca Cola.
È secondo solo agli Stati Uniti d’America.
Resta il fatto che mentre gli abitanti di San Cristobal continuano ad attendere che l’acqua torni a poter essere utilizzata in modo concreto e giusto, la FEMSA continua a imbottigliare e a distribuire la famosa bevanda – frutto di una ricetta ancora oggi segreta – in quantità anche superiori alle reali necessità del luogo, mixando al sapore dolciastro e frizzantino famoso in tutto il mondo, l’amaro retrogusto di un subdolo capitalismo.
- Ciboserio: “Messico: intera città beve Coca Cola, perché manca l’acqua”
- Ytali: ”Chiapas, senz’acqua ma con la Coca Cola”
- L’Indro: “Il governo Messicano ha sete di Coca Cola”
- Femsa.com
- SBS News: This small town in Mexico is addicted to Coca-Cola. It also grapples with a deadly disease.
- Voices: San Cristobal de las Casas, the Mexican town that drank more coke than water
Caregiver as a new Hero. L’anima allo specchio on radio.
(Caregiver) a cura di Ileana Aprea e Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società
In questa prima puntata della rubrica radiofonica L’anima allo specchio la dottoressa Ileana Aprea e Cecilia Simona Domenica Rossi affrontano la tematica del caregiving, una condizione molto diffusa in Italia e destinata ad aumentare nel corso degli prossimi anni.
Caregiver, chi è e cosa comporta questa scelta di vita
Ma chi è esattamente un caregiver? e cosa comporta il carico fisico ed emotivo di tale condizione?
Le due conduttrici analizzando i dati rilevati nel nostro Paese e cercano di approfondire la condizione del caregiver da un punto di vista umano e psicologico.
Caregiver. Ascolta la trasmissione completa
Caregiver. Indirizzi Utili
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Gli stupri fantasma in Bolivia
(Bolivia) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
Bolivia. La storia di cui narro in questo mio articolo si tinge di parole inequivocabilmente difficili, come: abuso sessuale, violenza e ingiustizia.
Bolivia. Sventurate protagoniste di questo caso sono più di 130 donne – ma il numero in realtà, potrebbe essere stato molto più alto – della comunità Mennonita di Manitoba in Bolivia, vittime di ripetuti e brutali stupri all’interno della loro confraternita religiosa, tra il 2005 e il 2009.
Bolivia. Chi sono i Mennoniti
Bolivia. I Mennoniti rappresentano tra le Chiese Anabattiste quella più numerosa. L’anabattismo – deriva dalla parola greca ἀνα (di nuovo) +βαπτίζω (battezzare) ovvero ribattezzatori, in tedesco Wiedertäufer – è un movimento religioso di formazione cristiana che nasce in Europa durante il XVI secolo, in seguito alla rivolta di Munster. Nello specifico i Mennoniti devono il nome al loro fondatore, l’Olandese Menno Simmons (1496 – 1561), figura di spicco tra gli anabattisti, considerato altresì un eretico dai Cattolici.
I Mennoniti fondamentalmente auspicano per un ritorno della Chiesa alle proprie origini, privata dal vero verbo lasciato da Cristo, perché “contaminata” da lotte intestine per il potere e la troppa teologia. Rifiutano il battesimo (soprattutto sui neonati) e per comprendere appieno la loro quotidianità dobbiamo immaginarci fermi al ‘500, infatti rifiutano: il progresso, l’elettricità e ogni forma di modernità.
Sono isolati il più possibile dal resto del mondo, ma l’approccio che riservano a chi non fa parte delle loro comunità è sostanzialmente molto pacifico. È loro scopo creare una collettività dove si viva rispettando criteri di sobrietà e carità, seguendo rigide regole comportamentali.
La musica come i giochi sono preclusi e non esistono passatempi. Non possono guidare auto o avere internet. Sono vietati alcool e contraccettivi. I pilastri della comunità si concentrano nel culto, nel lavoro e nell’accudire la propria famiglia.
La (triste) vicenda che ho deciso di narrare ha il proprio epicentro in Sud America, qui i Mennoniti – secondo un censimento del 2013 – sono più di 70.000 e in Paesi come la Bolivia appunto, ma anche in Paraguay e in Messico si sono insediate le più fiorenti, dogmatiche e conservatrici congregazioni di tutta l’America del Sud.
Principalmente discendono da Mennoniti Russi di origini fiamminga, tedesca e frisona. La lingua parlata è il plautdietsch – definita anche basso tedesco mennonita – è un groviglio tra Olandese, Tedesco e Frisone ed è classificata come una delle lingue minacciate di estinzione. All’interno delle Comunità tutti si esprimono solo in plautdietsch, inoltre molto spesso le donne mennonite conoscono solo questo lessico.
Bolivia. La comunità Mennonita e i suoi Demoni
Bolivia. Per molto tempo le vittime degli stupri hanno taciuto sulle aggressioni per pudore e paura. Ma il susseguirsi delle violenze carnali ha fatto sì che iniziassero a serpeggiare all’interno di Manitoba, inquietanti storie su potenti Demoni capaci di rapire e aggredire brutalmente le donne, nel cuore della notte.
Soprattutto quando le stesse perseguitate compresero di non essere le sole a vivere queste atroci esperienze, infatti condividendo i loro tormenti molte scoprirono che anche le proprie sorelle, madri e addirittura figlie celavano racconti agghiaccianti che non potevano più essere taciuti.
