Skid Row, the other side of Los Angeles

Skid Row, the other side of Los Angeles

(Skid Row) Articolo scritto da Amelia Settele per Pillole di Cultura, Persone e StorieFatti e società e La Forza di indignarsi Ancora

Ascolta “La Forza di Indignarsi Ancora. Puntata 6 – Skid Row, the other side of Los Angeles” su Spreaker.

La città di Los Angeles – dopo New York City – è la seconda metropoli più grande d’America.

SOMMARIO

La città è celebre per essere il fulcro dell’industria cinematografica, per i quartieri lussuosi, la ricchezza ostentata. Senza dimenticare la celebre collina dove spicca l’iconico cartello “Hollywood”. Ma cela anche un lato oscuro e inquietante.

Skid Row. Accesso all’inferno

La mia penna aveva già sfiorato l’argomento, mentre vi raccontavo del Cecil Hotel e della sua triste storia.

Ora è giunto il momento di portarvi a Skid Row: il ghetto di Los Angeles.

Il suo nome – Los Angeles, la città degli Angeli – può trarvi in inganno.

Perché questa metropoli possiede anche le chiavi per le porte dell’inferno e Skid Row, è uno degli accessi.

Ufficialmente conosciuto come Central City East è un distretto della Downtown (centro amministrativo e geografico della città).

Ospita la più grande comunità di senzatetto stabili degli Stati Uniti.

il telefono del vento

Skid Row. Casa di 3000/5000 clochard

Nel quartiere vive una gremita comunità di clochard che si aggira tra le 3000 e le 5000 persone.

Qui governa la violenza, la coercizione e il pressante disagio di uno specchio sociale.

Che si scontra con vite graffiate, interrotte, consumate da droga, alcool, squilibrio mentale ed estrema povertà.

Le luci e i sogni di Los Angeles s’infrangono a Skid Row dove non si vive, si sopravvive.

Dove non si sogna, ma si lotta per mangiare e continuare ad avere almeno uno sputo di marciapiede da occupare e chiamare “casa”.

Ricettacolo e degrado.

Droga, alcool, prostituzione, giro di vite e lotta intestina per la sopravvivenza.

È fortunato chi può permettersi come alloggio al coperto una tenda da campeggio.

Mentre la maggior parte dei clochard scompare di notte in cartoni ammassati agli angoli più bui per cercare di proteggersi le carni e la dignità.

Skid Row. Sembra impossibile da recuperare

In questa realtà sociale sopravvive non solo solo chi ha ceduto tutto alle dipendenze delle droghe, oppure ai vizi che offre l’alcool.

Ci sono anche ex veterani di guerra, disabili mentali non pericolosi per gli altri.

E gente “semplicemente” sfortunata che ha perso: lavoro, casa, risparmi e la possibilità di poter ricominciare.

Da anni ormai il quartiere – un agglomerato di isolati a pochi minuti dai quartieri “bene” – sembra impossibile da recuperare.

Ci sono vicoli impraticabili da transitare per la sporcizia e l’indigenza imperante.

Feci ed urine appestano l’aria, dove banchettano mosche e prolificano batteri.

E il popolo di Skid Row continua ad arrancare e a sopravvivere. 

Ombre umane simbolo del decadimento di una società troppo caotica e occupata a non osservare queste creature sopraffatte dagli eventi e incapaci di recuperare.

Un perfetto set per i film sugli zombie.

SKid Row

Skid Row, ma come nasce?

Già nell’800 l’area urbana era presente a Los Angeles.

Il nome Skid Row indicava la strada utilizzata dai taglialegna per far arrivare i tronchi verso la costa.

Laddove poi venivano caricati sulle navi e spediti.

Con la grande depressione alla fine del 1929 – e il relativo crollo di Wall Street – il quartiere brulicava sempre più di emarginati, alcolizzati e di bordelli.

Con gli anni la popolazione aumentava, il degrado con lei.

Anche la fine della guerra in Vietnam (1975) e il ritorno a casa dei veterani, permise al quartiere di prosperare.

Perché molti reduci rientrati con fardelli insopportabili da gestire, non riuscirono a reinserirsi nella società e trovarono facile rifugio nel quartiere.

Nel corso degli anni, diverse amministrazioni comunali hanno cercato d’intervenire.

Rendendo la presenza massiccia delle forze dell’ordine un monito per gli abitanti del quartiere.

Ma quello che accade a Skid Row è pesante, pressante e non è di facile risoluzione.

Gli anni infatti passano, ma lo scenario non cambia.

Ancora oggi osservare Skid Row e i suoi “ospiti” rende chiaro che il girone infernale che rappresentano non può essere dimenticato né sottovalutato.

Visto che rappresenta non solo il fallimento di una metropoli, ma della società tutta.

Noi compresi.

Skid Row


Fonti:

  • La Stampa: Skid Row, il quartiere fantasma che assedia le luci di Los Angeles
  • Los Angeles Times: L.A. settles homeless rights case, likely limiting ability to clear skid row streets
  • Company People: Skid Row la zombie area di Los Angeles
AMELIA SETTELE

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25 novembre SPECIALE. Giulia, come le Altre

(25 novembre) Articolo scritto da Amelia Settele per Fatti e Società

ASCOLTA L’AUDIO LETTURA

25 novembre. In collaborazione per la rubrica La Forza di Indignarsi Ancora Radio C.S.D.R. trasmette l’audio lettura di questo articolo dal titolo Giulia, come le Altre, pezzo dedicato a tutte le donne vittime di femminicidio.

