Marie Laveau, la Regina del Voodoo di New Orleans
(Marie Laveau) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie, Fatti e società, Pagine Svelate.
Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 5 – Marie Laveau, la Regina del Woodoo di New Orleans” su Spreaker.New Orleans è considerata uno dei luoghi più affascinanti del mondo, epicentro di magia e mistero. La sua storia come la sua cultura e il suo folklore sono unici e a impreziosirli ci sono personaggi di notevole rilevanza documentata, come la protagonista di cui sto per raccontarvi: Madame Marie Laveau, la Regina del Voodoo.
SOMMARIO
- Marie Laveau. La Religione Voodoo
- Marie Laveau. I tre elementi principali del Voodoo
- Marie Laveau. La storia
- Marie Laveau. La Regina di New Orleans
- Marie Laveau. La morte
Nel corso del tempo la Voodoo Queen è diventata l’emblema di avvenimenti pervasi di sortilegi e arcani segreti che continuano a stregare e sedurre.
Ambasciatrice di una religione che da sempre ammalia e intimorisce.
Una donna tanto atipica per i suoi tempi quanto – sotto molti aspetti – pioniera dei nostri, che della Religione Voodoo resta ancora oggi una delle sue più grandi divulgatrici.
Marie Laveau. La Religione Voodoo
Il Voodoo (o Voudu, Vudù) è una delle religioni più antiche al mondo.
La parola Voodoo deriva da “Vodu”, termine africano che significa “Spirito” o “Divinità”.
Siamo abituati ad associare a questo culto immagini tetre e ambigue, ma il Voodoo è a tutti gli effetti una Religione con i propri liturgie, divinità e riti.
Nasce in Africa e viene diffusa in America con l’arrivo degli schiavi, prendendo piede soprattutto nel Sud.
Ha caratteri esoterici e sincretici.
Per culti sincretici s’intendono tutte quelle confessioni tradizionali che con l’arrivo del colonialismo, entrano in contatto con il cristianesimo, unendo e mescolando elementi tradizionali con i riti cristiani.
Il Voodoo è un culto che si basa sulla venerazione della natura e dei propri antenati.
Vi è una profonda convinzione che il mondo dei vivi coesista con quello dei morti, in un connubio perfetto per il quale fanno da tramite i “Loa” – Spiriti guida che agevolano la convivenza.
Le cerimonie Voodoo sono riti intrisi di gesti e ricordi primitivi, mentre l’idea del peccato è molto semplice.
Chi pratica questo credo dovrebbe sempre compiere buone azioni, qualora non se ne compissero si verrà puniti.
Il Voodoo nato e praticato in Africa “sfuma” e si differenzia da quello che viene professato in America.
È meno contaminato dalla cultura colonialista per cui è stato boicottato e tacciato come un credo volto solo alla stregoneria e alla magia nera.
Ma non è così, infatti il Voodoo ha divinità solari e pacifiche da adorare, che prendono il nome di Loa Rada.
Mentre il Voodoo maggiormente conosciuto è quello nato dalla sofferenza che accomuna e si manifesta nella corrente americana, influenzata dal dolore degli schiavi neri deportati negli Stati Uniti.
La disperazione causata dalle deportazioni e dalla schiavitù generò il culto oscuro, le cui divinità prendono il nome di Loa Petro e sono vendicativi, dispotici e furiosi.
Marie Laveau. I tre elementi principali del Voodoo
Il Sacrificio: è la base di ogni rito e pratica.
Ogni sacrificio è volto a dare energia utile al Loa prescelto, per arrivare a manifestarsi sulla terra.
Nella maggior parte dei casi, il sacrificio si compie con carne animale, ma sono bene accetti anche elementi come tabacco e caffè.
I Veve: sono i simboli attraverso i quali si contattano i Loa.
La Possessione: avviene da parte del Loa verso il Sacerdote (o Sacerdotessa) che l’ha invocato.
A seconda delle esigenze e richieste si deve invocare il Loa specifico.
Quelli più comunemente conosciuti sono:
Papa Legba: Custode dei due mondi.
È una divinità che viene dal culto Rada (quindi solare) e spesso viene raffigurato come un vecchietto con cilindro per cappello e un bastone.
È colui che “apre la porta” e permette ai vivi di parlare con le divinità.
È patrono della stregoneria.
Baron Samedi: Signore della Morte. Re dell’aldilà e della vita oltre la vita.
A lui, prima o poi tutti si prostreranno.
È il Signore della magia nera e il mito degli zombie è legato al suo nome.
È in assoluto il Loa più temuto e rispettato.
Maman Brigitte: La Regina del Cimitero. Moglie di Baron Samedi, è l’unica Loa di carnagione chiara.
È un Loa potente e la tradizione narra che ami cantare e ballare nei cimiteri, dove protegge solo determinati sepolcri contraddistinti da croci particolari.
Met Kalfou: la traduzione del suo nome in Creolo è Signore dei Crocicchi.
Questo Loa è la parte oscura di Papa Legba. Entrambi sono l’uno complementare all’altro.
È lui il vero padrone della magia e governa tutti gli spiriti della notte e le anime perse.
Se Papa Legba è luce, lui è tenebra.
Se Met Kalfou è guerra, Papa Legba è pace.
Se Papa Legba è un anziano arzillo, Met Kalfou è un giovane sfacciato e affascinante.
Erzulie: Signora dell’amore, del fascino e della sensualità.
Protegge i sogni e le speranze di ognuno, ha tre mariti ma conserva la sua verginità in quanto il suo amore trascende la fisicità.
La lista dei Loa è in continua evoluzione e cambiamento.
A parte le principali Divinità – alcune appena citate- anche le anime degli uomini e delle donne meritevoli, possono essere elevati a divenire Loa.
Madame Marie Laveau, Regina del Voodoo è una di loro.
Marie Laveau. La storia
Madame Laveau è stata una maga, religiosa e praticante del Voodoo della Louisiana.
Nata a New Orleans probabilmente il 10 Settembre 1784 – anche se alcune fonti, dichiarano che fosse il 1801 – da una fugace relazione tra il ricco proprietario terriero Charles Laveau e Margherite H. D’Arcantel, una schiava liberata.
Le informazioni più concrete sulla vita di Madame Marie non sono molte e non tutte troppo attendibili, ma di sicuro si sa che la giovane è la prima persona della sua famiglia a nascere libera.
Vive con i suoi parenti nel Vieux Carrè – il quartiere francese – una delle zone più antiche della città.
Ha un carattere forte, risoluto e volitivo.
Sguardo incisivo, occhi d’ebano, pelle ambrata e lunghi capelli neri e ricci a incorniciarle il volto.
Capelli che crescendo amerà raccogliere in eccentrici e colorati ritagli di stoffa, trasformando queste acconciature in un vero e proprio segno di riconoscimento.
Grazie al supporto del padre riesce a imparare a leggere e scrivere.
Viene Battezzata con Rito Cristiano, ma sin da bambina la madre la indottrina alla pratica dei riti Voodoo, che Marie professerà per tutta la vita.
Si sposa giovanissima, appena diciottenne, convola a nozze con un uomo creolo haitiano di nome Jacques Paris.
Dal 1824 dell’uomo si perdono le tracce, pur non essendoci nessun certificato di morte a confermare la sua fine, Jacques sembra essere letteralmente svanito nel nulla.
Marie inizia a farsi chiamare Vedova Paris.
Della loro relazione resta solo il certificato di matrimonio, conservato nella Cattedrale di San Luigi.
Marie e Jacques hanno avuto due figlie, anch’esse scomparse inspiegabilmente.
Dopo la misteriosa fine del suo primo matrimonio, inizia una lunga relazione con Louis Cristophe Dumesnil de Gliapon uomo statunitense di origini francesi che commercia terre e schiavi.
I due staranno insieme per tutta la vita, ma non potranno mai sposarsi a causa delle dure leggi contro la mescolanza razziale.
Leggi introdotte nel XVII secolo nell’America Settentrionale e rimaste in vigore in molti Stati sino al 1967.
Imponevano attraverso una serie di atti legislativi la segregazione razziale e l’impossibilità di unirsi in matrimonio, come ad avere rapporti sessuali, tra persone appartenenti a razze diverse.
Si narra che Marie e Louis Cristophe insieme hanno quindici figli.
Solo due di loro, Marie Eloise Eucharistie e Marie Philomène raggiungeranno l’età adulta e avranno un ruolo nell’eredità religiosa post mortem della Regina del Voodoo.
Anche la scomparsa di Louis Cristophe, come quella del primo compagno di Marie, è avviluppata nel più totale mistero.
Madame Laveau è una donna che non si dedica solo alla famiglia e alle pratiche del Voodoo, ma è anche un’imprenditrice.
Avvia un’attività di parrucchiera a New Orleans che, sin da subito, riscuote particolare consenso.
Tra le sue clienti non mancano le donne benestanti e più influenti della città che, si sussurra, non richiedano solo acconciature o trattamenti di bellezza, ma anche servizi extra come: pozioni e incantesimi.
Marie accetta le richieste sia dalle persone meno abbienti che dagli esponenti più in voga di New Orleans.
Leggenda vuole che nel retrobottega della sua attività offrisse tali servigi, concretizzando la sua figura di Sacerdotessa Voodoo.
Il deposito adibito a tali pratiche è anche il luogo dove custodisce le sue formule e i suoi ingredienti utili per creare gli amuleti e le pozioni, come: erbe, pietre, capelli e ossa.
Svolge i suoi riti Voodoo non solo nel retrobottega, ma anche in altri tre ambienti distinti e specifici:
- La sua casa a St. Anne Street, dove officia cerimonie e riceve i clienti.
- Sulle rive del Lago Pontchartrain – a Bayou St. John– dove si svolgono le cerimonie d’iniziazione ai nuovi adepti del Voodoo. Eventi importanti e affollati nei quali Madame Marie viene sempre affiancata da un Re Voodoo.
- Congo Square, una piazza pubblica divenuta nel tempo ritrovo domenicale per schiavi ed ex schiavi, dove Marie Laveau incontra la sua gente per pregare.
In ogni occasione, Madame Marie manifesta il suo carisma e le sue capacità tanto che le voci inerenti alla sua magia definiscono i suoi sortilegi talmente potenti, da riuscire ad arrivare a colpire non solo il malcapitato, ma anche le sue future generazioni!
Ad accompagnarla nei suoi riti c’è sempre l’amato serpente Zombie (in onore di una divinità Voodoo Africana).
La storia sussurra che a darle le giuste competenze e ad accrescere le sue capacità nella magia nera sia stato un ex schiavo, personaggio inquietante ed enigmatico passato alla storia con l’appellativo di Dottor John o “Re Voodoo” di New Orleans.
Marie Laveau. La Regina di New Orleans
Marie Laveau è una donna capace di divenire punto di riferimento di un’intera comunità, formata in maggior numero da creoli ed ex schiavi.
In lei vedono forza e capacità di aiutare il prossimo bisognoso, non tirandosi mai indietro.
Indubbio il suo fascino e la sua empatia soprattutto nei confronti degli ultimi, di cui ne diventa la paladina.
È rispettata e temuta in egual misura da tutta la comunità cittadina e lei sfrutta questa sua posizione anche per aiutare i più disagiati.
Riuscendo a tessere una rete concreta di supporto e aiuto per schiavi, ex schiavi e condannati a morte.
Madame Laveau è una Sacerdotessa fiera e preparata, che nasconde un animo nobile e volenteroso.
In molti però la paventano e cercano di ucciderla.
Si vocifera che persino il suo secondo compagno tentò di assassinarla, ma Marie riuscì a sventare l’attentato, lanciando una terribile maledizione:
[…] Durante la notte decine di persone affermarono di aver visto in strada un “branco di ombre mostruose” penetrare negli alloggi dove erano ospitate le guardie e la mattina seguente i 15 uomini furono trovati massacrati e con il collo spezzato; […] l’unica giustificazione che riuscirono a fornire le autorità della Louisiana fu che un orso fosse entrato nella stanza chiusa a chiave, al secondo piano e li avesse uccisi. Gli abitanti di New Orleans non ebbero dubbi: era opera della magia nera di Madame Laveau.