Le violenze carnali si svolgevano dopo il calar delle tenebre, quando il sole lasciava il posto all’oscurità che, grazie alla totale assenza di elettricità, si posava come un pesante manto nero e oscuro sulle abitazioni, permettendo ai Demoni di sopraggiungere e colpire come meglio volevano e quanto potevano, all’interno della Comunità.
Gli unici indizi che testimoniavano quanto accaduto si palesavano al risveglio. Le donne erano totalmente prive di validi ricordi, ma con segni tangibili e orrendi della notte appena trascorsa. Il loro corpo era l’unico messaggero che testimoniava in maniera inequivocabile quanto avveniva durante il sonno, privo di sogni.
C’è chi si risvegliava coperta di ematomi e nuda -pur essendosi coricata vestita- chi, invece, aveva sperma e sangue sul fisico e tra le lenzuola, come indizi che qualcosa, o qualcuno, le aveva profanate nel modo più vile e crudele. In alcuni casi, le vittime ricordavano di aver avuto incubi nei quali alcuni uomini le possedevano con forza in un campo buio per poi al mattino, ritrovarsi fili d’erba tra i capelli arruffati.
Molte di loro oltre alla completa assenza di memoria, si ridestavano con cefalee persistenti e dolori articolari, segni di legature sulle giunture e un intorpidimento pesante da smaltire, che le lasciava confuse per ore. Le vittime accertate sono state molte e variavano da giovani ragazze a donne più mature, e persino bambine.
Il corpo abusato più giovane in assoluto è stato quello di una bambina di appena 3 anni, a cui hanno rotto l’imene con un dito.
Gli stupri fantasma nella comunità hanno ferito l’anima e il fisico di molte donne, senza distinzione di età o aspetto. I Demoni che colpivano lo facevano per il gusto maledetto di profanare e abusare delle proprie vittime, senza rispetto alcuno e nella più completa libertà di sentirsi talmente tanto al sicuro da esser certi di non poter mai essere scoperti.
Bolivia. Chi ha violentato le donne?
Bolivia. Se la storia degli stupri fantasma iniziò ad avere voce con dei sussurri appena percettibili, l’insistenza con la quale i tragici eventi continuavano a susseguirsi costrinse molte famiglie delle vittime a chiedere aiuto al Consiglio Ecclesiastico della Comunità, formato da un gruppo di uomini che vigila sulla congregazione.
Purtroppo neppure questo gesto fu un significativo strumento che mise fine alle violenze o aiutò a far luce sulla verità, perché esaustive dichiarazioni come questa rilasciate dall’allora capo laico della Comunità Mennonita:
“Sapevamo solo che di notte succedevano cose strane…Non sapevamo chi fossero. Come potevamo fermarli?” Abraham Wall Enns
lasciano poco spazio a dubbi su cosa e quanto si sia fatto per portare alla luce la verità e interrompere le aggressioni. È facile dedurre quindi che nessuno fece assolutamente nulla. Addirittura per giustificare questi assurdi fatti, si arrivò a ipotizzare che i Demoni colpissero per esempio chi non rispettava le austere regole all’interno della comunità. In alcuni casi si arrivò a pensare che la vittima avesse inventato tutto per coprire semmai una relazione clandestina; oppure ritennero più semplice additare le donne stuprate come soggetti con una “selvaggia immaginazione femminile”.
Nel Giugno 2009 venne finalmente scoperta l’identità dei Demoni di Manitoba. In realtà non avevano nulla di innaturale e mefistofelico! Erano due uomini della comunità colti in flagrante mentre tentavano d’introdursi in un’abitazione per compiere l’ennesima violenza carnale.
Durante l’interrogatorio iniziarono a confessare e anche grazie alle loro testimonianze, vennero arrestati altri nove uomini della comunità mennonita, di età compresa dai 19 ai 43 anni, che si dichiararono facenti parte del gruppo di stupratori seriali che dal 2005 colpiva nella comunità.
Durante le prime confessioni – che verranno in seguito ritrattate – raccontarono anche il modus operandi attraverso il quale riuscivano costantemente a rendere le vittime inermi e stordite a tal punto da non essere in grado di ricordare o di essere abbastanza attendibili da rilasciare valide testimonianze utili a una loro eventuale cattura, permettendogli di continuare a colpire indisturbati e a farla franca per così tanto tempo.
Il segreto era racchiuso in uno spray narcotizzante inventato da un veterinario di una comunità mennonita a loro vicina, prodotto per essere utilizzato sulle mucche, che gli aggressori usavano prima di colpire.
Dopo aver atteso che il buio calasse sulle abitazioni, entravano in azione spruzzando il composto chimico nelle finestre delle camere da letto dove dormivano la vittima prescelta e la sua famiglia. Attendevano che il potente rimedio facesse effetto per poi intrufolarsi nelle case e iniziare la mattanza. Potevano agire in gruppo o da soli, sempre col favore dell’oscurità.
La verità concreta e precisa venne palesata solo due anni dopo, nel 2011, quando ebbe inizio il processo che vedeva imputati questi uomini vili e meschini che diedero forma agli incubi peggiori, raccontando le nefandezze di cui si erano macchiati in tutti quegli anni.
Le deposizioni rilasciate furono orrende e dipinsero un quadro di violenze brutali. Anche se in via solamente ufficiosa, alcuni abitanti della colonia mennonita affermarono che a subire violenza carnale non furono solo le donne, ma anche uomini e ragazzi.
