Gandhi. 76 anni fa l’omicidio del mahatma

Gandhi. 76 anni fa l’omicidio del mahatma

(Gandhi) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Persone e Storie

Il 30 gennaio 1948 un fanatico estremista indù poneva fine alla vita del Mahatma Gandhi, padre dell’India indipendente e della non violenza.

SOMMARIO

Mohandas Karamchand Gandhi è in modo unanime considerato il padre dell’India indipendente.

Fu proprio grazie al suo impegno che la Corona Britannica finì con il concedere l’indipendenza al vice-regno dellIndia.

Gandhi è anche e forse soprattutto il padre della non violenza, colui al quale si ispirano un po’ tutti i movimenti pacifisti.

Gandhi. Assassinato da un indù

Contrariamente a quanto si usa fare abitualmente questa volta partiremo dalla fine e non dall’inizio della vita del Mahatma Gandhi.

Ovvero da quel 30 gennaio del 1948 quando un fanatico estremista indù commise uno degli omicidi più celebri della storia.

Celebre e inspiegabile peraltro, perché già solo l’idea di assassinare il padre della non violenza fa rabbrividire chiunque.

Perché Nathuram Godse, questo il nome dell’omicida, decise di assassinare il mahatma?

La ragione è tanto semplice quanto elementare: fanatismo.

Gandhi aveva lottato per l’indipendenza dell’India ma gli estremisti indù non gli perdonavano le concessioni fatte al Pakistan.

Era giocoforza che prima o poi qualche fanatico compisse il gesto estremo e fu Godse a sparare, ma probabilmente non era l’unico ad averci pensato.

L’omicida rischiando il linciaggio da parte della folla preferì farsi catturare dalla polizia e fu messo a processo.

Nel 1949 venne giustiziato a morte nonostante la ferma opposizione dei seguaci e discepoli di Gandhi che in ossequio alla teoria della non violenza aborrivano la pena capitale.

Gandhi. Un sogno infranto

Quando Godse sparò a Gandhi il 30 gennaio 1948 l’India era diventata uno stato indipendente da pochi mesi.

Esattamente dal 15 agosto del 1947, ma quella data che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova era fu anche l’inizio di scontri fratricidi.

Contrariamente alle idee promosse dal mahatma che avrebbe voluto un’India unica, abitata da mussulmani e indù le forze politiche decisero altrimenti.

Gandhi

Quella che oggi conosciamo come India era allora abitata prevalentemente da popolazioni indù.

Mentre la regione orientale del Bengala a est e quella del Pakistan a ovest avevano una maggioranza mussulmana.

Con la spartizione in due stati distinti vi fu un immenso esodo di popolazioni.

Indù che lasciavano i due territori del Pakistan Occidentale e Orientale per rifugiarsi in India.

Mussulmani che abbandonavano la neonata India per andare dai correligionari in Pakistan.

Nel mezzo scontri e violenze inaudite.

Gandhi. La “debolezza” secondo gli indù

Fino all’ultimo il mahatma cercò di evitare la scissione in due stati, senza peraltro riuscirvi.

Di fronte all’imperversare dei disordini e degli scontri il mahatma adottò la tecnica dello sciopero della fame.

La notizia che il mahatma stava deperendo a causa dell’astinenza da cibo fece il giro dell’India e del Pakistan.

E almeno per un po’ i tumulti si acquietarono.

Ma la situazione era tesa e bastava anche solo un piccolo incidente per scatenare di nuovo violenze da una parte e dall’altra.

Gli estremisti indù non gli perdonarono mai le concessioni, a loro dire, fatte ai mussulmani.

Secondo la loro visione il maestro aveva tradito la causa dell’indipendenza dell’India favorendo almeno in parte gli acerrimi nemici mussulmani.

Va da sé che un simile ragionamento non aveva alcun fondamento nella realtà.

Se Gandhi ha sbagliato non è stato nel credere nel sogno dell’indipendenza e della coesistenza tra indù e mussulmani.

Piuttosto nel pensare che la classe dirigente indiana (indù e mussulmana) fosse all’altezza di quel compito.

Gandhi. Un’eredità scomoda per alcuni

A partire dagli stessi indiani che hanno dovuto fare i conti con una vera e propria leggenda come quella di Gandhi.

Se l’India fin dalla sua nascita non si è mai schierata, almeno ufficialmente, nello scacchiere internazionale in parte lo si deve anche a Gandhi e al suo retaggio politico.

La teoria del non allineamento è stata per decenni accostata a quella della non violenza di gandhiana memoria.

La verità probabilmente è meno aulica e un po’ più pragmatica di così.

Dopo l’indipendenza l’India era un paese povero, arretrato per lo più e di scarso peso internazionale.

Scegliere di non schierarsi nella contrapposizione fra blocchi ha permesso all’India di ricavarsi un piccolo spazio di manovra in politica estera.

Specialmente nella regione indo-pacifica, dove ha da sempre un vicino scomodo come la Cina.

Gandhi. E se non fosse stato assassinato?

Cosa sarebbe accaduto se quel 30 gennaio 1948 Godse non avesse sparato al mahatma?

Tutti sappiamo che la storia non si fa con i se e con i ma, dunque nessuno può dire cosa sarebbe accaduto.

Di sicuro il mondo avrebbe avuto ancora per un po’ (Gandhi non era più giovanissimo peraltro) una grande anima dispensatrice di idee universali.

Questo senza dubbio.

Ma se poi questo avrebbe cambiato il destino dell’India nessuno può dirlo con certezza.

Ma è ragionevole ipotizzare che non sarebbe cambiato poi molto.

Questo sulla base di cosa non riuscì a impedire dopo l’indipendenza dal Regno Unito.

Troppo spesso la sua figura e stata mitizizzata, quasi come una specie di super eroe della non violenza.

In realtà la forza del mahatma va ricercata invece nella sua assoluta normalità.

Gandhi. Un insegnamento senza tempo

Ciò che il mahatma ci ha lasciato in eredità va al di là delle questioni politiche dell’India e del Pakistan.

E forse anche ben oltre la teoria della non violenza peraltro troppo spesso mal interpretata.

Ciò che il mahatma ci ha indicato è che la forza del cambiamento nasce dentro di noi, dalla determinazione a non rinunciare a fare la cosa giusta.

Anche a costo di doverne pagare il prezzo, anche quando il nostro apporto sembra non cambiare nulla nel corso della storia.