Marie Laveau. La morte
Come molti aspetti e periodi della sua vita, anche la morte di Madame Marie è avvolta nell’oscurità.
Alcune fonti ci dicono che sia morta nel 1835, a soli 41 anni.
Tesi mai del tutto accertata per la mancanza di documenti che ne attestino la veridicità.
Mentre secondo altri il trapasso delle Regina del Voodoo è databile il 15 Giugno 1881.
Fatto comprovato da un certificato di morte che attestava il decesso di Madame Marie Glapion Laveau alla veneranda età di 86 anni.
Ma anche dall’obituario pubblicato il giorno seguente sul quotidiano The New Orleans Daily Picayune che recitava queste parole: “donna di grande bellezza, intelletto e carisma, che era anche devota, caritatevole e un’abile guaritrice con le erbe”.
In molti dichiararono di aver incontrato Madame Laveau nei giorni successivi alla sua (presunta) morte, alimentando il suo mito e il suo mistero.
Certo è che ancora oggi la sua tomba – che si presume possa essere quella sita nel più antico cimitero cattolico di New Orleans – al Saint Louis Cemetery numero 1, attiri migliaia di visitatori da tutto il mondo.
Anime inquiete che rendono omaggio al suo mito, lasciando segni concreti del loro passaggio come le tre X sulle pareti della Cappella, sperando che la Regina del Voodoo ascolti ed esaudisca le loro richieste.
Purtroppo non possiamo negare che la storia spesso releghi ai confini donne di questa caratura.
Madame Laveau, forse, ne è l’esempio più concreto.
Nata donna in un’epoca in cui la società, le influenze religiose e di costume non permettevano alle ragazze di poter immaginare un futuro diverso da quello già scritto, ghettizzandole tra obblighi e doveri.
Lei è un grido di libertà e di forza che neppure la storia è riuscito ad azzittire.
Permettendo all’eco che mescola e richiama ai canti di un culto atavico e immortale come quello di cui la Laveau fu fiera Sacerdotessa, di continuare a vibrare insieme al suo nome.
Fonti:
- Site.Unibo: “L’anima mistica di New Orleans: Marie Laveau la Regina del Voodoo”
- Satanisti la nostra verità: “Voodoo, storia e origine”
- National Geographic: “Marie Laveau, la Regina Vudù di New Orleans”
- Vanilla Magazine: “Marie Laveau, la vera storia della Regina del Voodoo di New Orleans”
- Britannica: “Marie Laveau, Regina Vodou Americana”
30 dicembre 2011, il giorno che non è mai esistito
(30 dicembre 2011) Articolo scritto da E.T.A. Egeskov per Pillole di Cultura
Il 30 dicembre 2011 non è mai esistito nelle isole Samoa e Tokelau a causa del passaggio a ovest dei due stati rispetto alla linea del cambiamento di data.
SOMMARIO
- 30 dicembre 2011. Il precedente del Calendario Gregoriano
- 30 dicembre 2011. Il caso svedese
- 30 dicembre 2011. Samoa e Tokelau
- 30 dicembre 2011. La linea del cambiamento di data
- 30 dicembre 2011. Il giorno che non c’è mai stato
Quello delle isole Samoa e Tokelau non è stato il primo caso nella storia di giorni cancellati dal calendario.
Ma le motivazioni che hanno spinto i due arcipelaghi a questa scelta sono assai differenti a quelle del passato.
30 dicembre 2011. Il precedente del Calendario Gregoriano
Non capita spesso che dal calendario venga cancellato un giorno che di fatto risulta non essere mai esistito.
Il caso più clamoroso della storia riguarda l’adozione del Calendario Gregoriano nel 1582 che andò a sostituire il Calendario Giuliano.
Ci si era infatti accorti che c’era uno sfasamento di una decina di giorni fra il Calendario Giuliano e l’effettiva posizione astronomica della Terra.
Si decise quindi che dopo il 4 ottobre del 1582 anziché il 5 ottobre (giovedì) sarebbe seguito il 15 ottobre (venerdì).
Furono dunque cancellati tutti i giorni fra il 5 e il 14 ottobre del 1582 che di fatto non furono mai vissuti.
30 dicembre 2011. Il caso svedese
In Svezia le cose andarono un po’ diversamente e non senza qualche complicazione.
Come in molti paesi di fede protestante anche nell’Impero Svedese si fece resistenza all’adozione del Calendario Gregoriano.
La motivazione era semplice quanto ridicola ai giorni nostri: era considerato un calendario papista.
Sia come sia nel 1699 anche la Svezia decise di adottare il Calendario Gregoriano ma volle farlo a modo suo.
Anziché saltare tutti i giorni in fila come nel 1582 decisero di togliere tutti gli anni bisestili dal 1700 al 1740.
In pratica togliendo il 29 febbraio degli anni bisestili in quarant’anni il calendario svedese di sarebbe allineato a quello gregoriano.
Peccato che già nel 1704, anche a causa della guerra, gli svedesi si dimenticarono del loro proposito e l’anno fu bisestile.
Così come pure il 1708, con buona pace dell’allienamento al Calendario Gregoriano.
A quel punto gli svedesi decisero di ritornare al Calendario Giuliano, al quale però mancava un giorno.
Infatti il 29 febbraio del 1700 non era mai esistito.
Allora decisero che nel 1712 febbraio avrebbe avuto due giorni bisestili e infatti quell’anno febbraio ebbe anche il giorno 30.
Nel 1753 però cambiarono ancora idea e si allinearono al Calendario Gregoriano passando dal 18 al 28 febbraio.
30 dicembre 2011. Samoa e Tokelau
Le isole Samoa sono uno stato indipendente in mezzo all’Oceano Pacifico posizionate grosso modo a nord-ovest della Nuova Zelanda.
Sono famose per la bellezza dei luoghi e per le squadre di rugby che è considerato lo sport nazionale.
Le isole Tokelau sono un territorio dipendente della Nuova Zelanda dalla quale distano circa 1500 chilometri in linea d’aria.
Sono poste a nord delle isole Samoa e sono costituite da tre atolli abitati da meno di duemila persone.
Cosa hanno in comune questi due piccoli arcipelaghi oltre ad essere nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico?
La risposta è semplice, sono proprio sulla linea del cambiamento di data.
30 dicembre 2011. La linea del cambiamento di data
Sappiamo che la Terra è stata artificialmente suddivisa in 24 fasce orarie detti anche fusi orari.
Per convenzione internazionale è stato stabilito che il fuso orario dove inizia il giorno (ovvero dopo scattata la mezzanotte si cambia la data) doveva trovarsi nel posto meno abitato del pianeta.
Dunque logica la scelta di mettere questa linea immaginaria in mezzo all’Oceano Pacifico.
Pertanto se uno si trova a ovest della linea a mezzanotte e un minuto del 1 gennaio chi sta a est nello stesso istante vivrà invece le ventitré e un minuto del 31 dicembre.
Ovviamente si tratta di convenzioni necessarie perché le date possano essere uniche e riconoscibili in tutto il pianeta.
30 dicembre 2011. Il giorno che non c’è mai stato
Contriamente a quanto accaduto nel 1582 con l’introduzione del Calendario Gregoriano per le Isole Samoa e Tokelau non è trattato di uno sfasamento fra calendario e posizione astronomica della Terra.
Ciò che ha indotto i due arcipelaghi a cancellare una data dal calendario è stata unicamente la volontà politica di spostarsi a ovest della linea del cambiamento di data.
Per fare ciò i due arcipelaghi hanno dovuto rinunciare a vivere un giorno e dal 29 dicembre si è passati al 31 dicembre direttamente.
La causa di questa scelta drastica va ricercata nel mondo lavorativo.
Prima dello spostamento a ovest della linea del cambiamento dell’ora i due arcipelaghi erano un giorno indietro rispetto ad Australia e Nuova Zelanda.
Che di fatto rappresentano i maggiori partner commerciali per le piccole isole del pacifico.
Dunque quanto a Samoa e Tokelau era venerdì (lavorativo) in Australia e Nuova Zelanda era già sabato (festivo o semi-festivo).
Quando a Samoa e Tokelau era domenica (festivo) in Australia e Nuova Zelanda erà già lunedì (lavorativo).
Per eliminare questo sfasamento fra giorni festivi e lavorativi i due arcipelaghi hanno deciso di saltare a ovest della linea del cambiamento di data
Così si sono allineati ai loro partner commerciali (Australia e Nuova Zelanda) ed ora hanno gli stessi giorni.
Con un’ora di fuso orario con la Nuova Zelanda e da tre a cinque ore con l’Australia (che ha più di un fuso orario che l’attraversa).
Foto di Dean Moriarty da Pixabay
Se vuoi scoprire i libri che ho scritto clicca qui sotto
Speciale Natale: te piace o presepe?
(Presepe) Articolo scritto della dottoressa Ilena Aprea per Pillole di Cultura
Ascolta “SPECIALE Natale. Parliamo di film e tradizioni” su Spreaker.Quanto è importante il presepe nella storia culturale e tradizionale italiana? E come viene “vissuto ” nella casa degli italiani e nel resto del mondo? E a Napoli, luogo dell’artigianato presepiale per eccellenza?
SOMMARIO
- Presepe. Storia, cultura e tradizione
- Presepe. San Gregorio Armeno
- Presepe. La rappresentazione nell’arte e nella letteratura
- Presepe. L’importanza nelle case degli italiani e nel resto del mondo
La storia delle origini del presepe è una bellissima tradizione nei paesi cattolici di tutto il mondo.
Presepe. Storia, cultura e tradizione
La storia delle origini del presepe è una bellissima tradizione nei paesi cattolici di tutto il mondo.
Di origine medievale, riguarda la rappresentazione concreta della nascita di Gesù attraverso la realizzazione di composizioni con statue di varie grandezze e materiali messe in modo realistico.
In genere in una grotta o una capanna, all’interno della quale viene posta la Sacra Famiglia.
Le prime tracce dell’origine del presepe si ritrovano nei Vangeli di Marco e Luca che riportano in alcuni versetti la storia della nascita di Gesù a Betlemme ai tempi di Erode.
Ma la prima rappresentazione figurativa antica la ritroviamo nel terzo secolo D.C. all’interno delle catacombe di Priscilla a Roma sulla via Salaria.
A partire dal 400 ci fu una grande ripresa della rappresentazione della storia del presepe grazie a famosi pittori italiani quali Giotto e Botticelli.
Un momento importante nella sua evoluzione è quello in cui si passa alla rappresentazione plastica della natività e, quindi del presepe come lo conosciamo noi.
L’innovazione di San Francesco
Nel 1223 San Francesco chiese ed ottenne il permesso dal Papa di passare a questo tipo di rappresentazione.
Costruì una mangiatoia in una caverna all’interno di una parco a Greggio.
Portò un bue e un asinello e tenne la prima predica di Natale descrivendo la natività a coloro che non sapevano leggere.
Da quel momento nacque la tradizione di rappresentare la natività sia con le statue che con la Sacra Famiglia dal vivo.
Fino al ‘600 il grande interesse per la rappresentazione della natività si manifestò inizialmente attraverso la realizzazione del presepe nelle chiese vicino a dipinti ispirati al tema.
Tradizione che si diffuse nell’Italia centrale e nelle case dei nobili e che nel 700 aveva raggiunto tutta l’Italia.
Contestualmente avevano avuto origine le diverse tradizioni popolari tra le quali la più importante è quella napoletana.
Per questo spesso si parla di storia del presepe napoletano.
È proprio a Napoli che il presepe raggiunse livelli espressivi originali e le famiglie nobili facevano a gara per poter avere il presepe più ricercato.
Arruolavano infatti scultori di fiducia per realizzare lavori di prestigio usando materiali preziosi.