Gli imputati vennero ritenuti colpevoli e condannati a 25 anni di reclusione ciascuno, mentre il veterinario che li riforniva di spray anestetizzante fu condannato a 12 anni di prigione.
Come affermavo all’inizio del racconto, ufficialmente le vittime accertate sono state 130, ma si è sempre pensato che i numeri fossero più corposi e che la verità su cosa si celi dietro quest’inquietante storia non sia mai stata veramente svelata, visti i modi e i tempi di gestione della Comunità stessa, nei riguardi delle donne abusate.
Nessun supporto psicologico è stato offerto alle vittime, alle quali invece è stato imposto un impietoso silenzio disceso su tutta la comunità mennonita a seguito del verdetto di colpevolezza dei condannati:
“Ci siamo lasciati tutto alle spalle… Preferiamo dimenticare, piuttosto che continuare ad averlo stampato in testa.” Dichiarazione di Wall – leader civile della Colonia ai tempi dei processi.
Sono passati molti anni dagli eventi narrati eppure nell’incedere perenne del tempo, la storia ha più volte deciso di ricordare quest’angosciante vicenda, donando alle vittime degli stupri fantasma un vera e propria voce che inizialmente ha preso vita tra le pagine del bellissimo romanzo pubblicato nel 2018: “Donne che parlano”, di Miriam Toews – talentuosa scrittrice, nata in Canada in una comunità mennonita da cui fugge appena 18enne – nel quale l’autrice romanza la vicenda degli stupri fantasma nella setta mennonita boliviana; ispirando anni dopo il film: “Women Talking – il diritto di scegliere” candidato all’Oscar e già acclamato dalla critica e dal pubblico americano che esce nelle sale cinematografiche italiane, l’ 8 Marzo 2023.
Posso sinceramente suggerirvi di leggere il romanzo di Miriam Toews come di andare a vedere il lungometraggio ispirato dal libro, l’importante è non dimenticarsi di tutte le donne vittime degli stupri fantasma nella setta mennonita in Bolivia.
Il ricordo e l’attenzione permetteranno a questa storia di non ritornare ad essere solo sussurrata, perché è stata dannatamente reale tanto da non risultare così impossibile immaginare che quei Demoni siano ancora in mezzo a loro…
“Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata.
(Donne che parlano – Miriam Toews)
Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio,
non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo.
Siamo mennonite senza una patria.
Non abbiamo niente a cui tornare,
a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi.
Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni – per forza che siamo sognatrici”.
Fonti:
- The Universal: “Come vivono i Mennoniti, la comunità religiosa che rifiuta l’elettricità”
- Vice: “Gli stupri fantasma della Bolivia”
- Wikipedia: “I Mennoniti della Bolivia”
- Wikipedia: “I Mennoniti”
- Marcos Y Marcos: “Donne che parlano” di Miriam Toews
- La Repubblica: “Le figlie di Manitoba”
Spagna: quando i bambini venivano venduti in nome di Dio
(Spagna) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
Spagna, quando i bambini venivano venduti in nome di Dio. La storia del “commercio” segreto dei neonati che ha coinvolto Suore e Personale Sanitario nel Paese Spagnolo.
SI SOSPECHAS QUE PUEDES HABER SIDO VÍCTIMA DEL ROBO DE RECIÉN NACIDOS CONTACTA CON NOSOTROS. Por cualquier mínima sospecha que tengas, ya sea como padres que perdieron a su bebé, o hijos que ha sido dados en adopción, puedes ser víctima del robo de recién nacidos que ha tenido lugar en toda España.
SE SOSPETTI DI ESSERE STATO VITTIMA DI UN FURTO NEONATALE, CONTATTACI. Per ogni minimo sospetto che hai, sia come genitori che hanno perso il loro bambino, o bambini che sono stati dati in adozione, puoi essere vittima del furto di neonati che ha avuto luogo in tutta la Spagna.
Spagna. Non lascia spazio a dubbi l’annuncio che accoglie il visitatore sulla pagina ufficiale del sito: sosbebesrobadosmadrid.com – finestra digitale gestita dall’Associazione omonima (SOS bambini rubati Madrid), senza scopo di lucro, fondata come luogo d’incontro e di ricerca tra persone che hanno avuto problemi inerenti a decessi neonatali dubbi e adozioni irregolari avvenuti negli ospedali e in alcune cliniche Spagnole, a partire dal periodo Franchista fino agli anni ‘90.
Ho citato solo una tra le associazioni più famose che continuano a cercare la verità, ma la lista è lunga come lo è purtroppo il numero degli sfortunati protagonisti di questa vicenda per la quale, ancora oggi, molte persone tentano di rintracciare e abbracciare il proprio figlio, fratello, o genitore da cui è stato forzatamente separato.
A tutti gli effetti questa è una storia che sembrerebbe la trama perfetta di un romanzo dai toni inquietanti e angosciosi. Invece è tutto insopportabilmente vero e ci trascina tra le pieghe profonde e viscose della triste compravendita di neonati avvenuta in Spagna a opera di una rete corrotta e ben consolidata tra Suore, Medici specialisti e personale infermieristico. Una vera e propria organizzazione in grado di guadagnare cifre da capogiro attraverso il rapimento e la vendita di neonati.