Ogni gesto compiuto nel nome della giustizia ci conduce un passo in avanti verso un mondo migliore.

E non serve essere eroi per compiere simili azioni, basta la forza di volontà e la determinazione a voler cambiare il mondo.

Foto di marian anbu juwan da Pixabay

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Ethnic Minorities (words to understand the War in Ukraine)

(Ethnic Minorities) Article written by E.T.A. Egeskov for Politics and geopolitics

The war in Ukraine has brought to light the long-standing problem of ethnic minorities, which have often been used as a pretext to trigger international crises if not outright wars.

SUMMARY

Due to a wicked policy of displacement of entire populations from their territories of origin to other parts of the former USSR, the former states of the dissolved Soviet Union almost all had to deal with the cumbersome problem of ethnic minorities.

Especially those of Russian language and culture who always aspire to reunite with the motherland, the Great Russia of Moscow.

Ethnic minorities. The precedent of the former Yugoslavia

Those who are no longer very young will undoubtedly remember the terrible Balkans wars that shook Europe in the middle of the 90s.

The war arose from the dissolution of the Yugoslav Federation and the simultaneous birth of nation states, first and foremost Serbia and Croatia.

And it was precisely for ethnic-religious reasons that Serbia and Croatia found themselves in conflict.

With the addition of that melting pot of ethnicities and religions that is Bosnia and Herzegovina with the martyred city of Sarajevo first of all.

A corner of Europe that is the result of history, a crossroads of conquests and dominations stratified over the centuries.

The mixing of peoples and ethnic groups was also the result of precise political choices made by the then dictator of the former Yugoslavia, Tito.

Ethnic minorities. Divide et Impera

Divide et Impera” (divide and rule) has always been a good adage for those in power and in charge.

Moving groups of populations to territories occupied by other peoples was considered by the Yugoslav leadership to be a good way to hold together a country that was not a nation.

Ethnic Minorities
Ethnic Minorities

At least until everything collapsed, until the communist regime fell apart and gave way to the nationalistic-religious demands that inevitably led to conflict.

In the former Soviet Union, Stalin, a de facto dictator if not in name, also used the same system..

He “deported” millions of people from one territory to another in the same way that Tito had operated in Yugoslavia.

Or by moving the borders of the Socialist Republics that made up the USSR, incorporating portions of territory that historically had belonged to other peoples.

This is why Crimea, which has always been linked to Russia, becomes part of Ukraine.

While Transnistria, an unknown eastern region of Moldova, is populated by Russian peoples.

As long as the Soviet regime lasted, little changed, so much so that all power was centralized in Moscow and in the organ of the Communist Party.

But after the dissolution of the USSR and the birth of nation states, ethnic issues began to explode.

In Ukraine, the thorniest issue has always been the Donbass.

Territory in the far east of Ukraine, inhabited by Russian-speaking and Russophile populations for the most part, and therefore a source of contention between Russia and Ukraine over ethnic issues.

Ethnic minorities. The Real Reasons of the Russians

Although to tell the truth, the ultimate reasons for the dispute are mainly economic, namely the mines of which the Donbass is rich.

So much so that in the city of Mariupol, now completely destroyed by the Russians, there was the largest steel mill in Europe.

Azovstal became infamous for the heroic resistance of the Azov Brigade.

There he barricaded himself for weeks in a vain attempt to defend that Ukrainian garrison surrounded by overwhelming Russian armed forces.

The defense of Russian populations in Ukraine has given Putin a way to find an excuse, at least for his domestic public opinion, to invade Ukraine.

When the time comes to negotiate peace, the protection of ethnic minorities must be borne in mind.

In Ukraine but not only, the issue will have to be placed at the top of the list to avoid new future wars.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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Presidenziali USA, un rebus elettorale difficile da capire

(Presidenziali USA) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Politica e Geopolitica

Ascolta “Politica e Geopolitica. Puntata 1 – Presidenziali USA, un rebus elettorale difficile da capire” su Spreaker.

Sono iniziate in questo mese di gennaio le primarie per la scelta dei candidati per l’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America che fra poco meno di un anno si insedierà alla Casa Bianca.

SOMMARIO

Prima di cercare di dipanare la complessa matassa di come si svolgono le elezioni americane è doveroso precisare chi ha diritto al voto.

Contrariamente a quanto accade nella maggior parte degli stati democratici, Italia compresa, non è lo stato americano a inviare le tessere elettorali.

Sono invece i singoli cittadini che devono prendersi la briga di registrarsi nelle liste elettorali.

Pena l’impossibilità di votare a novembre per l’elezione del presidente degli USA.

Presidenziali USA. Democratici o Repubblicani?

Una delle caratteristiche peculiari del sistema politico americano è quello, di fatto, di essere diviso fra due soli partiti.

Il partito Democratico (che noi chiameremmo progressista) e quello Repubblicano (per noi conservatore).

Presidenziali USA

Diversamente da quanto accade in Italia i partiti americani non hanno un grande peso nella vita politica quotidiana.

Diventano però determinanti in vista delle elezioni presidenziali soprattutto per determinarne i candidati.

Presidenziali USA. Le primarie

Le primarie sono una caratteristica tipica del sistema elettorale americano.

Riguardano ciascuno dei due partiti e sono regolamentate in modo differente stato per stato.

Occorre ricordare che gli USA si compongono di 50 stati federati fra loro ma che mantengono ampie autonomie interne.

Compreso tutto ciò che riguarda il sistema elettorale.

Ogni stato designa suoi rapprentanti alle due convention nationali, quella democratica e quella repubblicana.

In ognuna delle due sedi i rappresentanti voteranno il candidato che dovrà gareggiare per la presidenza.

Sebbene la scelta non sia vincolante in modo assoluto è prassi che il candidato che vince nello stato sia quello che sarà votato dai rappresentanti di quello stato.

Il candidato democratico che otterrà più voti alla convention nazionale dei democratici sarà il candidato presidente per i democratici.

La stessa cosa avviene per i repubblicani che scelgono in modo analogo il loro candidato

Presidenziali USA. I Grandi Elettori

Pur essendo una democrazia presidenziale quella americana ha la peculiarità che il presidente non è scelto direttamente grazie al voto popolare.

Infatti gli elettori, stato per stato, votano per il candidato scelto.

Il candidato che ottiene il maggior numero dei voti ottiene il corrispettivo di Grandi Elettori spettanti a quello stato.

Almeno nella gran parte dei casi, salvo alcune piccole eccezioni.

Ma chi sono i Grandi Elettori?