Dedicando addirittura intere stanze che poi mostravano durante i ricevimenti. (Rini 2020)
Presepe. San Gregorio Armeno
Nel cuore di Napoli si trova San Gregorio Armeno.
Un’antica e lunga stradina piena di botteghe ed edifici storici i quali raccontano gli eventi che hanno portato questa famosa tradizione ricca di simboli i quali trasmettono l’anima del luogo.
Questa stradina risale all’epoca greco-romana e si trova dove i vicoli collegano via dei Tribunali e Spaccanapoli.
Intorno al X secolo delle monache portarono a Napoli le reliquie di San Gregorio Illuminatore patriarca di Armenia per conservarle nella chiesa nata sulla strada che porta il suo nome.
Chiesa conosciuta anche come Santa Patrizia, santa di Costantinopoli, che guidò le suore che portarono le spoglie del santo.
Una tradizione che affonda le radici nell’antica Roma
L’antica via ospitava un tempio romano dedicato a Cecere, dea della terra e della fertilità, alla quale veniva fatto dono di statuette di terracotta come simbolo di buon augurio.
Le botteghe che si trovavano lì erano considerate le migliori di Napoli per la produzione di opere artigianali destinate alle offerte.
Con la diffusione della rappresentazione della Natività dalle chiese alle famiglie aristocratiche, gli artisti napoletani vennero incaricati di creare scene religiose.
Con la nascita del presepe napoletano come lo conosciamo oggi, via San Gregorio Armeno è diventata un simbolo della città.
Via dove, nel periodo di Natale, si possono trovare varie esposizioni di statuette, opere d’arte, sia tradizionali che rappresentazioni più contemporanee.
Nel resto dell’anno si possono osservare le famiglie storiche di artigiani all’opera che mantengono viva la loro arte tra innovazione e classicità.
I presepi di San Gregorio Armeno sono sono famosi per essere i più particolari al mondo.
Connubio tra sacro e profano mostrano la creatività degli artigiani.
La tradizione presepiale napoletana include statuine di terracotta molto preziose di diverse dimensioni e prezzi.
La grotta è la Sacra Famiglia, il pastorello Benino, Ciccibacco il vinaio…
Statuine che fanno immergere i turisti nella classica atmosfera natalizia. (Taverna 2019)
Presepe. La rappresentazione nell’arte e nella letteratura
Il Natale con la nascita di Gesù segna per i cristiani di tutto il mondo il momento di cambiamento della storia dell’umanità.
L’immagine di Gesù bambino accudito da San Giuseppe e da Maria ha spinto gli artisti di ogni epoca a cimentarsi su un argomento molto significativo nella storia dell’arte.
Molti artisti hanno dipinto la festa più importante nella storia della chiesa, la nascita di Cristo.
Fra i tanti Giotto, Tiziano, Rubens, Botticelli, Caravaggio, Beato Angelico, Piero della Francesca e molti altri.
Oltre all’arte pittorica anche in quella poetica si ritrovano nomi illustri che narrano nei loro componimenti l’evento della natività.
Basti citare D’Annunzio e Quasimodo (Franza 2018), Gozzano, Saba, Valeri e molti altri grandi autori della letteratura italiana e straniera.
Autori che si sono ispirati al Natale per i loro scritti.
Presepe. L’importanza nelle case degli italiani e nel resto del mondo
Concludendo si può affermare che il presepe nel tempo ha preso un posto molto importante nel cuore e nelle case degli italiani e non solo.
Grazie anche alle nuove tecnologie e a nuovi materiali vi è stato un decollo della cultura del presepe.
Circostanza che consente di poterne ammirare ovunque la magia per mezzo di giochi di luce e di acqua all’interno di stupende scenografie. (Giorgi 20220).
Ogni paese europeo ed extraeuropeo ha, naturalmente, una tradizione culturale diversa nella sua rappresentazione.
Anche se l’idea di fondo è quella di ricreare la scena della nascita di Gesù.
Le varianti importanti stanno nello stile della ricostruzione e nei materiali che vengono utilizzati.
Anche in Italia il presepe si diversifica da regione a regione.
Non tanto dal punto di vista culturale quanto rispetto ai materiali usati per la costruzione della scena della nascita di Gesù.
Ad esempio a Genova i pastori sono di legno mentre in Puglia sono di cartapesta e in Sicilia si aggiungono prodotti tipici alla realizzazione del presepe. (Staff Italoeuropeo 2019)
Fonti:
- 27/12/202. PistoiaSette, La magia del Presepe, la sua storia ed evoluzione nel tempo di Franco Giorgi
- 12/12/2020. DS – DossierScuola.it, Storia del Presepe: dalle origini al 700 di Gianluca Rini
- 25/11/2019. Blog Club Magellano, San Gregorio Armeno: storia, leggende e curiosità di Lara Taverna
- 16/12/2018. Blog il Giornale.it, Il Natale nell’arte e nella letteratura. Icone e testi tra storia, fede e bellezza di Carlo Franza
Il telefono del vento. The phone online with Death!
(telefono del vento) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
In Giappone – nel giardino privato di Bell Gardia – c’è una cabina telefonica per “parlare” con i morti.
Esistono molti luoghi nel mondo dove commemorare i defunti.
Uno dei posti più inconsueti e originali si trova in Giappone, nella città di Ōtsuchi.
Un centro abitato a Nord Est dell’isola, nella prefettura di Iwate e più precisamente in un giardino privato chiamato Bell Gardia.
Il monumento si chiama 風の電話 kaze no denwa, il cui significato è Telefono del Vento.
SOMMARIO
- Il telefono del vento. Ma chi ha ideato il Kaze no Denwa e perché?
- Il telefono del vento. La storia del Telefono del Vento è intensa, importante e nasce perché
- Il telefono del vento. Il terremoto e maremoto di Tōhoku
- Il telefono del vento. Silenzioso cordone umano a Bell Gardia
È una cabina telefonica che spicca tra la bellezza naturalistica del giardino.
Cabina al cui interno è installato un vecchio modello di telefono in bachelite, privo di linea, attraverso il quale si può “dialogare” con i morti.
Il visitatore che decide di entrare nella cabina, può intrattenere una chiacchierata onirica o rimanere nel più assoluto silenzio.
Cullato dall’abbraccio del vento che sferza e rafforza l’atmosfera preziosa e unica dell’opera.
La cabina è di legno bianco e pannelli di vetro, mentre il telefono è sistemato sopra una mensola.
Accanto vi è un quaderno, dove gli ospiti possono lasciare un segno del loro passaggio: una firma, un pensiero.
Il telefono del vento. Ma chi ha ideato il Kaze no Denwa e perché?
Il Telefono del Vento è stato progettato nel 2010 da Itaru Sasaki, progettista di giardini che ha creato l’opera dopo la scomparsa di suo cugino.
La cabina telefonica è diventata, col tempo, una sorte di portale immaginario.
Dove poter parlare con i defunti, in un dialogo chimerico e profondamente commovente.
Alzando la cornetta si può immaginare di colloquiare con chiunque si desideri, anche con sé stessi, come e soprattutto con chi non è più con noi.
Sognare di dialogare attraverso quel telefono privo di linea è come pregare e sperare.
Ponendosi dinnanzi a uno dei sentimenti più profondi e laceranti che caratterizzano l’essere umano: il dolore del lutto.
Il Telefono del Vento permette di credere almeno per un istante di poter essere in contatto con chi non ci è più accanto.
Il telefono del vento. La storia del Telefono del Vento è intensa, importante e nasce perché
Itaru Sasaki dopo il grave lutto che colpì lui e i suoi parenti, immaginò un luogo dove poter continuare a “parlare” col suo familiare deceduto.
E per farlo pensò a due elementi soltanto: il telefono e il vento.
“Poiché i miei pensieri non potevano essere trasmessi su una normale linea telefonica, volli che fossero portati dal vento.” (I. Sasaki)
Il Signor Sasaki era sicuro che la sua opera l’avrebbe aiutato a metabolizzare il dolore.
Ma quello che non poteva minimamente immaginare, accadde appena un anno dopo.
Un evento di tali proporzioni da cambiare le venture – e le vite – di migliaia di persone come della storia stessa del Telefono del Vento.
Tanto da trasformandolo in un vero e proprio luogo di pellegrinaggio, ancora più toccante e mistico.
L’evento che modifica per sempre la storia che vi sto narrando avviene l’11 Marzo 2011, quando un potentissimo terremoto colpisce il Giappone.
Il telefono del vento. Il terremoto e maremoto di Tōhoku
Nord del Giappone – Isola di Honshū – 11 Marzo 2011, ore 14:46 (le 6:46 in Italia).
La terra inizia a tremare.
Un terremoto di magnitudo 9.1 matura e deflagra a largo delle coste dell’isola più grande della nazione nipponica.
Dopo pochi minuti sopraggiunge un mostruoso tsunami che colpisce e devasta soprattutto le coste della regione di Tōhoku.
Il sisma avvertito, risulta essere da subito violentissimo e viene catalogato come uno dei cinque più potenti mai registrati nella storia del mondo dal 1900.
Oltre a essere, ancora oggi, quello più forte mai rilevato in Giappone.
La scossa è intensa ma lontana dalla terra ferma pertanto, l’elemento che porta distruzione e morte è il maremoto generatosi pochi istanti dopo.
Onde alte più di 10 metri si abbattono sulla costa con una tale violenza da spazzare via ogni cosa.
Oltre 15.000 vittime
Solo a Tōhoku le vittime sono più di 15.000… trasportati via da un’onda irrefrenabile che ha lacerato vite, sogni e realtà.
La centrale nucleare di Fukushima esplode.
L’enorme onda creatasi a seguito del terremoto, arriva a danneggiare la struttura in modo irreparabile.
La tragedia verrà ricordata proprio con il nome della regione più colpita, Tōhoku.
La conta delle vittime lascia il mondo attonito, dinnanzi agli occhi dei sopravvissuti si palesa la potenza di una natura devastante e distruttrice.
Un terremoto che scuote letteralmente il mondo e ferisce pesantemente il Giappone.
Morte, disastro e dolore restano le conseguenze più tangibili di questa catastrofe.
È proprio a seguito di questo evento che Itaru Sasaki decide di aprire il suo giardino privato ai familiari e agli amici delle vittime dello tsunami.
Dialogare con i cari scomparsi
Mette a loro disposizione la cabina e lascia che utilizzino il Telefono del Vento per cercare un dialogo non solo con i propri cari scomparsi.
Ma anche con quel dolore sordido e martellante che li stringe ormai in una morsa senza fine e che lui conosce bene.
Da quel momento, grazie anche al passaparola, il Telefono del Vento diventa una vera e propria meta.
In più di 12 anni, le persone che hanno visitato il luogo sono state davvero molte, le stime ne dichiarano circa 30.000!
Il telefono del vento. Silenzioso cordone umano a Bell Gardia
Un rispettoso e silenzioso cordone umano ha continuato ad andare a Bell Gardia, oramai ribattezzata “la collina del telefono del vento”.
Per potersi immergere in quell’atmosfera profondamente toccante che si annida tra le sferzate di vento e il bianco candore della cabina.
Chi ha visitato l’opera di Sasaki ha intrapreso un viaggio personale intenso e significativo.
L’opera del garden designer è stata ripresa in altre parti del mondo.
Con lo stesso significato e lo stesso rispetto verso il dolore di chi deve convivere con la pesante assenza di una persona cara che non c’è più.
Cercando rifugio e sollievo tra i fili di un telefono privo di linea e l’ascendente della natura.
Non posso chiudere quest’articolo senza citare il bellissimo romanzo di Laura Imai Messina: “Quel che affidiamo al vento” (edito da Piemme).
Romanzo grazie al quale ho conosciuto questa storia e che vi suggerisco di leggere almeno una volta nella vita.
“In fondo era quanto ci si augurava per tutti, che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita, ognuno se lo fabbricasse da sé, in un luogo che ognuno individuava diverso.” Laura Imai Messina
Ricordatevi sempre che il tempo batte ritmi incessanti e non arresta mai il suo scorrere.