Secondo una stima approssimativa circa 300.000 bambini appena venuti al mondo, sono stati strappati in modo subdolo e meschino dalle braccia delle proprie madri, per essere donati – solo successivamente, il lucro divenne parte integrante di questo ignobile mercato- a famiglie ritenute idonee, consenzienti ed elargenti.
Spagna. Ma come e soprattutto perché, nasce questo vergognoso traffico di esseri umani?
Spagna. Tutto ha inizio durante la Dittatura Militare Franchista (1939-1975) instaurata dal Generale Francisco Franco (Ferrol, 4 Dicembre 1892 – Madrid, 20 Novembre 1975) che guidò la Spagna sotto un regime dittatoriale di stampo fascista che prese il nome di Franchismo.
Il Generale Franco diede al suo governo un modello: autoritario, tradizionalista e clericale. Ripristinò anche la Monarchia, per la quale si autoproclamò:
Reggente – per reggenza s’intende la sovranità esercitata da una persona diversa dal Monarca – e Caudillo – parola spagnola il cui significato è: Capo Militare che assume poteri assoluti. Termine divenuto nel tempo oltre che sinonimo del Generale Franco anche appellativo conforme a Fuhrer e Duce conducendo il Paese in una spirale di terrore e totalitarismo.
Ad avviare la tratta di neonati fu proprio il Generale Franco che autorizzò un tale abominio, sfruttandolo come vera e propria forma di repressione politica.
Subivano infatti questa crudeltà solo le madri sospettate di avere ideologie Comuniste, Anarchiche, Repubblicane o comunque lontane da quelle del regime. Anche le donne la cui appartenenza a nuclei familiari considerati “oppositori” al Generale, venivano colpite in questo modo bieco e disumano.
Il neonato sottratto veniva affidato a genitori “idonei” a crescerlo, essendo conformi e fedeli al regime Franchista, sotto tutti i suoi aspetti: politico, sociale e religioso.
Il Dittatore era anche supportato dalla “Tesi del Morbo Rosso” formulata e divulgata da uno dei suoi consiglieri più fidati, lo psichiatra Antonio Vallejo-Najera (1889-1960).
Lo psichiatra, dopo aver soggiornato in Germania, entrando in contatto con ambienti dove già si discuteva di pulizia etnica e di superiorità tra le razze, aveva pensato bene di formulare la bislacca teoria “del Morbo Rosso” nella quale farneticava di valenze scientifiche che comprovavano una trasmissione di virus, come di una malformazione cerebrale, che colpiva solo e soltanto le persone dissidenti e/o Comuniste (Los Rojos – I Rossi).
Un virus per cui non esistevano cure e da cui se si veniva contagiati, non si poteva guarire. Un morbo da cui i bambini dovevano essere allontanati e protetti per evitare il “contagio della Ribellione”.
Il 17 Ottobre 1941 il Dittatore Franco modifica la legge sulle adozioni: i figli dei dissidenti incarcerati devono essere trasferiti negli orfanotrofi gestiti dalla Chiesa, dove viene accertata la loro “adottabilità” per le famiglie dichiaratamente conformi al regime, ovvero: cattoliche praticanti, eterosessuali e politicamente fedeli al sistema.
Ha così inizio il coinvolgimento della Chiesa in questa pagina nera della storia spagnola.
L’organizzazione funziona bene e la collaborazione tra alcuni organi di Stato e le strutture religiose ospitanti, continua anche dopo la caduta del Regime Dittatoriale avvenuta nel 1975. Quella che era nata come una mostruosa e terrificante macchina di propaganda franchista, si trasforma in un vero e proprio affare sempre più redditizio.
Spagna. Perché donarli, quando si possono vendere e guadagnarci?
Spagna. Avendo la possibilità di lavorare sia negli Ospedali che negli Orfanotrofi, le Suore acquisiscono un ruolo di assoluta rilevanza all’interno del sistema vizioso in quanto ricoprono incarichi di notevole spicco in quest’ingranaggio diabolico, che le vede in grado sia di riuscire a falsificare i certificati di nascita e morte dei bambini rapiti, sia di ottenere la fiducia delle vittime più facili da irretire per avere neonati da vendere.
Le ragazze madri per esempio, rappresentano l’offerta migliore in quanto nella maggior parte dei casi sono fortemente indigenti e (spesso) profondamente credenti. Un connubio perfetto verso il quale porgere una mano nel momento più delicato.
Molte volte le giovani non hanno un’istruzione adeguata e sono completamente sole; le famiglie le allontanano per la vergogna di vederle generare un figlio fuori dal matrimonio. Ma anche quando accanto alla donna incinta non manca una figura maschile pronta a diventare padre, è sempre la bassa estrazione sociale a spingere le religiose a selezionarli per il proprio abominevole scopo.
È come se la penuria li rendesse prede più facili da colpire e gestire. Altresì i Medici specialisti sono coloro che spesso attirano alcune tipologie di coppie – soprattutto quelle dichiarate sterili- ad avvalersi del loro aiuto per poter avere un bambino da crescere e amare (ovviamente dopo aver elargito un lauto compenso).
La rete d’illusione e bugie – creata e supportata da medici e figure religiose corrotte e senza scrupoli- riescono a convincere le partorienti prescelte a recarsi nei centri ospedalieri da loro gestiti, dove poi poter sottrarre il bambino appena nato in tutta tranquillità, semmai fingendo un travaglio iniziato bene ma finito in tragedia per rivenderlo subito dopo alla coppia pagante che rimaneva in attesa di avere il piccolo tra le proprie braccia.