In pratica è lo stesso principio delle primarie.

Ogni stato ha a disposizione un numero di Grandi Elettori proporzionale alla sua popolazione.

Se in uno stato vince il candidato democratico tutti i Grandi Elettori andranno al candidato democratico.

Inversamente se a vincere è il candidato repubblicano si prende tutti i Grandi Elettori di quello stato.

Presidenziali USA. Rosso o Blu?

Tradizionalmente i due partiti vengono identificati con un colore.

Rosso per i repubblicani, blu per i democratici.

Prima o poi a chiunque sarà capitato di vedere la mappa degli USA colorata di rosso e di blu, stato per stato.

Quella mappa indica la prevalenza di un partito o dell’altro in ogni singolo stato.

Dunque il vincitore della contesa elettore presidenziale non è detto che sia il candidato che ha ottenuto più voti ai seggi.

Infatti può capitare che un candidato ottenga meno voti popolari ma che sia eletto presidente degli USA.

Questo perché magari ha ottenuto la vittoria in alcuni stati molto popolosi che garantiscono un numero di Grandi Elettori maggiori.

E magari quelle vittorie a livello statale le ha ottenute per poche migliaia di voti.

Ma visto il sistema elettorale maggioritario assoluto chi vince si prende tutto.

Presidenziali USA. Solo per chi è nato cittadino americano

Per potersi candidare alla presidenza degli USA occorre aver compiuto 35 anni e risiedere negli Stati Uniti da almeno 14 anni.

Ma soprattutto occorre essere nati cittadini americani.

Chiunque non sia nato cittadino americano ma lo sia diventato in seguito è escluso dalla corsa alla presidenza.

Clamorosa fu l’accusa rivolta a Barak Obama di non essere nato cittadino americano.

Allora fu Donald Trump a fomentare i dubbi in proposito, dubbi che sono peraltro stati ampiamente fugati.

Sebbene molti sostenitori del partito conservatore ancora oggi dubitino che Obama fosse eleggibile.

D’altro canto proprio in giorni giorni lo stesso Donald Trump ha sollevato dubbi sulla cittadinanza americana dalla nascita di Nikki Haley, sua rivale alle primarie repubblicane.

Presidenziali USA. Elezioni che interessano il mondo intero

Va da sé che le elezioni in un paese importante come gli Stati Uniti d’America interessino un po’ tutto il mondo.

Varrebbe lo stesso per Russia e Cina se già non si conoscessero i vincitori a priori!

Quelle di quest’anno negli USA sono però elezioni particolarmente sentite.

Perché i due probabili contendenti dovrebbero essere, salvo soprese, Joe Biden e Donald Trump.

Se quattro anni fa Biden a sopresa battè il favorito Trump (allora presidente uscente) oggi i sondaggi sono a favore del repubblicano.

E vista la situazione politica internazionale con la crisi ucraina, quella di Gaza e la situazione a Taiwan le elezioni USA sono attese con trepidazione da molti.

La riconferma di Joe Biden alla Casa Bianca lascerebbe tutto più o meno com’è ora.

Mentre il ritorno di Donald Trump alla presidenza lascia aperti interrogativi ed incognite su cosa faranno gli USA in politica internazionale.

A partire dall’Ucraina che potrebbe anche essere “abbandonata” al suo destino.

Per non parlare della crisi di Gaza dove Trump non ha mai nascosto le sue simpatie per l’estrema destra israeliana.

C’è poi l’incognita Cina, contro la quale Trump ha sempre tuonato a parole ma con la quale ha intessuto rapporti finanziari anche personali piuttosto discutibili.

Presidenziali USA. Una lunga corsa, forse non priva di sorprese

Siamo solamente all’inizio di questa lunga corsa e solo dal mese di marzo, con il Super Tuesday, forse si potrà cominciare a capire qualcosa di più sulle forze in campo, su un fronte come sull’altro.

Ci sono poi le inchieste giudiziarie a pesare come macigni.

Donald Trump è già stato escluso dalla corsa elettorale in Colorado a seguito delle vicende del 6 gennaio 2021 (assalto a Capitol Hill).

Si attende il ricorso alla Corte Suprema e nel frattempo altri stati stanno decidendo in merito.

Vi sono poi processi per reati finanziari che vedono imputato l’ex presidente americano.

Il quale però dovrà temere più di tutto il processo proprio sull’assalto a Capitol Hill.

Se tale processo dovesse giungere a termine prima delle elezioni e lo vedesse condannato perderebbe il diritto a concorrere alla presidenza.

Non ci vuole un genio per prevedere cosa potrebbe accadere nelle piazze americane con una simile risultanza.

Sul fronte democratico Joe Biden rischia un impeachment (poco probabile) che potrebbe nuocergli sul piano elettorale.

Ma soprattutto sono i guai giudiziari del figlio ad avergli fatto perdere il favore di parte del suo stesso elettorato.

Per non parlare delle gaffe che spesso compie in pubblico e dell’età che non gioca a suo favore.

Quello dell’età è un problema anche di Donald Trump, così come delle gaffe e di certi spaesamenti che non lasciano ben sperare.

Pensare che il futuro del mondo e dell’arsenale atomico più agguerrito sia nelle mani di due “vecchietti” confusi non ci lascia tanto tranquilli.

E la democrazia a stelle e strisce non ne esce granché bene, comunque andrà a finire!

Foto di Larisa da Pixabay

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Happy Days. 50 anni fa la prima puntata della sit-com

(Happy Days) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Debuttava il 15 gennaio del 1974 una serie televisiva che avrebbe fatto epoca: Happy Days. Una sit-com ambientata a Milwaukee che vedeva protagonista la famiglia Cunningham.

SOMMARIO

Difficilmente qualcuno può dire di non aver mai visto, o almeno sentito parlare di Happy Days.

Non foss’altro per la sua iconica sigla che rimandava direttamente al rock’n’roll degli anni ’50.

O per almeno alcuni dei personaggi che hanno popolato la serie.

Uno su tutti Artur Fonzarelli, detto Fonzie.

Happy Days. Garry Marshall

La sit-com ambientata nella città di Milwaukee è stata ideata da Garry Marshall, uno che di successi ne ha accomulati tanti.

Come attore Marshall lo ricordiamo nella pellicol “Mai stata baciata”, “Corsa a Witch Mountain” e in molte altri film e serie tv.

Della sua ampia filmografia come registra giusto ricordare almeno “L’ospedale più pazzo del mondo”, “Pretty Woman”, “Se scappi, ti sposo”.