Mentre il Telefono del Vento continua a custodire migliaia di parole, lacrime e ricordi, cullato e protetto da una natura maestosa. E da sentimenti che non muoiono mai.
- Sempre dire Banzai: “Il telefono del vento: in Giappone esiste una cabina per “parlare” con i morti
- Internazionale: “Il telefono del vento per parlare con le vittime dello tsunami”
- IO Donna: “In Giappone c’è una cabina telefonica per parlare con i defunti”
- Wikipedia: “Telefono del vento”
- Studio Bellesi: “Il giardino di Bell Gardia e il telefono del vento”
Mangia Peccati, una figura storica tra leggenda e oblio
(Mangia Peccati) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
“Chi tra di voi è senza peccato scagli la pietra per primo.” Vangelo secondo Giovanni: 8.3
Tra il XVIII e il XIX secolo si concretizzò la figura simil-religiosa del Mangia Peccati – Sin Eater – che aveva il compito di assorbire le colpe del defunto, attraverso l’assunzione di cibo sul letto del moribondo.
SOMMARIO
- Mangia Peccati. Le origini
- Mangia Peccati. Chi era?
- Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
- Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
- Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
Irrimediabilmente quando si narra del Mangia Peccati si è costretti a pensare agli ultimi istanti di vita di una persona.
Perché per chi crede, i peccati commessi devono essere redenti prima di esalare l’ultimo respiro, così da permettere alla propria anima un sicuro viaggio per l’aldilà.
Mangia Peccati. Le origini
Per molto tempo, in alcune parti del mondo il Mangia Peccati ne ha rappresentato un valido aiuto.
Figura emblematica e ormai dai contorni poco nitidi, ha preso principalmente piede nell’entroterra Inglese e in alcune zone del Galles e della Scozia.
Soprattutto nei luoghi più isolati e remoti.
Sulle origini del Mangia Peccati ci sono poche notizie, ma quelle più concrete datano la sua nascita nel periodo del basso medioevo.
Anche se alcune fonti sono portate a dichiarare che nasca insieme al Cristianesimo stesso.
Certo è che se la storia lo ha oramai relegato solo nelle nicchie dei ricordi.
In alcune zone del pianeta (come l’Alabama) rappresenta ancora oggi il protagonista di cupe storie folkloristiche.
Mangia Peccati. Chi era?
Il Mangia Peccati – o Sin Eater, in Inglese – la maggior parte delle volte, era un uomo che veniva chiamato dalla famiglia del moribondo sul letto di morte per praticare questo rito.
Rito nel quale le pietanze offerte al Sin Eater rappresentavano i peccati commessi dal defunto.
Il Mangia Peccati assumeva quelle pietanze e l’anima del defunto si alleggeriva, permettendo un trapasso sereno.
Un rito e una figura quella del Sin Eater che incarnano in modo chiaro e tangibile l’importanza per gli uomini, di affrancarsi l’anima dai peccati, restando altresì coscienti di gravare su quella di un altro.
Sicuramente non era un lavoro ambito da molti.
Nella maggior parte dei casi, erano uomini poveri ai margini della società che – davvero per fame – intraprendevano questo mestiere.
Mangia Peccati. Se non era possibile la confessione o l’estrema unzione
Quando l’estrema unzione o l’ultima confessione non erano possibili, ci si rivolgeva al Sin Eater.
Sicuramente nelle zone rurali era più facile usufruire dei servigi di un Mangia Peccati, rispetto alle grandi città dove, invece, era più facile reperire un sacerdote per una “classica” estrema unzione o ultima confessione.
La maggior parte delle volte il Sin Eater – veniva contattato dalla famiglia del morente – e sotto un minimo compenso raggiungeva l’uomo in fin di vita al suo capezzale, per ascoltare le ultime confessioni.
In quel lasso di tempo veniva anche preparato il pasto frugale, che il Mangia Peccati ingeriva o sul letto del defunto o addirittura sul suo petto.
Ascoltando e mangiando, permetteva all’anima del morente di lasciare le spoglie terrene, alleggerita dalle colpe commesse e dichiarate e di trovare pace in eterno.
Il defunto aveva l’anima redenta, ma il Mangia peccati allo stesso tempo appesantiva la sua, aggravandola di oscure e impenetrabili memorie.
Qualora fosse arrivato troppo tardi, ad accoglierlo sul letto ci sarebbe stato solo il pasto simbolico e il silenzio.
Nella maggior parte dei casi, il pasto era composto dal pane in quanto simbolicamente associato all’anima dei defunti.
Anche se al Sin Eater si poteva offrire anche del sale e un piatto di stufato o minestra.
Mangia Peccati. Un reietto con l’anima pesante
La confessione come il parco convivio erano fasi di un vero e proprio rituale, intervallato da preghiere sussurrate e arcaiche formule:
“The ease and rest of the soul are gone” (La facilità e il riposo dell’anima se ne sono andati) Brand’s popular Antiquities of Great Britain
Un cerimoniale che ha i toni ancestrali, che si perdono nella notte dei tempi…
Intorno alla figura del Mangia Peccati, aleggia la costante comprensione di quanto sia stata dura ricoprire questo ruolo.
Solitamente era un uomo senza famiglia che per pochi penny (di solito non più di 4) e un tozzo di pagnotta, non esitava a venire a patti con i peccati degli altri, per poter avere lo stomaco pieno.
Era considerato un vero professionista, ma allo stesso tempo messo agli angoli dalla società del tempo.
Un reietto con l’anima pesante e la solitudine come compagna.
Infatti il tempo e le superstizioni, avvicinarono la figura del Sin Eater alla stregoneria e al satanismo.
Un alone di mistero e maledizione aggravato anche dalla convinzione popolare che il Sin Eater fosse l’unico in grado d’impedire ai morti viventi di risorgere!!
Una figura storica e religiosa che è stata presente sino agli inizi del XX secolo.
Mangia Peccati. Richard Munslow l’ultimo
L’ultimo Mangia Peccati che la storia ci riporti è Richard Munslow (1838 – 1906) che onorò il suo compito nella Contea di Shropshire sino agli inizi del ‘900.
Il suo menù, contrariamente alla tradizione, prevedeva: torta alla ricotta, fondi di carciofi e trippa… senza mai dimenticare i sei pence previsti per la prestazione.
Al contrario di molti suoi colleghi e predecessori, ad avvicinare Munslow alla professione di Mangia Peccati, non fu l’indigenza o la fame, ma il lutto per la perdita di quattro suoi figli.
Di cui tre, nella stessa settimana.
Profondamente turbato da questa drammatica esperienza, scelse di diventare un Sin Eater per vivere questa professione, come forma di lutto.
Della figura enigmatica del Mangia Peccati restano poche concrete testimonianze.
Il silenzio e la solitudine che ne hanno rappresentato gli elementi più concreti, ci permettono di immaginarlo come un triste compagno che segue la Morte nelle sue peregrinazioni, tra un’anima e l’altra.
Capace ancora di accogliere il mistero degli ultimi istanti di vita dell’essere umano, tra sussurri e briciole di pane.
- Blog. Necrologi: “Sin Eater: colui che mangia i peccati”
- Altroevo: “Il Mangia Peccati, la storia e la leggenda del mangiatore di peccati”
- The Weird Side: “Il Mangia Peccati e l’Accabador”
Messico: acqua potabile razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
(Messico) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
La città di San Cristobal de las Casas fu fondata nel 1528 e nel periodo coloniale spagnolo divenne capitale del Chiapas. Il Chiapas è uno dei 21 Stati che costituiscono la Repubblica Messicana e attualmente è una delle zone più povere della Nazione.
A San Cristobal de las Casas in Messico l’acqua potabile è razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!
SOMMARIO
- Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
- Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
- Messico. Cosa e chi si cela dietro l’acronimo: FEMSA?
Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN
San Cristobal spesso viene citato perché luogo dove il 1° Gennaio 1994 durante l’occupazione dei sette comuni, il Sub Comandantemarcos – rivoluzionario, ex portavoce dell’esercito Zapatista di liberazione nazionale (EZLN) movimento armato clandestino di stampo anarchico, indigenista e anticapitalista – lesse la prima dichiarazione della Selva Lacandona, attraverso la quale proclamava i diritti del proprio movimento e dichiarava guerra al Governo Messicano colpevole tra l’altro, di aver firmato il trattato TLC (Tractado de Libre Comercio – Trattato di libero commercio) con il Canada e gli Stati Uniti d’America.
Purtroppo oggi San Cristobal de las Casas risalta agli onori della cronaca per avvenimenti che la coinvolgono e che sotto alcuni aspetti rispecchiano una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN, il quale lottava con forza e vigore per la propria libertà e contro ogni forma di colonialismo e sfruttamento.
“Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte: prima contro la schiavitù, poi, durante la Guerra d’Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli, poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo Nord Americano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma, il popolo si ribellò e emersero i suoi leader come Villa e Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione; così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, ne’ terra, ne’ lavoro, ne’ assistenza sanitaria, ne’ cibo, ne’ istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, ne’ vi è indipendenza dallo straniero, ne’ vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!”
Comando Generale dell’EZNL – Selva Lacandona, Dicembre 1993
Quello che di sicuro sta accadendo agli abitanti della cittadina è preoccupante e indica una forma di “colonialismo” silente e astuta, rendendo i motti del movimento sopracitato solo echi lontani e indistinti perché, nella cittadina esiste e persiste un grande problema, l’acqua potabile – un bene primigenio ed essenziale per la vita sulla terra.
Della sua indispensabile importanza ne avevo già scritto nel mio articolo: “Flint Town e i suoi eterni veleni”, ma purtroppo m’imbatto sempre più spesso in storie in cui questo elemento primordiale ed essenziale per tutti, rischia di venire meno.
Proprio come in questa vicenda che non smette di stupire.
A seguito di una rapida urbanizzazione, di strutture idriche obsolete e di pericolosi cambiamenti climatici che ormai sono fautori di disastri immediati e a lungo termine, la cittadina di montagna ha visto diminuire vertiginosamente le scorte idriche utili alla vita quotidiana.
L’acqua potabile che confluisce nelle tubature della rete idrica cittadina, dev’essere sistematicamente razionata.
I pozzi non coprono il fabbisogno della popolazione, decretando una crisi che sembra possedere tutti i requisiti per avere un apogeo irreversibile.
Le condizioni che detta questa crisi idrica implicano e coinvolgono aspetti della vita sociale, politica e sanitaria dell’intera comunità di San Cristobal de las Casas tali da non poter essere sottovalutati.
L’acqua viene razionata anche perché gli impianti di depurazione non hanno le caratteristiche utili e conformi per filtrare l’approvvigionamento adeguato alle necessità del popolo.
La situazione è avversa a tal punto che gli abitanti di San Cristobal preferiscono attendere l’arrivo dei camion cisterna per avere un minimo di scorta nel proprio domicilio, mentre per dissetarsi acquistano bottiglie su bottiglie di… Coca Cola!
Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?
Ebbene, NO! Perché l’acqua imbottigliata ha un costo maggiore rispetto alla famosa bevanda simbolo del capitalismo mondiale.
Le ripercussioni che agevolano (almeno all’apparenza) il budget familiare, si ripercuotono però su quello della salute.
Tant’è che le ricerche effettuate sul reale consumo di Coca Cola che dilaga tra gli abitanti di San Cristobal, hanno evidenziato un preoccupante aumento delle malattie metaboliche.
Soprattutto diabete e obesità.
Inoltre è estremamente inquietante il coinvolgimento dei bambini che sin dalla più tenera età compromettono le proprie condizioni fisiche sorseggiando Coca Cola, anziché limpidi e salutari bicchieri d’acqua.
Le stime sull’abuso della bevanda lasciano sgomenti.
La gran parte della popolazione di San Cristobal ingerisce un quantitativo giornaliero pari almeno a 2 lt di Coca Cola al giorno.