Molte volte le partorienti venivano sedate per impedire loro di avere ricordi utili da sfruttare per comprendere cosa fosse accaduto realmente negli attimi concitati successivi alla nascita del figlio.
Subito dopo si dava alla giovane madre l’infausta notizia, ostentando un certificato di morte completamente falso e mostrato (qualora la partoriente riuscisse ad avere la forza di vederlo) il corpo di un neonato sì deceduto, ma nella realtà non suo.
Durante lo scandalo e le inchieste molte tombe di bambini di cui si sospettava una dichiarazione di morte falsa, vennero fatte riesumare. In molti casi i sepolcri hanno restituito bare vuote, oppure con dei resti umani che non erano del bambino seppellito lì ufficialmente. Addirittura furono rinvenuti mucchi di pietre al posto dei corpi e persino l’arto inferiore di un soggetto adulto!!
Spagna. Le voci “mute” delle madri dei “ninjos rubados”.
Spagna. Per molto tempo le voci delle madri dei “ninjos robados” (bambini rubati) hanno cercato di farsi sentire. Con forza, caparbietà e lungimiranza queste donne hanno provato a capire cosa fosse davvero successo subito dopo il parto, ma hanno sempre trovato un muro di silenzio e omertà.
Non dimentichiamo che la Dittatura Franchista anche dopo la sua caduta lasciò impresse dietro di sé per molto tempo, l’eco della paura e del silenzio agevolando di fatto, situazioni abominevoli come questa.
Complice anche la “Ley de Amnistia” (Legge dell’Amnistia) approvata nel 1977, il commercio dei ninjos robados non trova forze giuridiche utili, per riuscire a essere fermato e condannato.
Intanto il tempo passa, altri bambini spariscono dalle culle per essere adagiati tra le braccia di sconosciuti che li hanno comprati.
C’è inoltre da sottolineare che attraverso alcune testimonianze dei genitori adottivi, si è scoperto che di frequente quest’ultimi venivano convinti che il bambino affidato loro, era stato dato in adozione perché la madre era una prostituta o entrambi i genitori erano tossici ed eroinomani; e che la quota versata era da ritenersi una “semplice” donazione. Sotto certi aspetti, sia i genitori adottivi che quelli biologici hanno subìto lo stesso trattamento fondato su falsità e puro profitto.
Di tutta la fitta rete di personaggi angoscianti che popolano questa triste vicenda risaltano tra gli altri, due nomi chiave che si sono fatti strada tra le oscure trame che avvolgono la vendita dei bambini in Spagna, e sono: il medico Eduardo Vela e Suor Maria Gomez Valbuena.
Il dottor Eduardo Vela, medico ed ex ginecologo della Clinica San Ramon di Madrid.
Durante la dittatura franchista diventa miliardario non lavorando solo in campo sanitario, ma facendo affari e fondando società vicinissime al regime.
Il suo nome campeggia tra gli altri perché – ancora oggi – rimane l’unico medico ad essere finito davanti a un Tribunale con l’accusa di sottrazione di minore. Quando nel 1982 partono le prime inchieste, Vela intesta tutto alla moglie che risulta essere milionaria mentre lui diventa nullatenente, autorizzando anche il cambio di nome alle società a lui intestate.
Nel 2010 inconsapevolmente, dichiara a dei giornalisti de ElmundoTV che si sono finti bambini adottati, di aver distrutto gli archivi nei quali venivano conservati i nomi delle madri biologiche e di quelli dei genitori adottivi. Eliminando di fatto, una delle possibilità più concrete per dare volti e abbracci alle vittime di questa tratta. Solo nel 2018, ormai 85enne, è stato accusato da Ines Madrigal – 49enne, dipendente delle ferrovie – di averla strappata dalle braccia della madre biologica, falsificando il suo atto di nascita.
Accuse inoltre supportate dalla testimonianza sconvolgente della madre adottiva della Madrigal, Ines Perez (ormai scomparsa). Quest’ultima dichiarò che: dopo aver scoperto di non poter avere figli naturali seguì il suggerimento del Dott.re Vela, il quale le propose d’inscenare una gravidanza nell’attesa di poter abbracciare un neonato che le avrebbe fornito lui stesso, con tanto di certificazione di nascita adeguata e conforme alla legge.
In sede processuale Vela depose dicendo di non ricordare molto dell’accaduto, visto che i fatti risalirebbero al 1969 e di non riconoscere neppure la sua firma sul certificato di nascita della Madrigal.
“Non è la mia firma, non ricordo” poche parole che di nuovo spingono prepotentemente la verità verso recessi troppo oscuri da illuminare per rendere giustizia non solo alla storia di Ines Madrigal, ma anche a quella di tutti gli altri bambini passati tra le mani del ginecologo in questione che ha anteposto il suo giuramento, alla cupidigia del vile denaro.
Suor Maria Gomez Valbuena, definita il braccio destro di Vela.
Arrestata nel 2012 e ritenuta un elemento cardine nell’organizzazione che orchestrava i furti dei neonati, non ha mai contribuito alle indagini perché si è costantemente avvalsa della facoltà di non rispondere. Le Figlie della Carità di San Vincenzo Paolo II dichiarano che Suor Maria Valbuena – 87enne e già gravemente malata – muore il 22 Gennaio 2013.