Ma anche “Pretty Princess”, “Principe azzurro cercasi”, “Appuntamento con l’amore” e “Capodanno a New York”.

Ma è come produttore che ha lasciato davvero un segno indelebile.

Oltre ad aver prodotto “Lavernie & Shirley” e “Mork & Mindy” deve il suo successo alla fortuna serie “Happy Day”.

Happy Day. La serie

La serie è andata in onda a partire dal 1974 debuttando il 15 gennaio ed è proseguita sino al 24 settembre del 1984.

Ne sono state realizzate 11 stagioni per un totale di 255 puntate della durata di circa 24 minuti ciascuna.

Negli Stati Uniti andò in onda sul canale ABC che ne era anche la casa di produzione.

In Italia è stato trasmesso solo a partire dal 1977 ed è andato in onda consecutivamente sino al 1987.

Happy Days

Precisamente Su Rai 1 le stagioni dalla 1 alla 9 e la stagione 11.

Mentre la stagione 10 è andata in onda sulla rete privata Canale 5 di Mediaset.

Si tratta di una classica sit-com americana, che vede protagonista una famiglia, i Cunningham.

Intorno ai membri di questa famiglia media americana si sviluppano le trame e interagiscono i vari personaggi.

Happy Days. Gli anni ’50

Il punto di forza principale della serie stava nell’ambientazione temporale.

Infatti la sit-com si svolge in una ipotetica Milwaukee degli anni ’50 (sul finire) e poi agli inizi degli anni ’60.

La si arguisce subito grazie all’iconica sigla con il disco che gira e la musica in sottofondo, riconoscibilissima.

Bastano pochi fotogrammi di ogni puntata per osservare i vestiti, le auto, le pettinature.

Tutto riporta a un ideale tempo magico del benessere economico americano.

Quel dopoguerra che si apriva al futuro, che portava i giovani ad uscire dal conformismo dei genitori a suon di rock’n’roll.

I protagonisti sono emblematici del loro tempo e ben idealizzati tanto da esserne diventati delle vere icone.

Happy Days. La famiglia Cunningham

Al centro di tutte le vicende ci sono le vicissitudini della famiglia Cunningham, esempio perfetto del ceto medio americano degli anni ’50.

Milkwakee è una tipica città americana, non piccola ma nemmeno una metropoli.

Dunque perfetta per ospitare la vita degli americani medi del boom economico.

La famiglia Cunningham è composta dal padre (Howard), dalla madre (Marion) e da tre figli (Charles, Richard e Joanie).

Howard Cunningham è il prototipo del padre americano, laborioso, severo ma non troppo, bonaccione, interpretato dall’attore Tom Bosley

Marion è la madre e la moglie ideale di quegli anni. Premurosa ma anche capace di guardare un po’ oltre rispetto al marito, interpretata dall’attrice Marion Ross.

Charles (Chuck) è il figlio maggiore. Si vede poco (stagione 1-2) perché poi parte per il college.

Joanie (Sottiletta) è la figlia più piccola, ancora adolescente all’inizio della serie, interpretata da Erin Moran.

Richard (Richie) è il vero protagonista della serie, insieme ai suoi amici costituisce il nucleo centrale delle storie. Richard è interpretato da Ron Howard

Happy Days. Gli amici

Oltre al ruolo centrale della famiglia Cunningham risultano essere molto importanti anche gli amici di Richie.

A partire da Potsie (Warren Weber, interpretato da Anson Williams), inizialmente il miglior amico di Richard.

Sveglio e disincantato fa da contraltare a Richie che risulta essere invece timido e impacciato.

Nell’evolversi delle serie Potsie viene sostituito man mano, nelle grazie di Richie, da Fonzie e così diventa il miglior amico di Ralph.

Ralph Malph inizialmente era solo una figura ricorrente, ma dalla seconda stagione finì con l’assumure un ruolo importante.

Era il clown della compagnia, scanzonato e un po’ sopra le righe, diventerà il miglior amico di Potsie.

Specialmente dopo che il ruolo di miglior amico di Richie, inizialmente proprio di Potsie, verrà soppiantato da Fonzie.

Happy Days. Fonzie

Inizialmente Artur Fonzarelli avrebbe dovuto essere una figura secondaria nella serie.

Una specie di bullo che si atteggia a James Dean, con tanto di giubbotto in pelle e moto cromata.

L’interpretazione di Henry Winkler diede modo al personaggio di ricavarsi uno spazio ben definito, tanto da esserne diventato uno dei veri protagonisti.

A partire dalla terza stagione Fonzie si trasferisce a vivere sopra il garage dei Cunningham e diventa, via via, il miglior amico di Richie Cunningham.

I due sono quanto di più diverso fra loro possa esistere, eppure nasce un’amicizia profonda e un rispetto reciproco.

Fonzie è un dongiovanni d’altri tempi. Le ragazze cadono ai suoi piedi.

Basta che schiocchi le dita e qualunque “bella” ragazza nei dintorni gli si presenta adorante.

Fonzie rappresenta un personaggio complesso, sicuramente con un’aurea negativa al principio, ma via via sempre più integrato con la società.

Il tutto grazie soprattutto all’amicizia con Richard Cunningham.

Il classico saluto alla “fonzarelli” con i due pollici alzati estendendo entrambe le braccia è diventato iconico anche al di là della serie.

Happy Days. Un cast memorabile

La fortuna della serie è dovuta a tanti fattori, non ultimi gli attori che compongono il cast.

Tom Bosley è perfetto nel ruolo del padre, ironico, scanzonato, premuroso, disincanto. L’americano medio perfetto.

Marion Ross è sublime nel ruolo della madre, sembra davvero la perfetta donna anni ’50.

Arson Wilson incarna benissimo il giovane americano di provincia di quegli anni.

Da notare che l’attore dopo un’onesta carriera come attore è diventato un’importante regista.

Erin Moran ha dato vita al pesonaggio femminile più azzeccato della serie, quello di Joanie “sottiletta” Cunningham.

Disincanta sorellina minore di Richie, la Joanie di Erin Moran è al tempo stesso la classica ragazzina acqua e sapone di quegli anni, non priva però di scaltrezza femminile.

Henry Winkler è arcinoto per il ruolo di Fonzie (Artur Fonzarelli) anche se da tempo ormai si dedica a realizzare libri illustrati per bambini.