Da uno studio effettuato sulla popolazione si è accertato che tra il 2013 e il 2016 l’aumento di casi di diabete è stato pari al 30%.
La maggior parte delle famiglie hanno al loro interno almeno un consanguineo affetto da questa patologia. Il diabete è la seconda causa di morte nel centro abitato nella zona meridionale del Messico.
È lecito e logico pensare subito: ma se c’è una crisi idrica tale da dover razionare la fornitura d’acqua alla popolazione, da dove arriva l’acqua utilizzata per preparare la Coke?
Messico. La risposta si racchiude in un’unica parola: Femsa.
La FEMSA – Fomento Económico Mexicano, S.A.B. de C.V. – è una multinazionale messicana fondata nel 1890 da cinque imprenditori (Isaac Garza, José Calderón Penilla, José A. Muguerza, Francisco Sada Gómez e Joseph M. Schnaider) che diedero inizio a quest’avventura, aprendo il birrificio “Cuauhtémoc Ice and Beer Factory”, a Monterrey, NL, Messico.
Da quel momento in poi la FEMSA non si è più fermata. È diventata la multinazionale messicana che su scala mondiale vanta impegni nel settore della ristorazione e delle bevande.
È la seconda maggior azionista della Heinken International ed è la più grande azienda imbottigliatrice di Coca Cola al mondo.
Ora cari lettori, dopo aver compreso e chiarito in grandi linee cos’è l’azienda FEMSA, torniamo a dare il giusto spazio al vero protagonista di questa storia: il popolo assetato.
Un’intera comunità che – anche attraverso la divulgazione di pubblicità ingannevoli – continua a bere Coca Cola come se fosse acqua; mentre l’acqua continua a essere razionata e mal distribuita.
Ma se l’acqua scarseggia, come riesce la FEMSA ad imbottigliare galloni e galloni di Coca Cola da far arrivare in quantità decisamente importanti a San Cristobal de las Casas, risparmiando a tal punto da far diventare più economico una confezione di Coca Cola, rispetto a una d’acqua?
Semplice, l’impianto locale della Coca Cola – sempre di proprietà della FEMSA – ha autorizzazioni utili per accedere alle riserve d’acqua della zona da poter utilizzare per essere depurate, addolcite e alterate fino a trasformarsi nella bevanda dal leggendario marchio rosso e bianco.
Messico, l’acqua alla multinazionale ma non ai cittadini!
La multinazionale può e ha accesso all’acqua, arrivando a poter utilizzare circa 300.000 litri al giorno da fonti idriche locali. La comunità di San Cristobal no.
I residenti del paesino situato tra le Montagne della Sierra Madre contestano, si lamentano anche e soprattutto quando si parla della salute sempre più compromessa della loro comunità. La FEMSA attraverso i suoi rappresentanti legali nega ogni responsabilità.
Imputabilità che rigetta attraverso dichiarazioni come questa, pubblicate dal New York Times, attribuite a uno dei dirigenti della FEMSA: “ha respinto le critiche che le bevande della compagnia abbiano un impatto negativo sulla salute pubblica. I messicani, ha detto, possono avere una propensione genetica verso il diabete“.
È imperativo che non ometta quanto sia ormai diffuso l’utilizzo delle bevande gassate e zuccherate come la Coca Cola (chiamate refrescos) su tutto il territorio Nazionale Messicano.
Messico, solo la punta dell’iceberg
Sotto certi aspetti, la storia di San Cristobal de Las Casas è solo la punta dell’iceberg perché negli anni il Messico ha scalato in modo celere la triste classifica dei Paesi consumatori di Coca Cola.
È secondo solo agli Stati Uniti d’America.
Resta il fatto che mentre gli abitanti di San Cristobal continuano ad attendere che l’acqua torni a poter essere utilizzata in modo concreto e giusto, la FEMSA continua a imbottigliare e a distribuire la famosa bevanda – frutto di una ricetta ancora oggi segreta – in quantità anche superiori alle reali necessità del luogo, mixando al sapore dolciastro e frizzantino famoso in tutto il mondo, l’amaro retrogusto di un subdolo capitalismo.
- Ciboserio: “Messico: intera città beve Coca Cola, perché manca l’acqua”
- Ytali: ”Chiapas, senz’acqua ma con la Coca Cola”
- L’Indro: “Il governo Messicano ha sete di Coca Cola”
- Femsa.com
- SBS News: This small town in Mexico is addicted to Coca-Cola. It also grapples with a deadly disease.
- Voices: San Cristobal de las Casas, the Mexican town that drank more coke than water
Roopkund, il lago degli scheletri
(Roopkund) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
Per narrarvi i misteri di questa storia dovete accompagnarmi sull’Himalaya e più precisamente nello Stato Indiano di Uttarakhand. Qui si trova il Lago Roopkund, denominato anche il lago degli scheletri e dei misteri.
SOMMARIO
- Roopkund. La scoperta
- Roopkund. Le diverse supposizioni
- Roopkund. Cosa scoprirono gli studiosi
- Roopkund. La leggenda himalayana
Situato nel ventre del massiccio di Trishul, è di origini glaciale e si trova a circa 5020 metri di altitudine.
Pur essendo stato classificato come lago, per la capienza e la profondità (che non supera i 3 metri) ha le caratteristiche più vicine a quelle di uno stagno.
La zona è completamente disabitata e impervia, la natura domina il sito tra ghiaccio, rocce e … scheletri.
La particolarità del Lago è nell’essere custode di centinaia di ossa umane e arcani enigmi.
Quando il ghiaccio si scioglie, il Lago riporta alla luce centinaia di ossa.
È in questa capsula di ghiaccio, quasi perennemente abbracciata dalla neve, che riposano decine e decine di antichi resti umani.
Roopkund. La scoperta
Sebbene si abbiano notizie sullo Skeleton Lake – il lago degli scheletri – già dal IX secolo, l’ufficialità della scoperta viene datata nel 1942 quando il ranger Hari Kishan Madhwal scoprì i resti ossei che fluttuavano sul pelo dell’acqua.
Con il passar dei giorni e con il maggiore scioglimento del ghiaccio, il lago continuò a restituire altri resti umani, insieme a schegge di lance, manufatti in legno e anelli, brandelli di tessuto umano e capelli, vestiti e pantofole di cuoio.
Le autorità Britanniche – visto il periodo storico – inizialmente ipotizzarono che fossero cadaveri di soldati Giapponesi morti durante il tentativo di valicare i confini Indiani, per cercare di attuare una vera e propria invasione.
Terrorizzato da tale supposizione, il Governo Inglese avviò un’indagine inviando degli esperti sul luogo della scoperta.
Quest’ultimi decretarono che le ossa erano molto antiche e non potevano appartenere ai soldati nipponici.
Da quel momento il lago divenne il fulcro di misteriose storie, scarse prove concrete e la certezza della sua unicità.
Un cimitero tra i ghiacci che per circa 300 persone – senza un motivo apparentemente sensato – fu luogo di morte tra gelo e pietre.
Perché si erano recate in questo posto così proibitivo e pericoloso?
Come erano decedute?
Dal 1950 ai giorni nostri sono state diverse le spedizioni organizzate da team di studiosi sul lago Roopkund.
Esplorazioni volte ad analizzare i resti, per trovare risposte realistiche così da poter dissipare l’alone di mistero e folklore che aleggia su questo sito, così unico e particolare.
Roopkund. Le diverse supposizioni
All’inizio si ipotizzò che tutti i cadaveri rinvenuti fossero morti nello stesso momento e per la stessa causa.
Poi si suppose che il lago Roopkund era stato per millenni una fossa comune, che aveva dato eterno riposo alle vittime di un’ipotetica epidemia, o di un suicidio collettivo.
Altri invece sostenevano che il Lago fosse un luogo sacro, utilizzato per sacrifici religiosi.
Le vittime di tali riti venivano condotte sin lassù per immolarsi durante le cerimonie.
Altre tesi spingono a credere che il Lago sia invece solo un luogo di passaggio per arrivare a compiere il pellegrinaggio al Nanda Devi – considerata una delle montagne più sacre dell’India.
Sin dalla notte dei tempi, a questa montagna sono legate storie demologiche e potenti energie, in grado di richiamare molti pellegrini per visitarla.
L’atmosfera che aleggia sul Nanda Devi (in italiano: Dea dispensatrice di Beatitudine- Dea della Gioia) sembrerebbe donare concentrazione e vigore utili per la meditazione.
Il Governo Indiano non ha mai rilasciato facilmente autorizzazioni per scalarla e/o per compiere il pellegrinaggio alla montagna, a causa dei rapporti tesi con la Cina.
È necessario ricordare che questa barriera Himalayana è considerata un territorio molto delicato, perché confina a Nord con l’altopiano del Tibet e a Sud con la pianura del Gange.
Roopkund. Cosa scoprirono gli studiosi
Certo è che per i circa 300 resti umani ritrovati, poche erano le certezze e troppe le supposizioni. Utili e concreti sarebbero stati solo e soltanto gli studi e le ricerche sui reperti.
Purtroppo c’è da dire che oltre i ricercatori- in tutti questi anni – spesso si sono succeduti anche curiosi poco attenti che, per toccare i resti che l’acqua ha restituito alla storia, hanno alterato di fatto la zona dei ritrovamenti.
Inoltre diversi scheletri sono stati utilizzati per creare delle inquietanti composizioni ossee (ancora visibili accanto alle sponde del lago) e altri, depredati.
Queste alterazioni portate avanti da mani inesperte non solo hanno concretamente influenzato lo scenario originale del lago, ma anche influenzato negativamente il risultato su alcuni esami effettuati.
Analisi che sono emerse alterate proprio a causa di queste manipolazioni avvenute sulle spoglie.
Tanto da compromettere la conservazione naturale del sito stesso.
Dopo questa doverosa precisazione posso tornare a rivelarvi cosa gli studiosi sono riusciti a scoprire sugli scheletri.
Si è rinvenuto che in realtà nel lago riposavano due gruppi etnici distinti. Separati non solo per razza, ma anche per periodo storico, infatti:
- sul primo gruppo di scheletri analizzati, gli studi hanno affermato che provenivano dall’Asia Meridionale (India, Bangladesh, Nepal) e incontrarono la morte nei pressi del Roopkund tra il VII e il X secolo. (Solo uno scheletro venne identificato come appartenente alla zona più Orientale dell’Asia – Giappone, Cina, Indonesia)
- Mentre il secondo gruppo proveniente dal Mediterraneo (Grecia, Iran e Creta) sopraggiunse nei pressi del lago per incontrare il proprio triste destino, tra il XVI e il XIX secolo.
In entrambe le compagnie erano presenti sia donne che uomini.
Sono tutti morti nello stesso luogo, ma con uno “scarto temporale” di circa 1000 anni gli uni dagli altri.
Le analisi hanno rilevato anche l’assenza di agenti patogeni utili per confermare un’epidemia.
Quello che invece è sopraggiunto all’attenzione dei ricercatori sul “gruppo Asiatico” sono state delle lesioni riportate solo sul cranio e sulle spalle degli scheletri.
Compatibili con dei colpi “tondeggianti” sferrati dall’alto.
Una tesi che si è andata concretizzando nel tempo e ipotizza che la causa del decesso sia attribuibile a una violenta grandinata.
In pratica sulle teste di questi uomini, sarebbero letteralmente piovute dal cielo delle schegge di ghiaccio.
Un profluvio di proporzioni impressionanti tanto fulmineo e veloce, da riuscire a ferirli fino a ucciderli.
Una tempesta di grandine che li avrebbe investiti e portati a una morte lenta e dolorosa.
Anche perché impossibilitati a trovare un rifugio utile per aver salva la vita.
Roopkund. La leggenda himalayana
A impreziosire questa teoria c’è un’antica leggenda tramandata tra le donne dell’Himalaya.
Leggenda che narra della furia di una Dea (Nanda Devi) che decise di castigare alcuni estranei che stavano profanando il suo Santuario.