Il certificato di morte della religiosa viene firmato dal Dott.re Enrique Berrocal Valencia, ma arriva in Tribunale con anomalie significative e inspiegabili ritardi. Le irregolarità di stesura e convalida del certificato di morte fanno insospettire molte persone sul reale decesso della Suora.
In finale sarebbe l’ennesimo certificato alterato e falsificato che condurrebbe al suo nome. Nonostante i sospetti e le reali incongruenze sulle certificazioni presentate, il processo contro Suor Maria viene chiuso e archiviato, lasciando però lo spiraglio di una riapertura qualora nuovi indizi conducessero all’acquisizione di prove e di indagati.
Quello che rimane impresso accanto ai nomi del dottor Vela e di Suor Maria è che la compromissione di tutta questa narrazione non macchia solo la sfera religiosa, ma anche quella etica e morale.
Spagna. La storia non si ferma e travalica i confini spagnoli
Spagna. Nel 2011 lo sconvolgente documentario targato BBC conduce la storia a un’altra verità agghiacciante: molti neonati sono stati ceduti a coppie residenti all’estero, portando di fatto la storia ad allargarsi a macchia d’olio, anche fuori dai confini del Paese Spagnolo.
La legge sulle adozioni:
Solo nel 1987 con la Legge sull’adozione viene garantita ai bambini la giusta e doverosa protezione dello Stato e della Pubblica Amministrazione, durante tutto l’iter utile al processo d’adozione. Inoltre nel 1996 una legge che attua una protezione giuridica del minore decreta il diritto del bambino adottato, di poter conoscere i propri genitori biologici. Autorizzando di fatto tutte quelle persone che, nel dubbio, vogliono provare a scoprire se sono stati sottratti alle proprie famiglie biologiche o meno.
Sotto molti aspetti il silenzio continua ad aleggiare su questa storia infame. A tutt’oggi la Conferenza Episcopale Spagnola non rilascia alle autorità preposte le agende personali di Suor Maria, dove sarebbe facilmente possibile ricollegare ai nomi dei genitori biologici e adottivi quella dei bambini rubati, così da poter finalmente districare molta di questa matassa, ponendo fine alla crudeltà dell’opera perpetrata anche in nome di Dio.
Dopo aver narrato il genocidio culturale attuato nelle Residential Schools in Canada (articolo qui), speravo fosse difficile incontrare di nuovo nella narrazione di avvenimenti storici di tale complessità e portata queste figure religiose. Mi sbagliavo…
Tra i sinonimi della parola Madre c’è quello di Mamma, ma anche quello di Sorella – come appellativo evocativo che si premette ai nomi delle Suore.
L’accostamento in questo caso, mette i brividi. Non si può pensare di commettere crimini simili, accostandoli al nome di Dio.
Fonti:
- The Vision: “La storia segreta di come le suore abbiano nascosto la vendita di migliaia di bambini in Spagna”
- El Diario Vasco: ”El certificado de defunción de sor María levanta sospechas sobre su muerte”
- La Stampa: ”Spagna, inchiesta BBC: migliaia di neonati rubati durante il franchismo”
- Prealpina: ”Spagna, al via primo processo sui “neonati rubati” del franchismo”
- L’indro: “ Spagna: il business dei bambini rubati”
- Il Giornale.it: “Il medico che rapiva i bambini, così la Spagna processa i fantasmi del suo regime”
Hijab. In Iran il velo indossato male può uccidere!
(Hijab) Articolo scritto da Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società
Può un velo uccidere? il modo in cui viene indossato evidentemente sì! lo dimostra la notizia della terribile vicenda accaduta a Mahsa Amini, la ventiduenne iraniana che è morta dopo essere stata fermata dalla “Gasht e Ershad” (la “polizia della morale” iraniana) e portata alla stazione di polizia per una “rieducazione” perché il velo che indossava non copriva completamente i suoi capelli.
SOMMARIO
- Hijab. Un fatto di ordinaria follia
- Hijab. L’indignazione
- Hijab. Il codice di abbigliamento in Iran
- Hijab. Una chiara violazione dei diritti umani fondamentali
- Hijab. Per capire l’obbligo del velo
- Hijab. Nuovi decreti, nuove restrizioni
Iran. Martedì 13 settembre 2022.
Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran della “polizia della moralità iraniana” perché indossava il velo in “modo scorretto”.
Hijab. Un fatto di ordinaria follia
Ossia il suo hijab non copriva completamente i capelli.
Fermata dalla polizia iraniana e trattenuta per una “rieducazione” ha lasciato la stazione di polizia dopo alcune ore per essere trasferita all’ospedale di Kasra, dove è morta dopo tre giorni di coma.
“La ragazza ha avuto un infarto”, questa è la versione ufficiale delle forze dell’ordine.
Versione contraddetta dalla famiglia che ha dichiarato che la giovane Mahsa godeva di ottima salute.
Una versione quantomeno controversa anche in virtù di fotografie che sono circolate.
Immagini che ritraggono il corpo e il viso della giovane donna, intubata in un letto di ospedale, chiaramente tumefatti e provati.
Da parte del presidente iraniano Ebrahim Raisi è stato ordinato di aprire un’inchiesta per far luce sulla vicenda.
L’intervento di Amnesty International che parla di “arresto arbitrario” e di presunte torture durante la detenzione.