Infine Ron Howard che interpretata Richie Cunningham, il fulcro fra tutti i personaggi protagonisti.

Definito l’enfant prodige di Hollywood Ron Howard ha collezionato una filmografia di tutto rispetto fra cinema e televisione come attore.

Ma è stato dietro la macchina da presa, come regista, che ha saputo diventare un vero e proprio gigante.

Era partito con un film il cui titolo dice già tutto: “Attenti a quella pazza Rolls Royce” del 1977.

In ordine cronologico ricordiamo anche “Splash. Una sirena a New York”, “Cocoon. L’energia dell’universo”, “Cuori ribelli”.

Saltando qua e là come dimenticare: “Apollo 13”, “Il Grinch”, “The Missing”, “Il Codice Da Vinci”, senza dimenticare “Rush”.

Happy Days. Spin-off

La serie è stata di così grande successo e i suoi personaggi, protagonisti e comprimari, così azzeccati che ha generato numerosi spin-off.

A partire da quello più famoso di tutti “Mork & Mindy” con un giovanissimo Robin Williams che interpreta l’alieno venuto da Ork.

Fu proprio durante un’episodio di Happy Days che debuttò l’alieno Mork interpretato da Robin Williams.

Un altro spin-off famoso fu Lavernie & Shirley, conosciute in alcuni episodi della sit-com in quanto “ragazze” di Richie e Fonzie.

Jenny e Cachi, ovvero la storia di Joanie “sottiletta” Cunningham e Cachi Arcola (cugino di Fonzie), prima fidanzati e poi marito e moglie nell’ultima stagione della sit-com originale.

Altri due spin-off furono “Le ragazze di Bransky” e “Out of the blue

Curioso sottolineare come lo stesso Happy Days fosse in realtà uno spin-off a sua volta della serie tv “Love, American Style”.

Nell’episodio 22 (ogni episodio era slegato dagli altri) c’è il pilot (puntata 0) di quello che sarebbe diventato happy Days.

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Diomede: poche bracciate di nuoto separano USA e Russia

(Diomede) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Ascolta “Il crogiuolo. Puntata 5 – Isole Diomede, U.S.A. e Russia a poche bracciate di nuoto” su Spreaker.

Solo 3,8 chilometri separano le due isole Diomede, ma oltre ad avere 21 ore di fuso orario appartengono anche a due “mondi” differenti.

SOMMARIO

Quando si pensa alla Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica il pensiero va subito al muro di Berlino.

Al ponte delle spie e alla Cortina di Ferra che divideva in due l’Europa, a Ovest con gli Usa, a est con l’URSS.

Pochi sanno che le due superpotenze si spiavano vicendevolmente da pochi chilometri di distanza.

Meno di quattro per l’esattezza, ma da tutt’altra parte del mondo rispetto all’Europa.

Diomede. Lo stretto di Bering

Fino al 1648 nessuno sapeva dell’esistenza di un braccio di mare che separava il continente nordamericano da quello asiatico.

Fu il comandante Semen Dežnëv che esplorò l’estremità orientale della Siberia per conto dello zar a scoprire per primo il braccio di mare.

Ma a quel punto nemmeno se ne rese conto e la scoperta non fu mai dichiarata come tale.

Almeno sino al 1728 quando il comandante Vitus Bering bordeggiò le coste della Kamckacta.

Per questo motivo più tardi a lui fu intitolato lo stretto che porta il suo nome.

Quello stretto braccio di mare (meno di 100 km) risultava spesso ghiacciato e per questo motivo non se ne conosceva l’esistenza.

Diomede. L’Alaska russa

Quello che oggi è lo stato più settentrionale degli USA fino al 1867 era in realtà territorio dell’Impero Russo.

Fu lo zar Alessandro II a vendere l’immenso territorio ghiacciato dell’Alaska agli Stati Uniti.

Quello che nell’Ottocento parve ai russi un affarone potrebbe essere stato l’affare più fallimentare della storia fra nazioni.

Diomede
Diomede Grande (a sinistra) e Diomede Piccola (a destra)

Infatti solo più tardi si sarebbe scoperto che quell’immenso territorio inospitale custodiva nel suo sottosuolo immense ricchezze.

Dall’oro al petrolio, ancora oggi il 49° Stato dell’Unione è uno dei più ricchi nonostante sia soltanto il 48° per numero di popolazione.

Davanti solo a Vermont e Wyoming oltre al District of Columbia.

Diomede. Le isole

Proprio nel mezzo dello stretto di Bering sono poste due piccole isole rocciose.

Una, chiamata Diomede Grande, ha una superficie di circa 29 km².

L’altra, invece, nominata Diomede Piccola, consta di soli 6 km².

Il loro nome non è un omaggio alla mitologia classica ma al martire omonimo di Tarso.

Ricorrenza che gli ortodossi festeggiano il 17 agosto.

E proprio in quella data il comandante Bering documentò l’esistenza delle isole che pertanto furono battezzate con il nome del martire.

Estremamente inospitali le due isole non offrono granché, vista anche la latitudine alla quale sono poste.

Esse sono infatti prossime al Circolo Polare Artico.

Diomede. Divise dalla Guerra Fredda

Quando nel 1867 lo zar Alessandro II vendette agli Stati Uniti d’America il territorio dell’Alaska fu deciso che le due isole fossero separate.

Così l’isola più occidentale, chiamata Diomede Grande, restò alla Russia.

Mentre l’isola più orientale, denominata Diomede Piccola, andò con l’Alaska continentale agli Stati Uniti.

In mezzo fra le isole uno stretto di mare largo circa 3,8 chilometri che le separa.

Quando dopo la seconda Guerra Mondiale scoppiò la cosidetta Guerra Fredda anche le due isole furono coinvolte.

Essendo ognuna delle due isole il territorio “nemico” più vicino per ciascuna nazione entrambe divennero un punto strategico.

Su ognuna delle due isole furono installate apparecchiature di sorveglianza e installazioni militari.

Per questo motivo i nativi Yoruk, che popolavano l’isola russa, furono costretti dal governo sovietico ad abbandonarla.

Essendo diventata l’isola un luogo esclusivamente militare.

Diomede. Così vicine, così lontane

Le due isole distano così poco che un’americana di nome Lynne Cox raggiunse l’altra isola dopo solo due ore di nuotata.

Ma per un certo verso sono anche così lontane giacché sono separate da ben ventuno ore di fuso orario.

Perché quella Grande (russa) è a ovest della Linea del Cambiamento di Data.