Sussurrò l’anatema maledetto: “Farò piovere la morte su di loro”.
Scatenando così un temporale funesto con chicchi di pioggia duri come frammenti di ferro.
Casualità o strane coincidenze?
Quello che accomuna la leggenda con la tesi dichiarata dagli scienziati, non fa che rendere questo luogo ancora più enigmatico e oscuro.
Luogo dove il ghiaccio, il silenzio e il mistero custodiscono gli scheletri e le loro verità…
Fonti:
- Storie Notturne Insieme: “Roopkund, il lago degli scheletri”
- Fatti strani: “Il Lago Roopkund, l’inquietante specchio d’acqua colmo di scheletri…”
- Focus: “I misteri di Roopkund”
- Krishnadas: “Il Santuario del Nanda Devi”
- Montagna.tv:” Roopkund. Il misterioso lago degli scheletri che non…”
Centralia: la vera Silent Hill brucia da 60 anni
(Centralia) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 4 – Centralia: la vera Silent Hill brucia da 60 anni” su Spreaker.Tra gli amanti dei videogiochi a tema horror survival, Silent Hill rappresenta uno delle serie videoludiche più apprezzate di sempre.
Il prodotto immesso sul mercato nel 1999 è riconosciuto come un vero e proprio Cult e viene ritenuto anche il perfetto antagonista di un altro classico del genere: Resident Evil, un ulteriore successo nel settore dei videogiochi.
Nel corso degli anni entrambi i titoli, hanno avuto trasposizioni cinematografiche di successo, l’ultima in ordine di tempo è il reboot di “Resident Evil” uscito al cinema nel 2021.
Mentre dal videogioco di Silent Hill sono stati prodotti e commercializzati oltre ai film anche: fumetti, libri e romanzi. Insomma, un vero e proprio multimedia franchise.
Centralia. Ma cosa ha decretato il successo di Silent Hill?
Prodotto da Konami, è una delle poche serie in cui il protagonista è una “persona qualunque”.
Il giocatore ne prende il dominio, facendolo muovere tra le strade, le morti e le maledizioni della nefasta cittadina di Silent Hill.
Il gameplay di Silent Hill è molto semplice.
Si deve cercare di sopravvivere in questa ambientazione profondamente horror-gotica, provando a risolvere enigmi mentre si lotta per non farsi uccidere dalle forze del male che albergano tra gli edifici di questo lugubre centro urbano.
Uno degli elementi fondamentali che hanno decretato il successo della serie è, senza ombra di dubbio, la scenografia.
L’ambientazione infatti regala al giocatore (come allo spettatore del lungometraggio) uno scenario degno dei peggiori incubi.
Una tipica cittadina americana abbandonata e costantemente avviluppata nella nebbia più fitta che cela mistero, morte, segreti ed esecrazioni.
Centralia. E se Silent Hill esistesse davvero?
Ebbene sì cari lettori, Silent Hill non è solo frutto della fantasia degli ideatori del videogame! Si trova nello stato della Pennsylvania – più precisamente nella Contea di Columbia – e porta il nome di Centralia.
Ha una particolarità che l’ha resa spettrale e unica allo stesso tempo, Centralia è avviluppata nelle spire di un incendio che divampa e la consuma da 60 anni.
Centralia. La storia di Centralia
Centralia venne fondata intorno al 1750 da un gruppo di coloni, con il nome di Centerville. Essendo già presente nella zona un villaggio omonimo si decise – anche per ovviare a problemi di natura burocratica – di modificare il nome della cittadina in Centralia.
Durante la sua costruzione, i giacimenti minerari furono subito rilevati, ma le miniere iniziarono a essere aperte e sfruttate solo intorno al 1850.
È in questo periodo, infatti, che Centralia inizia a crescere e a fiorire a livello economico e demografico.
La capienza dei giacimenti minerari è molto estesa e importante tanto da autorizzare la costruzione di ben due linee ferroviarie per il trasporto del carbone estratto.
Nel corso dei decenni la città cresce, sino ad arrivare al 1960 con un conteggio demografico di circa 2000 abitanti.
Si poteva usufruire di un servizio postale, almeno due istituti bancari avevano le rispettive sedi in città.
Molti anche i negozi e gli Enti scolastici utili per la crescita e la formazione dei giovani -ad eccezione dell’Università.
Tre cimiteri, Chiese di culti diversi e ben due teatri.
Si sviluppa un centro cittadino di tutto rispetto che – grazie alle miniere – garantisce lavoro e prosperità.
Di pari passo all’accrescimento sociale e urbano di Centralia, si estende anche il suo sottosuolo. Epicentro del vero tesoro che la contraddistingue.
Si fa sempre più consolidata e ben collegata la rete di tunnel in grado di unire i diversi giacimenti aperti, per l’estrazione del carbone.
Centralia rappresenta la tipica cittadina americana degli anni 60 che assicura occupazione, servizi e tranquillità.
Sino al 1962, quando divampa un incendio in una delle miniere ormai in disuso che comprometterà per sempre la storia di questo luogo.
Centralia. L’incendio
Dell’incidente che modificò e compromise ineluttabilmente le sorti di questa cittadina, si conosce solo la datazione: 1962.
La storia narra che, su autorizzazione del comitato cittadino, un gruppo di volontari dei vigili del fuoco gettò dell’immondizia all’interno di una miniera chiusa e desueta, appiccando un incendio per poter smaltire il materiale.
Quello che non venne valutato fu che la portata delle fiamme all’interno di una miniera in disuso sì – ma comunque collegata alle altre – poteva alimentare senza sforzo un imponente incendio nel sottosuolo, adibito all’estrazione del carbone e ai tunnel di collegamento per il trasporto in superficie del minerale.
Una combustione che inizialmente sembrò essere domata dai pompieri cittadini, ma che in realtà continuò a fiammeggiare, arrivando anche nelle altre gallerie e nelle altre miniere.
Tutto il sottosuolo di Centralia fu investito dal calore alimentato dal suo stesso tesoro minerario.
Il terreno inizialmente coinvolto dalle fiamme raggiunse le zone adiacenti, ricche di antracite.
L’antracite è un carbone puro, con una presenza minima di acqua, zolfo, ossigeno e azoto.
Ha un elevato stadio di carbonizzazione, con una cospicua presenza di carbonio al suo interno).
…Una conflagrazione che aprirà voragini alle fiamme dell’Averno…
Le strade iniziarono ad aprirsi con crepe e baratri, eruttando fumo e calore.
Vennero inghiottite nel sottosuolo case private, edifici pubblici e auto. La vegetazione iniziò a seccarsi e morire, rendendo il paesaggio della cittadina sempre più tetro.
Molti abitanti fuggirono da quello che sembrava essere uno scenario spettrale. Centralia ardeva dalle sue fondamenta, modificando per sempre il suo aspetto e la sua storia.
Centralia. Due tentativi per spegnare l’incendio
Tentarono in diversi modi e in molte occasioni di spegnere l’incendio, ma non ci riuscirono in nessun modo.
Non tutti i cittadini decisero di lasciare subito le proprie abitazioni.
Alcuni resistettero fino a quando anche i fumi esalati dalla terra violata e sconquassata dall’incendio sottostante, non divennero tossici e pericolosi per i pochi abitanti rimasti.
Ma due vicende distinte e separate portarono alla fuga degli ultimi abitanti rimasti:
- La prima, nel 1979 quando: il proprietario di una pompa di benzina, avvertì un significativo aumento del calore del carburante dentro una delle cisterne di conservazione sotterranee. Misurandolo, arrivò a costatare che la temperatura del liquido sfiorava i 77°!!!
- La seconda, nel 1981 quando: il dodicenne Todd Tomboski, residente a Centralia, sprofondò dentro una voragine apertasi proprio sotto i suoi piedi. Fortunatamente le sue grida vennero ascoltate da un passante che riuscì a tirarlo fuori, giusto in tempo. Se Todd fosse rimasto ancora per pochi minuti incastrato in quel gorgo, sarebbe sicuramente deceduto per le esalazioni tossiche e l’estremo calore sprigionato dal terreno.
Queste due particolari cronache riportate nella storia della città, ci annunciano che di lì a poco, la cittadina rimase praticamente deserta.
Le autorità imposero l’evacuazione rendendo a tutti gli effetti Centralia inesistente.
Gli ultimi abitanti rimasti non superano la decina e nel corso degli anni, hanno avuto un permesso speciale per continuare a vivere lì; con l’obbligo di non poter lasciare in eredità a niente e nessuno, né la propria abitazione né la propria terra.
Centralia. La morte della città
Centralia è destinata a morire, ammantata tra i fumi densi e nocivi. Le voragini sul terreno hanno continuato a proliferare come ferite aperte in un paesaggio che è sempre più desolato e spaventoso.
Gli studi effettuati hanno dichiarato che l’incendio si protrae su 1600 mq di terreno e potrebbe continuare a rimanere vivo per oltre 250 anni!
C’è un’unica strada accessibile – che funge da entrata e uscita- la “Graffiti Highway” (denominata così per i disegni e le incisioni colorate lasciate dai turisti a ricordo del loro passaggio) che continua a condurre avventurieri e curiosi a visitare una delle città fantasma più famose d’America.
Tutte le altre vie di comunicazioni sono state chiuse e gli altri percorsi serrati con cumoli di terra.
Oltre alle poche abitazioni ancora in piedi, sopravvive alla tempra del calore una Chiesa, utilizzata tutt’oggi per le funzioni religiose.
Dal 2002 Centralia non ha più un proprio codice d’assegnazione postale, in pratica NON ESISTE!
Centralia. Misteriose presenze
Aleggiano su Centralia non solo i fumi di un incendio perennemente vivo, ma anche molte storie che la vedono protagonista di inquietanti vicende come quella narrata nel 1998 da Ruth Edderson, il quale dichiarò di aver visitato la città insieme ad alcuni suoi amici e di aver avvistato due bizzarri individui vestiti da minatori, apparire e svanire dinnanzi ai loro occhi, avvolti in un fumo denso e pesante.
Altri ancora affermano con sicurezza di aver avvertito presenze inquietanti durante il loro passaggio a Centralia, riportando sensazioni di turbamento e smarrimento.
Quel che è certo, è che la storia di questa cittadina opprime e ammalia nello stesso tempo. E mentre risuona l’eco del fuoco che brucia e del silenzio che aleggia, posso solo sussurrare:
Benvenuti a Centralia…Benvenuti a Silent Hill…
- Paesi Fantasma: Centralia, la vera Silent Hill
- GreenMe: Centralia, la città di Silent Hill esiste davvero
- Travel 365: L’incendio perenne di Centralia: la vera Silent Hill
- Orgoglio Nerd: La città di Silent Hill esiste davvero in Pennsylvania
- La scimmia pensa: La vera Silent Hill che brucia perennemente da 60 anni
- Wikipedia: Centralia
Dia de Los Muertos. La festa Messicana che celebra la vita
(Dia de Los Muertos) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura e Misteri e Leggende incredibili
Ascolta “Misteri e leggende incredibili. Puntata 1 – Il Dia de Los Muertos” su Spreaker.Il Dia de Los Muertos – il Giorno dei Morti – è la festa Messicana che per eccellenza è conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo, come una tra le celebrazioni più affascinanti e sentite che accompagnano i giorni a cavallo tra la fine del mese di ottobre e i primi giorni di novembre.
SOMMARIO
- Dia de Los Muertos. È come la festa di Halloween?
- Dia de Los Muertos. Cosa rappresenta davvero per i Messicani?
- Dia de Los Muertos. Da dove nasce questa festività? tra storia e leggenda
- Dia de Los Muertos. Ma cosa accade?
- Dia de Los Muertos. Cos’è l’Ofrenda?
- Dia de Los Muertos. Le città si vestono a festa
- Dia de Los Muertos. La Catrina
Periodo destinato al culto e al ricordo dei defunti, in gran parte del mondo. Il Dia de Los Muertos è la notte delle Anime, le quali attraverso un antico rituale tornano dal mondo dei morti per far visita ai propri cari.