Hijab. L’indignazione
L’indignazione per la terribile storia di Mahsa Amini ha fatto il giro del mondo, a partire da diversi media iraniani indipendenti.
Le persone si sono radunate in segno di solidarietà e come azione di protesta presso l’ospedale Kasra.
Il supporto dei mezzi mediatici e dei social hanno permesso la diffusione di quanto stava accadendo e la conferma della massiccia presenza di agenti di sicurezza all’esterno della clinica.
Il nome di Mahsa è diventato virale sui social network, anche grazie all’intervento di diverse personalità iraniane di rilievo che hanno denunciato quanto accaduto.
La giovane arrivava dal Kurdistan iraniano ed era giunta a Teheran per far visita ad alcuni parenti.
Un viaggio che avrebbe dovuto essere di piacere ma dove la ragazza a trovato una morte prematura solo perché il suo velo non copriva completamente i capelli.
Hijab. Il codice di abbigliamento in Iran
In rete a tutt’oggi si trovano immagini di militari che trattengono le donne, le costringono con la forza a seguirli e le portano via.
Proteste di donne che vengono soffocate nella violenza, donne che protestano solo per il diritto di scegliere.
Perché di questo si dovrebbe trattare, di poter scegliere se indossare o meno un velo, ma per quelle donne la scelta non è nemmeno contemplata.
Le leggi sull’hijab a partire dal 1979, a seguito della rivoluzione islamica, obbligano ogni donna mussulmana dall’età di nove anni in poi a indossare il velo in pubblico.
Leggi che a oltre quarant’anni di distanza non sono mai cambiate.
“Siamo di fronte a un profondo passo indietro delle autorità iraniane contro le donne che osano sfidare l’obbligo di indossare il velo. L’annuncio della polizia pone molte donne a rischio di subire condanne ingiuste e ammonisce in modo agghiacciante tutte le altre a stare calme e al loro posto mentre i loro diritti vengono violati”.
Così dichiarava nel 2018 Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord a seguito del comunicato stampa emesso dalla polizia iraniana .
Comunicato che informava come decine di donne avrebbero potuto trascorrere fino a dieci anni in carcere per aver partecipato a manifestazioni contro l’obbligo del velo.
L’accusa? incitamento alla corruzione e alla prostituzione!
Hijab. Una chiara violazione dei diritti umani fondamentali
L’hijab che copre il capo è solo uno dei tanti veli utilizzati dalle donne islamiche.
Vengono utilizzati anche il niqab, che copre anche il volto lasciando una fessura per gli occhi e il burqa, che copre anche gli occhi con una rete attraverso la quale la donna vede il mondo esterno.
Le leggi che in Iran obbligano ogni donna e ogni bambina che abbia superato i nove anni a indossare il velo esistono da oltre quarant’anni nonostante secondo il diritto internazionale la legislazione iraniana costituisca una chiara violazione dei diritti umani fondamentali.
L’obbligo di indossare il velo infatti è una costrizione profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e delle ragazze.
Violati i diritti fondamentali
Viola i diritti delle stesse alla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di credo religioso.
Oltre a violare il diritto alla riservatezza e, considerando che l’obbligo vige dai nove anni in poi, viola anche alcuni specifici diritti delle bambine.
L’obbligo imposto dalle autorità iraniane alle donne e alle ragazze di coprire i propri capelli, esercitato anche attraverso azioni di violenza e umiliazione, nonché con arresto e prigionia, viola profondamente la dignità diventando anche, in termini giuridici, pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
Comportamenti che causando dolore o sofferenza, sia fisica che mentale, costituiscono a tutti gli effetti una tortura.
A tutt’oggi, però, le leggi che obbligano le donne a indossare il velo continuano a intensificarsi e inasprirsi, secondo la Bbc Persian nel nord-est dell’Iran, a Mashhad, è stata emessa un’ordinanza che impedisce alle donne di accedere a uffici e banche come di entrare in metropolitana senza indossare il velo.
Perfino la banca iraniana Mellat impone ai dipendenti un codice di abbigliamento severo vietando di indossare calze e tacchi alti per le donne e vieta ai dirigenti uomini di avere assistenti amministrative di sesso femminile.
Hijab. Per capire l’obbligo del velo
Negli ultimi anni le proteste contro l’obbligo dell’utilizzo dell’hijab si sono moltiplicate, forse anche per una forma di ribellione per quel passo indietro nell’evoluzione fatto tornando a indossare un velo dopo tanti decenni in cui l’obbligo era stato abolito.
Per capire l’imposizione di indossare il velo in Iran bisogna risalire alla rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini.
Nonostante il Corano prescriva realmente l’obbligo di indossare il velo, imponendolo a tutte le donne dei credenti (pertanto alle donne mussulmane, considerando il concetto radicato che i credenti siano solamente mussulmani, n.d.a.):
O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso.
CORANO 33, 59
l’hijab è stato sfruttato più che per una valenza religiosa come uno strumento politico diventando una sorta di arma da brandire in rappresentanza della resistenza contro Mohammad Reza Pahlavi l’ultimo scià di Persia e ultimo monarca della dinastia dei Pahlavi che ha regnato sull’Iran fino al 1979, allo scopo di dichiarare l’opposizione alla modernizzazione e ai modelli imposti dallo scià.