Mentre quella Piccola (americana) è a est della medesima linea immaginaria che stabilisce la nascita del nuovo giorno.

Infatti le isole, essendo situate a 169° Est, risultano essere le terre più a Oriente del Meridiano di Greenwich.

Anche se come abbiamo visto a separarle passa la linea immaginaria del cambiamento di data.

Così se quella Piccola è mezzogiorno di sabato su quella Grande saranno le nove del mattino di domenica.

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Guerra Ibrida (le parole per comprendere la guerra)

(Guerra Ibrida) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Politica e Geopolitica

Da quanto è scoppiata la guerra in Ucraina si sente sempre più parlare di Guerra Ibrida, ma cosa si intende con questo termine in verità?

SOMMARIO

La risposta al quesito iniziale è abbastanza semplice.

Ovvero un mix fra guerra convenzionale, guerra cybernetica, campagne di disinformazione, false flags e ogni altra possibile strategia volta a destabilizzare la parte avversaria, a catturare consensi internazionali e a screditare il nemico.

In particolar modo negli ultimi anni il termine di Guerra Ibrida viene molto utilizzato in relazione alla Russia che ne ha fatto una vera e propria dottrina militare.

Guerra Ibrida. Russia campione mondiale

Non è che gli altri stati non ne abbiano mai fatto uso, tutt’altro.

Ma la Federazione Russa ha ultimamente sviluppato vere e proprie tecniche avanzatissime per portare avanti la sua versione di Guerra Ibrida.

La qualeprevede sopratutto l’utilizzo massiccio di hacker informatici per destabilizzare il mondo occidentale.

Colpendolo nel suo punto più vitale e vulnerabile: la rete delle telecomunicazioni.

Da anni ormai assistiamo a rivendicazione da parte di hackers russi di riusciti o tentati attacchi ai sistemi informatici occidentali, ai sistemi di comunicazione, ai siti istituzionali.

Per quanto ne possiamo sapere noi gli effetti di questi attacchi sono sempre stati marginali, temporanei e non fatali.

Grazie anche alle cyber-difese messe in atto dai paesi occidentali.

Ma di sicuro anche solo la possibilità che possano andare a segno fa di questi potenziali attacchi una minaccia di cui occuparsi.

E dunque un elemento di disturbo per chi, come gli alleati dell’Ucraina, devono concentrarsi sulla fornitura di armi al paese aggredito.

Guerra Ibrida. Confondere l’opinione pubblica

Non solo, la Guerra Ibrida prevede anche la disinformazione dell’opinione pubblica, sia quella interna, sia quella internazionale.

E in questi i russi sono maestri avendo ereditato tale capacità dall’ex apparato sovietico.

Apparato che primeggiava nel fornire false narrazioni dei fatti reali, volgendo a proprio favore ogni situazione.

Anche quelle che palesemente porterebbero a un giudizio negativo nei loro confronti.

Basti pensare a come il presidente Putin abbia descritto l’invasione russa dell’Ucaina.

Non come una guerra ma come un’operazione speciale volta a preservare l’integrità russa dall’aggressione ucraina!

Guerra Ibrida. Diplomazia commerciale

Infine la Guerra Ibrida prevede anche l’utilizzo della diplomazia commerciale per avvantaggiarsi sugli avversari e penalizzare i nemici con accordi specifici con paesi terzi.

Ad esempio, per ovviare alle sanzioni internazionali o per impedire ai contendenti l’accesso a risorse importanti per l’economia o lo sviluppo tecnologico e/o militare.

Nel concreto si tratta di condizionare paesi terzi con accordi commerciali che in qualche modo li vincolano alle posizioni politiche della propria nazione.

Insomma, si tratta dell’allargamento del conflitto a tutti i campi della vita umana, spesso senza nemmeno che le persone coinvolte se ne rendano conto!

Guerra Ibrida
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Rhapsody in blue, 100 anni fa il capolavoro di Gershwin

(Rhapsody) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Il 7 gennaio del 1924 veniva completata la celebre “Rhapsody in blue”, una delle più famose composizioni musicali di George Gershwin.

SOMMARIO

George Gershwin pensò di realizzare un brano che fosse profondamente americano.

Per questo inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi “American Rhapsody” salvo poi optare per il nome che l’ha resa celebre.

Un connubio perfetto fra jazz e musica colta, il brano è senza dubbio uno dei capolavori del compositore nato a Brooklyn.

Rhapsody. George Gershwin

Gerswuin nacque il 26 settembre del 1898 a Brooklyn, cittadina autonoma che soltanto pochi mesi prima era diventata uno dei quartieri di New York.

I genitori erano ebrei di origini ucraine e lituane immigrati negli Stati Uniti.

Il padre originariamente si chiamava Moishe Gershowitz ma poi cambiò nome in Morris Gershwin.

Il figlio da Jacob Bruskin Gershowitz divenne George Jacob Gershwin, passato alla storia come George Gershwin.

Nonostante la precoce passione per il pianoforte il piccolo George non studiò mai seriamente lo strumento.

Prese lezioni di pianoforte solo per un paio d’anni in modo del tutto dilettantistico.

Per il resto imparò tutto in modo autodidatta, soprattutto ascoltando i concerti e cercando di riprodurne le sonorità.

Rhapsody. Paul Whiteman

Fin dal 1917 Gershwin aveva cominciato a scrivere canzoni, alcune anche con un discreto successo.

Il tutto nonostante non avesse una preparazione accademica né alcun titolo di studio musicale.

Nel 1919 con la canzone “Swanee” ottenne il suo primo successo a livello nazionale restando per 18 settimane in vetta alle classifiche di vendita.

Rhapsody

Lo spartito del brano fu stampato con una tiratura record di oltre un milione di copie.

Fu negli anni successivi che Gershwin ebbe modo di conoscere il re del jazz sinfonico Paul Whiteman.

Quest’ultimo gli chiese di scrivergli qualcosa adatto alla sua orchestra, ovvero in stile jazz sinfonico.

Fu da quell’incontro che nacque l’idea di Rhapsody in Blue.

Rhapsody. Il brano

La leggende vuole che il brano sia stato concepito durante un viaggio in treno mentre il compositore era diretto a Boston.


Gershiwn si stava recando alla prima di una sua commedia musicale e pare che lo sferragliare del treno lo abbia ispirato per la rapsodia.

Vera o meno che sia questa ricostruzione sta di fatto che George Gershwin compose il brano in pochissimo tempo visto che doveva consegnarlo a breve.