Le famiglie infatti si riuniscono e i cimiteri, le case si adornano con candele, cibo e allegria. Si festeggia la morte che è sacra come la vita.
Ma ora andiamo a conoscere nel dettaglio questa festa millenaria e magnetica, caro lettore, e partiamo subito.
Dia de Los Muertos. È come la festa di Halloween?
Mi preme subito fugare questo dubbio che spesso può sopraggiungere visto il tema che accomuna le due celebrazioni.
A tal proposito è opportuno evidenziare che, a differenza delle atmosfere gotiche e cupe di Halloween ricorrenza tipicamente Americana – anche se ormai la globalizzazione l’ha resa comune a molte altre aeree del mondo lontane dagli Stati Uniti per storia e cultura, divenendo di fatto quasi un fenomeno globale – o della Festa dei Morti tipica della religione Cristiana essenzialmente più spirituale e riservata, il Dia de Los Muertos rappresenta una vera e propria festa che onora la periodicità perfetta e ineluttabile tra due elementi come: l’inesorabile morte e la forza tangibile della vita.
Un rito che si concretizza con del buon cibo, altari adorni di fiori, ceri e tanta musica popolare.
Durante i giorni del Dia de Los Muertos non si celebra la morte nei suoi toni oscuri e macabri, ma la si avvicina ancora di più alla vita stessa; entrambe infatti sono facce della stessa medaglia che contraddistingue l’esistenza di tutti gli esseri umani.
Nelle celebrazioni del Dia de los Muertos, chi festeggia cerca concretamente un modo per permettere alle anime ospiti nel “mondo dei morti” di tornare tra i vivi, almeno per una notte l’anno, per ritrovarsi di nuovo insieme.
Dia de los Muertos. Cosa rappresenta davvero per i Messicani?
Il Dia de Los Muertos nell’America Latina, ma soprattutto in Messico, è un vero e proprio rito che travalica la religione e si mescola alla vita sociale e culturale del Paese, diventandone l’emblema del folklore stesso.
È la festa che più esprime il sincretismo tra il culto pagano preispanico e la religione Cattolica importata dai Conquistadores.
La passione con cui il popolo organizza, vive e affronta ogni anno tale ricorrenza ha oltrepassato i confini nazionali fino a diventare un fenomeno agli occhi del mondo, tanto che l’Unesco nel 2008 l’ha dichiarato: “Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”.
Dia de los Muertos. Da dove nasce questa festività? tra storia e leggenda
Le origini del Dia de los Muertos si perdono nella notte dei tempi.
Elementi storici concreti ci dicono che ancor prima dell’arrivo dei Conquistadores Spagnoli, i popoli: Inca, Maya e Totonaca veneravano il legame imprescindibile che si cela tra la vita e la morte.
E i festeggiamenti organizzati già quei tempi volgevano al desiderio di far sentire i defunti ancora parte integrante della comunità.
Elemento ancora ben tangibile nelle commemorazioni moderne.
Sicuramente l’arrivo dei Colonialisti ha alterato le sfumature di tali riti, amalgamandole con materiale religioso e culturalmente diverso.
Ma a ben vedere, questo mix non ha fatto perdere il fascino al Dia de los Muertos anzi, l’ha spinto e concretizzato a tal punto da riuscire a cavalcare i secoli, permettendo ai Messicani di continuare ancora oggi a festeggiarlo e al resto del mondo di rimanere sempre più ammaliato da tale celebrazione.
Dia de los Muertos. Ma cosa accade?
Durante il Dia de los Muertos non si piange la morte, la si festeggia con rispetto, allegria e colore.
Generalmente i festeggiamenti hanno inizio il 28 Ottobre e terminano il 2 Novembre. Ogni singolo giorno è dedicato a una celebrazione particolare, ad esempio, il 28 Ottobre è la giornata in ricordo di chi è morto suicida o per incidente.
Mentre il 31, nella maggior parte delle comunità vengono onorate le morti dei bambini le cui anime, si crede, volino direttamente in cielo.
I restanti due primi giorni del mese di novembre, vengono consacrati per tutti gli altri defunti. L’attesa è talmente elevata che di solito le preparazioni alle celebrazioni, possono iniziare anche settimane prima.
Nel corso della notte delle anime i cimiteri “prendono vita”, i sepolcri vengono decorati con fiori dagli intensi profumi e dai colori caldi e decisi.
I fiori più usati sono quelli della Tagete, pianta erbacea appartenente alle graminacee che nasce e cresce in Messico e in America Centrale. Ai fiori di Tagete – chiamati anche Cempasuchil– dai brillanti petali arancioni e il profumo intenso e vibrante è legata una storia molto significativa, nella quale si sussurra siano proprio questi due elementi visivi e olfattivi talmente forti e impossibili da dimenticare da essere percepiti addirittura dalle anime stesse, le quali li utilizzano per seguire il sentiero tracciato dai vivi per far ritorno a casa.
In ogni abitazione che rispetti e festeggi il Dia de los Muertos, viene allestito un vero e proprio altare dedicato, che prende il nome di Ofrenda.
Dia de los Muertos. Cos’è l’Ofrenda?
L’Ofrenda (che tradotto, significa: Offerta, n.d.a.) è l’elemento cardine del Dia de Los Muertos, perché viene considerata il “portale” che permette al mondo dei vivi d’incontrare quello dei morti.
Sull’Ofrenda vengono posizionate ed esposte le foto dei defunti che s’intendono commemorare, ed è anche grazie a questo che le anime possono ritrovare la via di casa.
Ad arricchire l’altare ci sono sempre elementi simbolici che racchiudono significati specifici, come:
- l’incenso e il suo fumo che pervadono le stanze delle case, a simboleggiare le preghiere e la purificazione degli ambienti.
- le candele, che rappresentano il fuoco e la luce.
- le caraffe d’acqua per far rifocillare i defunti dopo il lungo viaggio di ritorno dall’aldilà, insieme a cibo prelibato e altre bevande semmai amate in vita, dal defunto.
- i semi di mais e cacao che interpretano sull’altare, la terra e i suoi frutti.
- i papel picado – carta velina ritagliata a forma di teschi – prettamente di colore giallo e viola a rappresentare il vento. Le cui tinte rispecchiano la dualità tra la vita e la morte.
- i fiori di Tagete.
In molte abitazioni oltre all’allestimento dell’Ofrenda, viene lasciata anche libera e pulita una camera da letto – nella maggior parte dei casi, quella padronale- dove le anime dei defunti possono riposare e riprendersi dalle fatiche del viaggio intrapreso.
I cibi e le bevande tipiche che si possono gustare sulle tavole imbandite sono:
i tradizionali “Pan de los muertos” -Pane dei Morti- e i “Calaveras” – Teschi di zucchero, dolci tipici che portano anche incisi i nomi dei defunti che si vogliono commemorare.
Inoltre tra i piatti serviti si possono anche assaggiare le famose empanaditas – fagottini di sottile pasta farcita solitamente con la zucca e aromatizzata all’anice, e i tamales – involtini di foglie di mais ripieni di carne macinata – già apprezzati ai tempi dei Maya e degli Atzechi.
Si può sorseggiare cioccolata calda, caffè e amaranto, degustare tequila e la famosa bevanda Mezcal meno conosciuta a livello internazionale della tequila, ma sicuramente più apprezzata e utilizzata dai messicani.
Quest’ultimi l’amano a tal punto da definirla, così: “el mezcal no te emborracha, te embruja”, ovvero: “il mezcal non ti ubriaca, ma ti strega”. Per secoli definita la “bevanda dei poveri”, è uno dei liquori più utilizzati durante le celebrazioni.
Anche la carismatica e iconica pittrice messicana Frida Kahlo si narra fosse molto amante del Mezcal, come della ricorrenza del giorno dei morti, tanto da celebrarla in modo solenne ogni anno.
Dia de los Muertos. Le città si vestono a festa
Le strade e i cimiteri delle grandi metropoli, come dei piccoli paesini, si popolano di colori, abiti eleganti e cappelli fantasiosi.
Copricapi che adornano i volti dei partecipanti spesso dipinti ad arte come se fossero delle “Calaca“(teschi), tornati a festeggiare.
Le Calacas inoltre sono figure da sempre presenti nella cultura Messicana, ce ne sono traccia già nelle incisioni dei Maya.
I Teschi vengono ritenuti simboli spirituali molto forti, messaggeri gioiosi e non funerei che testimoniano con il loro “sorriso” la pace e la serenità delle anime dopo il trapasso.
Un’altra figura a cui va tutta la nostra attenzione è la Calavera Catrina – la donna scheletro, Signora dei Morti- icona ufficiale del Dia de los Muertos.
Dia de los Muertos. La Catrina
Il personaggio della Calavera Catrina prende ispirazione dalla Signora dei Morti Atzeca. La sua creazione si deve al vignettista e illustratore messicano Jose Guadalupe Posada che, nel 1913, ne tratteggiò le iconiche sembianze per inserirla come soggetto nelle litografie di stampo satirico e politico.
La Calvera Catrina è rappresentata come un teschio ghignante e agghindato con un grande cappello appoggiato sul cranio e abiti sfarzosi in stile francese.
L’ispirazione da cui nasce questo personaggio ormai folkloristico, porta con sé un messaggio profondo e concreto, di stampo sociale e politico perché la Catrina inizialmente era stata disegnata come caricatura di una donna messicana dei primi dell’900 che rifiuta le sue origini native per cercare di omologarsi allo sfarzo e alle abitudini dell’aristocrazia europea.
Diventando di fatto una vera e propria provocazione satirica nei confronti di tutti quei Messicani che tentavano di imitare gli Europei.
C’è stato anche un altro messaggio che l’artista Jose G. Posada s’impegnò a promuovere attraverso la Calavera Catrina ovvero che: dinnanzi alla morte siamo tutti uguali e “Siamo tutti Teschi” (Cit.).
Dopo di lui anche il grande pittore Diego Rivera – marito di Frida Kahlo – dipinse in primo piano la Catrina. La inserì proprio tra lui e Frida, su uno dei murales più famosi di sempre: Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central (sogno di una domenica pomeriggio nel parco di Alameda – 1948)
“La morte è democratica, perché alla fine, la madre, la bruna, i ricchi o i poveri, tutte le persone finiscono per essere teschi”
Attualmente la Calavera Catrina risulta essere la maschera più amata e utilizzata dalle donne messicane durante i festeggiamenti.
Al Dia de Los Muertos sono legate anche bellissime ballate e poesie spensierate che vengono insegnate ai bambini sin dalla più tenera età.
Aiutandoli così sin da piccoli a comprendere che la morte non va temuta, ma rispettata e amata tanto quanto la vita.
Quello che contraddistingue il Dia de los Muertos dalle altre celebrazioni simili o similari è il coinvolgimento umano e sociale volto alla condivisione più pura di un messaggio che sconfigge il tempo e rende immortale l’amore e la morte con la stessa entità e potenza.
Permettendoci di non dimenticare che dinnanzi al trapasso siamo tutti uguali, come diventiamo unici e indimenticabili agli occhi di chi ci ha amato davvero sia in vita che dopo la morte.
- Pimp my trip: “10 curiosità sulla festa dei morti in Messico”
- Mi prendo e mi porto via: ”Dia de los Muertos: storia e significato di una bellissima tradizione messicana”
- Esquire.com: ”Il Dia de los Muertos è molto più di un Halloween messicano”
- Wikipedia: ”Il giorno dei morti (America)”
- Stories.weroad: ”Dia de los Muertos: 8 curiosità sul giorno dei morti in Messico e dove festeggiarlo”
- Mame – estetica metropolitana: ”Il Dia de los Muertos, un momento di gioia e colori ricorda la meraviglia di essere vivi”
- Il Giornale del cibo: ”Mezcal ancestrale distillato messicano: origini, riti e differenze con la tequila”
- Il Giardino del tempo: ”Tagate: storia, simbologia e tradizioni popolari”
- Dubitinsider.com: ”La Catrina è il simbolo della Morte”
- SpazioFeu: ”Calavera Catrina volto del Dia de Los Muertos, Simposio morte e rinascita”
Gli stupri fantasma in Bolivia
(Bolivia) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie
Bolivia. La storia di cui narro in questo mio articolo si tinge di parole inequivocabilmente difficili, come: abuso sessuale, violenza e ingiustizia.