Strumento politico contro lo shah
Già il fondatore della dinastia Reza Shah Pahlavi (padre e predecessore di Mohammad, n.d.a.) riteneva il velo iraniano e i costumi tradizionali maschili un segno di arretratezza e cercò di modernizzare i costumi del popolo iraniano.
L’istituzione religiosa del Paese si oppose con decisione al tentativo di modernizzazione dello scià che però vietò comunque alle donne di indossare il velo.
Decisione che sollevò notevole malcontento tanto che il 12 luglio del 1935 a Mashhad venne consumata una strage per eliminare le persone che avevano protestato contro Pahlavi.
Quella data è stata poi scelta per istituire la Giornata dell’hijab e della castità, che si celebra a tutt’oggi. Reza Shah Pahlavi venne poi esiliato nel 1941 (non per questioni legate all’obbligo del velo, n.d.a.).
Quattro anni dopo la rivoluzione islamica del 1979 venne istituita la Sharia e proprio secondo una legge della Sharia è stato ripristinato l’obbligo per tutte le donne, le ragazze e le bambine sopra i nove anni, di indossare l’hijab.
Da allora il velo ha continuato ad essere uno strumento di controllo sociale utilizzato dalle autorità.
Per correttezza bisogna informare che esiste anche un corrispondente maschile di questa imposizione ma decisamente meno impegnativo e vincolante, ossia agli uomini non è permesso indossare pubblicamente pantaloni corti o maglie che sfoggino simboli occidentali.
Hijab. Nuovi decreti, nuove restrizioni
Il 15 agosto del 2022 il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha firmato un nuovo decreto dove viene riportato un ulteriore elenco di nuove restrizioni in merito al codice di abbigliamento delle donne iraniane al fine di far rispettare la legge sull’hijab e sulla castità.
Nel mese di settembre del 2022, a seguito della nuova legge, l’Iran ha deciso anche di introdurre una nuova tecnologia di riconoscimento facciale sui mezzi pubblici con lo scopo di identificare le donne che non rispettano la legge e non indossano il velo.
Forse un giorno si riuscirà a vivere in un mondo dove i diritti umani fondamentali non vengano violati, dove chi osa alzare la testa e dire di non essere d’accordo possa essere ascoltato e magari rispettato, dove una donna possa essere libera di camminare per strada senza dover nascondere i suoi capelli ma soprattutto che non sia costretta a subire umiliazioni e torture (sia fisiche che psicologiche) schiacciata da regole imposte da altri che non la ritengono nemmeno degna di avere dei diritti.
Al momento in cui questo articolo viene scritto sembra che un simile traguardo sia ancora lontano.
Nonostante da anni si susseguano proteste di ogni genere per l’abolizione dell’obbligo del velo queste finiscono inesorabilmente soffocate nella violenza e quelle donne che si permettono di protestare per rivendicare i propri diritti si ritrovano poi costrette a pagare un prezzo altissimo, dalla reclusione, alla fustigazione, all’umiliazione di dover chiedere scusa pubblicamente o, nel caso peggiore, come quello di Mahsa Amini, addirittura alla morte.
Fonti:
6/09/2022. La Stampa. Iran: portava male il velo, 22enne morta dopo arresto della “polizia della moralità”. Si scatena la protesta
16/09/2022. Il Giornale. Indossava male il velo: 22enne picchiata e uccisa dalla furia islamista di Valentina Dardari
16/09/2022. La Repubblica. Iran, proteste per la morte di una ragazza fermata dalla polizia perché non indossava correttamente il velo di Gabriella Colarusso
16/09/2022. Corriere della Sera. Iran, ragazza di 22 anni picchiata a morte perché non indossava bene il velo. Proteste nella capitale e sui social di Marta Serafini
16/09/2022. Il Secolo XIX. Iran: portava male il velo, 22enne morta dopo arresto della “polizia della moralità”. Si scatena la protesta
16/09/2022. Il fatto quotidiano. Iran, picchiata a morte perché indossa male il velo: in un’immagine tutta la brutalità del regime di Tiziana Ciavardini
16/09/2022. Il sussidiario. Picchiata a morte perché indossa male il velo. Iran, Mahsa Amini era stata arrestata di Chiara Ferrara
16/09/2022. RaiNews. Muore in custodia della polizia religiosa la ragazza iraniana che non indossava bene il velo
12/09/2022. Solo Donna. Iran: al via il riconoscimento facciale per identificare le donne senza hijab di Rachele Luttazi
24/08/2022, Il Giornale. “Obbligo di velo, violata la legge”. Scrittrice costretta a confessare in tv
14/07/2022. La svolta. La rivoluzione del velo in Iran di Chiara Manetti
8/03/2020. Metropolitan magazine. Donne, 1979: l’ultimo giorno senza velo in Iran di Maria Paola Pizzonia
5/06/2019. Unimondo.org. Iran, il velo obbligatorio e la battaglia delle donne: una storia lunga 40 anni
23/05/2019. Osservatorio Diritti. Iran: la lunga lotta delle donne contro il velo obbligatorio di Giulia Cerqueti
12/03/2019. Amnesty International. Iran, aggressioni di squadre filogovernative contro le donne che protestano contro uso obbligatorio del velo
27/02/2018. Amnesty International. Obbligo del velo in Iran, oltre 35 donne rischiano fino a 10 anni
6/01/2018. Magdi Cristiano Allam. Il velo alle donne islamiche lo impone Allah nel Corano. Solo la laicità può tutelare la vita, la dignità e la libertà di tutti
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