Pare addirittura che non fosse nemmeno del tutto convinto della bontà del suo lavoro prima di darlo in mano all’orchestra.

Benché il direttore, dopo averlo fatto suonare, si disse sorpreso del fatto che il compositore volesse metterci ancora mano.

Pare infatti che questi abbia esclamato, stupito, come pensava Gershwindi poterla migliorare ancora visto quanto già fosse perfetta.

Rhapsody. Note musicali

Rapsodia in blu è un brano musicale per pianoforte e orchestra anche se inizialmente Gershwin l’aveva pensata per due pianoforti.

Si tratta di un brano che combina mirabilmente musica jazz e musica colta, caratteristica tipica del compositore di Brooklyn.

La composizione della rapsodia combina cinque differenti stili e fu suonata per la prima volta il 12 febbraio 1924 all’Aeolian Hall di New York.

Il brano comincia con un trillo e una lunga scala cromatica ascendente che vede protagonista il clarinetto.

Entra in scena poi il pianoforte e di seguito l’intera orchestra con fraseggi di pianoforte (solista o accompagnato dall’orchestra).

Si giunge quindi al tema maestro dell’orchestra per giungere poi a spegnersi dando spazio al pianoforte solo.

Di nuovo spazio all’orchestra con un Andantino moderato, ripreso successivamente dal pianoforte.

Per giungere poi al ritmo sincopato, incalzante che prelude al finale Grandioso che ripropone il tema principale.

Rhapsody. Al cinema

Come molti brani di successo di quegli anni anche Rhapsody in blue venne preso a prestito dal cinema.

Memorabile l’utilizzo nel film Disney Fantasia 2000 dove fa da colonna sonora a uno degli episodi.

Woody Allen ha voluto la rapdosia come colonna sonora del suo film Manhattan.

La si può ascoltare anche in un episodio di Glee e dei Simpson.

Persino Leonardo di Caprio l’ha voluta per il suo film Il grande Gatsby.

In Italia il brano è stato campionato da Paolo Villaggio che lo ha utilizzato per i suoi film di Fantozzi.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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Jekyll e Hyde, da 138 anni protagonisti assoluti

(Jekyll) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Il 5 gennaio del 1886 veniva pubblicato uno dei romanzi più famosi di Robert Louis Stevenson dal titolo “Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde”.

SOMMARIO

Robert Louis Stevenson è stato forse il più famoso scrittore scozzese dell’Ottocento e uno fra i romanzieri più letti di tutti i tempi.

Numerosi i suoi scritti, ma uno su tutti spicca in modo particolare.

Anche chi non lo ha letto lo conosce per vie traverse, soprattutto per le trasposizioni cinematografiche.

Jekyll. Non solo “L’isola del tesoro”

Nato nel 1850 a Edimburgo e morto prematuramente nel 1894 Robert Louis Stevenson è a giusta ragione considerato un gigante della letteratura.

Conosciuto troppo spesso come autore per ragazzi grazie al suo capolavoro “L’isola del tesoro”, ha in realtà pubblicato molto altro.

Citando quasi a memoria: La freccia nera, Il master di Ballantrae, Il club dei suicidi, Il trafugatore di salme, Il diavolo in bottiglia

L’elenco sarebbe lunghissimo, ma non è necessario indugiare oltre.

Jekyll

Jekyll. La genesi del testo

L’idea di scrivere “Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” venne allo Stevenson una notte in sogno e nel giro di tre giorni mise nero su bianco tutto il testo.

Come era sua abitudine sottopose il manoscritto alla moglie, Fanny Ousborne, la quale gli consigliò di riscriverlo.

Da semplice thriller la moglie pensava valesse la pensa di dargli anche una valenza allegorica.

L’autore non fu per nulla contento dei rilievi proposti dalla sua consorte e bruciò l’intero manoscritto.

Lo riscrisse però in tre giorni, questa volta seguendo i consigli di Fanny.

Il testo venne pubblicato ufficialmente in volume il 5 gennaio del 1886 riscuotendo un incredibile successo.

Nel solo Regno Unito riuscì a vendere all’incirca 40.000 copie.
Ma fu solo l’inizio, perché ancora oggi è uno dei testi più letti e conosciuti della letteratura mondiale.

Jekyll. La trama e non solo

Niente paura, nessuno spoiler sulla trama, ci mancherebbe altro!

Alcune riflessioni sulla storia però è doveroso farle.

Dottor Jekyll e Mr. Hyde rappresentano in modo emblematico la dualità della personalità umana.

E come aveva ben intuito la moglie dello Stevenson il racconto valevo molto di più del semplice thriller.

Ecco allora spiegato perché a distanza di così tanto tempo la storia regge ancora ed è assolutamente gobidile anche oggigiorno.

La forza del racconto sta nello scavo profondo della psiche umana, in quell’abisso che si nasconde in fondo a ognuno di noi.

Nella storia è una pozione a svelare l’altra faccia del dottor Jekyll.

Ma spesso il Mr. Hyde che si nascondo dentro ognuno di noi non ha bisogno di intrugli per emergere e mostrarsi.

Oppure no?

Perché una delle domande che ci si pone dopo la lettura di questa storia è se sia inevitabile soccombore all’altra parte.

A quell’io malvagio e incontrollabile che l’autore sembra volerci dire essere in ognuno di noi.

Oppure se si tratta di scelte, magari celate da buoni propositi, a condurre definitivamente l’essere umano sulla via della perdizione.

A ogni lettore la risposta che più gli aggrada.

Jekyll. Un successo anche cinematografico

Come per il romanzo “L’isola del tesoro” (del 1883) anche “Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde” ebbe un grande successo letterario.

E grande fortuna ebbe anche dopo la morte prematura del suo autore.

Già nel 1908 (a soli 22 anni dalla pubblicazioni e a 14 dalla morte dell’autore) Otis Turner realizzò un cortometraggio muto del libro.

Dal 1908 al 1925 vennero girate almeno una dozzina di film muti sempre ispirati al testo di Robert Luois Stevenson.

Compresa una parodia con potragonista Stan Laurel (lo Stanlio di Stanlio e Ollio).

Dal 1931 al 2002 sono state girate una quindicina di pellicole che in vario modo si rifanno alla storia del dottor Jekyll e di Mr. Hyde.

Senza contare che si possono contare almeno altri otto adattamenti televisivi della storia.

Altrettanto sono le parodie, compresa “Le folli notti del dottor Jerryll” interpretato e diretto dal famoso attore comico Jerry Lewis.