Bolivia. Sventurate protagoniste di questo caso sono più di 130 donne – ma il numero in realtà, potrebbe essere stato molto più alto – della comunità Mennonita di Manitoba in Bolivia, vittime di ripetuti e brutali stupri all’interno della loro confraternita religiosa, tra il 2005 e il 2009.
Bolivia. Chi sono i Mennoniti
Bolivia. I Mennoniti rappresentano tra le Chiese Anabattiste quella più numerosa. L’anabattismo – deriva dalla parola greca ἀνα (di nuovo) +βαπτίζω (battezzare) ovvero ribattezzatori, in tedesco Wiedertäufer – è un movimento religioso di formazione cristiana che nasce in Europa durante il XVI secolo, in seguito alla rivolta di Munster. Nello specifico i Mennoniti devono il nome al loro fondatore, l’Olandese Menno Simmons (1496 – 1561), figura di spicco tra gli anabattisti, considerato altresì un eretico dai Cattolici.
I Mennoniti fondamentalmente auspicano per un ritorno della Chiesa alle proprie origini, privata dal vero verbo lasciato da Cristo, perché “contaminata” da lotte intestine per il potere e la troppa teologia. Rifiutano il battesimo (soprattutto sui neonati) e per comprendere appieno la loro quotidianità dobbiamo immaginarci fermi al ‘500, infatti rifiutano: il progresso, l’elettricità e ogni forma di modernità.
Sono isolati il più possibile dal resto del mondo, ma l’approccio che riservano a chi non fa parte delle loro comunità è sostanzialmente molto pacifico. È loro scopo creare una collettività dove si viva rispettando criteri di sobrietà e carità, seguendo rigide regole comportamentali.
La musica come i giochi sono preclusi e non esistono passatempi. Non possono guidare auto o avere internet. Sono vietati alcool e contraccettivi. I pilastri della comunità si concentrano nel culto, nel lavoro e nell’accudire la propria famiglia.
La (triste) vicenda che ho deciso di narrare ha il proprio epicentro in Sud America, qui i Mennoniti – secondo un censimento del 2013 – sono più di 70.000 e in Paesi come la Bolivia appunto, ma anche in Paraguay e in Messico si sono insediate le più fiorenti, dogmatiche e conservatrici congregazioni di tutta l’America del Sud.
Principalmente discendono da Mennoniti Russi di origini fiamminga, tedesca e frisona. La lingua parlata è il plautdietsch – definita anche basso tedesco mennonita – è un groviglio tra Olandese, Tedesco e Frisone ed è classificata come una delle lingue minacciate di estinzione. All’interno delle Comunità tutti si esprimono solo in plautdietsch, inoltre molto spesso le donne mennonite conoscono solo questo lessico.
Bolivia. La comunità Mennonita e i suoi Demoni
Bolivia. Per molto tempo le vittime degli stupri hanno taciuto sulle aggressioni per pudore e paura. Ma il susseguirsi delle violenze carnali ha fatto sì che iniziassero a serpeggiare all’interno di Manitoba, inquietanti storie su potenti Demoni capaci di rapire e aggredire brutalmente le donne, nel cuore della notte.
Soprattutto quando le stesse perseguitate compresero di non essere le sole a vivere queste atroci esperienze, infatti condividendo i loro tormenti molte scoprirono che anche le proprie sorelle, madri e addirittura figlie celavano racconti agghiaccianti che non potevano più essere taciuti.
Le violenze carnali si svolgevano dopo il calar delle tenebre, quando il sole lasciava il posto all’oscurità che, grazie alla totale assenza di elettricità, si posava come un pesante manto nero e oscuro sulle abitazioni, permettendo ai Demoni di sopraggiungere e colpire come meglio volevano e quanto potevano, all’interno della Comunità.
Gli unici indizi che testimoniavano quanto accaduto si palesavano al risveglio. Le donne erano totalmente prive di validi ricordi, ma con segni tangibili e orrendi della notte appena trascorsa. Il loro corpo era l’unico messaggero che testimoniava in maniera inequivocabile quanto avveniva durante il sonno, privo di sogni.
C’è chi si risvegliava coperta di ematomi e nuda -pur essendosi coricata vestita- chi, invece, aveva sperma e sangue sul fisico e tra le lenzuola, come indizi che qualcosa, o qualcuno, le aveva profanate nel modo più vile e crudele. In alcuni casi, le vittime ricordavano di aver avuto incubi nei quali alcuni uomini le possedevano con forza in un campo buio per poi al mattino, ritrovarsi fili d’erba tra i capelli arruffati.
Molte di loro oltre alla completa assenza di memoria, si ridestavano con cefalee persistenti e dolori articolari, segni di legature sulle giunture e un intorpidimento pesante da smaltire, che le lasciava confuse per ore. Le vittime accertate sono state molte e variavano da giovani ragazze a donne più mature, e persino bambine.
Il corpo abusato più giovane in assoluto è stato quello di una bambina di appena 3 anni, a cui hanno rotto l’imene con un dito.
Gli stupri fantasma nella comunità hanno ferito l’anima e il fisico di molte donne, senza distinzione di età o aspetto. I Demoni che colpivano lo facevano per il gusto maledetto di profanare e abusare delle proprie vittime, senza rispetto alcuno e nella più completa libertà di sentirsi talmente tanto al sicuro da esser certi di non poter mai essere scoperti.
Bolivia. Chi ha violentato le donne?
Bolivia. Se la storia degli stupri fantasma iniziò ad avere voce con dei sussurri appena percettibili, l’insistenza con la quale i tragici eventi continuavano a susseguirsi costrinse molte famiglie delle vittime a chiedere aiuto al Consiglio Ecclesiastico della Comunità, formato da un gruppo di uomini che vigila sulla congregazione.
Purtroppo neppure questo gesto fu un significativo strumento che mise fine alle violenze o aiutò a far luce sulla verità, perché esaustive dichiarazioni come questa rilasciate dall’allora capo laico della Comunità Mennonita:
“Sapevamo solo che di notte succedevano cose strane…Non sapevamo chi fossero. Come potevamo fermarli?” Abraham Wall Enns
lasciano poco spazio a dubbi su cosa e quanto si sia fatto per portare alla luce la verità e interrompere le aggressioni. È facile dedurre quindi che nessuno fece assolutamente nulla. Addirittura per giustificare questi assurdi fatti, si arrivò a ipotizzare che i Demoni colpissero per esempio chi non rispettava le austere regole all’interno della comunità. In alcuni casi si arrivò a pensare che la vittima avesse inventato tutto per coprire semmai una relazione clandestina; oppure ritennero più semplice additare le donne stuprate come soggetti con una “selvaggia immaginazione femminile”.
Nel Giugno 2009 venne finalmente scoperta l’identità dei Demoni di Manitoba. In realtà non avevano nulla di innaturale e mefistofelico! Erano due uomini della comunità colti in flagrante mentre tentavano d’introdursi in un’abitazione per compiere l’ennesima violenza carnale.
Durante l’interrogatorio iniziarono a confessare e anche grazie alle loro testimonianze, vennero arrestati altri nove uomini della comunità mennonita, di età compresa dai 19 ai 43 anni, che si dichiararono facenti parte del gruppo di stupratori seriali che dal 2005 colpiva nella comunità.
Durante le prime confessioni – che verranno in seguito ritrattate – raccontarono anche il modus operandi attraverso il quale riuscivano costantemente a rendere le vittime inermi e stordite a tal punto da non essere in grado di ricordare o di essere abbastanza attendibili da rilasciare valide testimonianze utili a una loro eventuale cattura, permettendogli di continuare a colpire indisturbati e a farla franca per così tanto tempo.
Il segreto era racchiuso in uno spray narcotizzante inventato da un veterinario di una comunità mennonita a loro vicina, prodotto per essere utilizzato sulle mucche, che gli aggressori usavano prima di colpire.
Dopo aver atteso che il buio calasse sulle abitazioni, entravano in azione spruzzando il composto chimico nelle finestre delle camere da letto dove dormivano la vittima prescelta e la sua famiglia. Attendevano che il potente rimedio facesse effetto per poi intrufolarsi nelle case e iniziare la mattanza. Potevano agire in gruppo o da soli, sempre col favore dell’oscurità.
La verità concreta e precisa venne palesata solo due anni dopo, nel 2011, quando ebbe inizio il processo che vedeva imputati questi uomini vili e meschini che diedero forma agli incubi peggiori, raccontando le nefandezze di cui si erano macchiati in tutti quegli anni.
Le deposizioni rilasciate furono orrende e dipinsero un quadro di violenze brutali. Anche se in via solamente ufficiosa, alcuni abitanti della colonia mennonita affermarono che a subire violenza carnale non furono solo le donne, ma anche uomini e ragazzi.
Gli imputati vennero ritenuti colpevoli e condannati a 25 anni di reclusione ciascuno, mentre il veterinario che li riforniva di spray anestetizzante fu condannato a 12 anni di prigione.
Come affermavo all’inizio del racconto, ufficialmente le vittime accertate sono state 130, ma si è sempre pensato che i numeri fossero più corposi e che la verità su cosa si celi dietro quest’inquietante storia non sia mai stata veramente svelata, visti i modi e i tempi di gestione della Comunità stessa, nei riguardi delle donne abusate.
Nessun supporto psicologico è stato offerto alle vittime, alle quali invece è stato imposto un impietoso silenzio disceso su tutta la comunità mennonita a seguito del verdetto di colpevolezza dei condannati:
“Ci siamo lasciati tutto alle spalle… Preferiamo dimenticare, piuttosto che continuare ad averlo stampato in testa.” Dichiarazione di Wall – leader civile della Colonia ai tempi dei processi.
Sono passati molti anni dagli eventi narrati eppure nell’incedere perenne del tempo, la storia ha più volte deciso di ricordare quest’angosciante vicenda, donando alle vittime degli stupri fantasma un vera e propria voce che inizialmente ha preso vita tra le pagine del bellissimo romanzo pubblicato nel 2018: “Donne che parlano”, di Miriam Toews – talentuosa scrittrice, nata in Canada in una comunità mennonita da cui fugge appena 18enne – nel quale l’autrice romanza la vicenda degli stupri fantasma nella setta mennonita boliviana; ispirando anni dopo il film: “Women Talking – il diritto di scegliere” candidato all’Oscar e già acclamato dalla critica e dal pubblico americano che esce nelle sale cinematografiche italiane, l’ 8 Marzo 2023.
Posso sinceramente suggerirvi di leggere il romanzo di Miriam Toews come di andare a vedere il lungometraggio ispirato dal libro, l’importante è non dimenticarsi di tutte le donne vittime degli stupri fantasma nella setta mennonita in Bolivia.
Il ricordo e l’attenzione permetteranno a questa storia di non ritornare ad essere solo sussurrata, perché è stata dannatamente reale tanto da non risultare così impossibile immaginare che quei Demoni siano ancora in mezzo a loro…
“Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata.
(Donne che parlano – Miriam Toews)
Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio,
non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo.
Siamo mennonite senza una patria.
Non abbiamo niente a cui tornare,
a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi.
Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni – per forza che siamo sognatrici”.
Fonti:
- The Universal: “Come vivono i Mennoniti, la comunità religiosa che rifiuta l’elettricità”
- Vice: “Gli stupri fantasma della Bolivia”
- Wikipedia: “I Mennoniti della Bolivia”
- Wikipedia: “I Mennoniti”
- Marcos Y Marcos: “Donne che parlano” di Miriam Toews
- La Repubblica: “Le figlie di Manitoba”