Foto di fszalai da Pixabay

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RAI, il 3 gennaio 1954 il debutto delle trasmissioni

(RAI) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Il 3 gennaio del 1954 debuttava ufficialmente la messa in onda della Radiotelevisione Italiana.

SOMMARIO

Le prime trasmissioni televisive erano iniziate il 10 settembre 1952 in forma sperimentale ma soltanto il 3 gennaio 1954 la la tv pubblica iniziò a trasmettere in modo organico

RAI. Il debutto sperimentale

Il 10 settembre 1952 la Radiotelevisione Italiana iniziava le prime trasmissioni sperimentali per trasmettere un canale televisivo.

L’ente nazionale delle televisione nasceva prima come Ente Radiofonico Italiano nel 1924.

RAI

Nel 1927 cambia nome in EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche).

Successivamente divenne Radio Audizioni Italiane nel 1944.

Infine con l’inizio delle trasmissioni televisive nel 1954 assunse la denominazione con la quale tutti quanti la conosciamo.

RAI. Il debutto ufficiale

Dopo quasi due anni di trasmissioni sperimentali, quasi quotidiane a dire il vero, il 3 gennaio 1954 iniziarono ufficialmente le trasmissioni ufficiali.

Fu l’annunciatrice Fulvia Colombo che quel mattino d’inverno diede il via ufficiale alle tramissioni.

La Rai – Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di tramissioni televisive.

Questo quanto disse Fulvia Colombo alle ore 11 del 3 gennaio del 1954.

Il primo programma ad andare in onda fu Arrivi e partenze, un rotocalco di costume della durata di circa 15 minuti.

A condurlo insieme ad Armando Pizzo c’era Mike Bongiorno, proprio il Mike nazionale che non si era ancora specializzato nei quiz.

Da notare che alla regia del programma c’era un giovane Antonello Falqui.

Colui che poi sarebbe diventato famoso per la regia di innumerevoli Canzonissima e Studio Uno.

RAI. Il debutto della Domenica Sportiva

Sempre il 3 gennaio 1954, ma alla andò in onda anche il primo programma sportivo.

Si trattava della Domenica Sportiva che è dunque da considerarsi il programma più longevo e tutt’ora in palinsesto.

Il programma serale dedicato all’approfondimento sportivo della RAI debuttò in realtà qualche mese prima.

Fu infatti durante le trasmissioni sperimentali che l’11 ottobre del 1953 debuttò la Domenica Sportiva.

In quell’occasione andarono in onda le immagini di Inter-Fiorentina del campionato di Calcio di Serie A.

Oltre alle riprese della gara ciclistica della Tre Valli Varesine e del Campionato Italiano di marcia (50 km).

Foto di Christian Dorn da Pixabay

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Capodanno, perché si festeggia il 1 gennaio?

(Capodanno) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura

Il 1 gennaio nel mondo occidentale, e non solo ormai, è ufficialmente l’inizio del nuovo anno. Ma da quando è così? e chi lo ha stabilito?

SOMMARIO

Il 1 gennaio è sicuramente una delle feste più diffuse e condivise del pianeta.

Iniziare un nuovo anno è certamente un momento simbolicamente importante.

E meritevole di festeggiamenti.

Ma chi ha deciso che il capodanno dovesse essere proprio il 1 gennaio?

Capodanno. Il Calendario Giuliano

Secondo la tradizione fu Giulio Cesare che nel 46 a.C. riformò il calendario dando vita a quello che sarebbe stato conosciuto come Calendario Giuliano.

Fu proprio in quell’occasione che il dittatore Cesare volle far coincidere l’inizio dell’anno con l’entrata in carica dei consoli.

Infatti occorre ricordare che i consoli romani entravano in carica il 1 gennaio.

L’anno però iniziava il 1 marzo.

Giulio Cesare decise dunque di far coincidere l’entrata in carica dei consoli con il primo giorno dell’anno.

Capodanno

Capodanno. Il mese di Giano

Il nome romano del mese di gennaio deriva dal dio Giano, la divinità bifronte.

Secondo alcuni studiosi è proprio grazie al dio Giano che il 1 gennaio è stato scelto come primo giorno dell’anno.

Giano, essendo bifronte, guarda sia avanti che indietro.

Si rivolge dunque al passato come al futuro.

Quale miglior modo per iniziare l’anno se non con il primo giorno del mese dedicato a Giano dunque?

Capodanno. Il caos medievale

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente non vi fu solo l’imbarbarimento dei costumi.

Ne fecero le spese anche le infrastrutture, le città e le strade.

I collegamenti divennero più ardui e la nascita dei comuni portò a volersi distinguere gli uni dagli altri.

Anche nel modo di conteggiare i giorni e dunque persino nello stabilire il primo giorno dell’anno.

A Venezia si riprese l’antica usanza della Roma Repubblicana facendo iniziare l’anno il 1 marzo.

A Pisa e Firenze l’anno iniziava il 25 marzo (ipotetica data del concepimento di Gesù Cristo).

Nell’Impero Romano d’Oriente (e poi anche in Russia e in altre luoghi d’Europa) l’anno iniziava il 1 settembre.

In Francia si usava la data della Pasqua come inizio d’anno.

A tal proposito bisogna tener presente che la ricorrenza pasquale non cade ogni anno nello stesso giorno.

Pertanto la lunghezza degli anni francesi era molto variabile a seconda di come “cadeva” la Pasqua di volta in volta.

Vi era poi chi faceva iniziare l’anno il 25 dicembre, ovvero nel giorno di Natale.

Capodanno. Il Calendario Gregoriano mette tutti d’accordo

Come si è visto durante il medioevo a anche successivamente l’anno iniziava in tempi diversi a secondo dei luoghi.

Questo comportava notevoli problemi man mano che i commerci si intensificavano e le varie nazioni o città interagivano sempre più frequentemente.

La data spartiacque per un riordino generale in merito al Capodanno fu il 1582 con l’adozione del Calendario Gregoriano.

Avendo riallinetato il calendario umano con la posizione astronomica della terra si passò dal 4 al 15 ottobre 1582.

Nel contempo fu stabilito che l’anno sarebbe iniziato il 1 gennaio per tutta la cristianità (almeno quella cattolica).

Progressivamente quasi tutti i paesi si adattarono e di fatto il 1 gennaio è diventato universalmente il primo giorno dell’anno.

Foto di Flash Alexander da Pixabay

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