SOMMARIO

25 novembre. Giulia, un’altra vita spezzata che ingrossa le file dei femminicidi

Vigonovo, provincia di Padova: Giulia Cecchettin è una Dottoressa, laureata in ingegneria Biomedica. Lei, suo padre e i suoi fratelli – Elena e Davide – sono una famiglia molto unita, costretta a vivere anche nel dolore nato dalla prematura scomparsa della madre. Giulia ha un ex fidanzato, Filippo Turutta.

Roma: l’avvocata Martina Scialdone ha 35 anni, professa il suo lavoro con passione ed è specializzata in diritto di famiglia. Ha un rapporto solido e forte con i suoi familiari. Ha da poco interrotto una relazione sentimentale con Costantino Bonaiuti.

Cerreto d’Esi, provincia di Ancona: Concetta Marruocco è un’infermiera di 53 anni da tutti chiamata Titti. Originaria di Torre del Greco (Napoli) continua a vivere nell’appartamento nel centro cittadino anche dopo la separazione dal suo compagno, Franco Panariello.

25 novembre. Chi sono queste donne così apparentemente diverse tra loro? E perché fanno parte di questa storia?

L’unico triste denominatore che le accomuna – come molte altre donne che riempiono ogni giorno una lista sempre più lunga – è quella di essere state vittime di femminicidio da parte dei loro rispettivi ex compagni. Ad armare le mani di chi ha strappato loro le vite, i sogni, gli affetti sono sempre questi uomini (o pseudo tali) che con maligna determinazione irrompono un’ultima sanguinosa volta nelle loro esistenze, per cercare di estorcere attenzione e possesso, fino a stringerle nel loro ultimo respiro.

So bene di averle descritte utilizzando un tempo presente, come se le loro vite fossero cristallizzate in un flash temporale in cui neppure la ferocia dei loro assassini, può alterarne il destino che avrebbero avuto il diritto di vivere. Ma c’ho non toglie che la verità è un’altra, che ci conduce verso una sola triste realtà che purtroppo conosciamo tutti: il femminicidio.

25 novembre. Cos’è il Femminicidio?

Il Femminicidio è la forma più estrema di violenza di genere contro le donne. Pertanto tutti gli omicidi dolosi o preterintenzionali in cui una donna viene assassinata da un uomo per motivi basati sul genere, devono essere identificati come tali. Per forma di genere, invece, s’intende qualsiasi forma di violenza contro una persona solo per il fatto di appartenere al genere femminile.

25 novembre. Il Femminicidio in Italia fa sempre più vittime

Secondo i dati rilasciati dal Viminale solo nel 2023 nel nostro paese sono stati commessi ben 286 omicidi di cui 103 sono donne. 54 di loro sono state ammazzate da chi diceva di amarle, dai loro compagni o ex.

Una lista lunghissima che si alimenta di donne e del loro sangue, della loro fiducia verso chi, invece, voleva solo possederle fino alla morte.

Con un ritmo di quasi 1 femminicidio ogni 3 giorni, questi omicidi continuano ad appesantire gli occhi di lacrime e la coscienza di tutti noi, allungando una lista di vite spezzate che non dovremmo mai dimenticare.

La recente tragedia di Giulia Cecchettin ha riacceso il dibattito su questa vera e propria piaga sociale che delinea uno scenario per le donne, sempre più difficile da vivere e affrontare.

Mentre l’indignazione e il cordoglio si uniscono ancor di più in questo giorno di novembre, dedicato proprio alle vittime di femminicidio, nessuna donna è al sicuro. Spetta a noi tutti ricordarle non solo adesso, ma sempre. Giulia come tutte le Altre sono lo specchio di un disastro mimetizzato in una relazione sentimentale tossica e malata, tale da condurle alla morte. In memoria di queste madri, figlie, sorelle, nipoti dobbiamo trovare tutti noi la giusta dose di forza per aiutarle a fuggire e a denunciare chi finge di amarle mentre impugna un’arma sempre più affilata che distrugge i loro sogni, la loro dignità e il loro futuro. Per ogni femminicidio, la nostra società perde filamenti di luce e umanità.

Le donne hanno una voce e troppo spesso, invece, sono costrette a gridare in silenzio. Spezziamo questa catena in nome di Giulia come delle Altre.

“Se domani sono io, se domani non torno, mamma distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.” (Cristina Torres Caceres. Perù, 2011)

Fonti:

  • Femminicidioitalia.info
  • Notizie.it: Femminicidi
  • Rainews: Omicidio Giulia Cecchettin

25 novembre. NUMERI E INDIRIZZI UTILI

Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza

  • Numero verde 1522
  • Carabinieri – 112
  • Polizia di Stato – 113
  • Emergenza sanitaria – 118
25 novembre
AMELIA SETTELE, 25 novembre

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25 novembre. Diciamo STOP alla violenza sulle donne

(25 novembre) a cura di Ileana Aprea e Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società

25 novembre. La piaga del femminicidio sempre più viva

25 novembre. Ascolta la trasmissione completa

Ascolta “SPECIALE 25 novembre. Diciamo STOP alla violenza sulle donne” su Spreaker.

25 novembre. NUMERI E INDIRIZZI UTILI

Rete Nazionale Antiviolenza a sostegno delle donne vittime di violenza

  • Numero verde 1522
  • Carabinieri – 112
  • Polizia di Stato – 113
  • Emergenza sanitaria – 118
25 novembre

25 novembre. Al messaggio lanciato con questa trasmissione si uniscono tutti i collaboratori delle nostre redazioni: Stefano F., Amelia Settele, Cecilia S.D. Rossi, Ileana Aprea, E.T.A. Egeskov e tutti i tecnici che ringraziamo per il preziosissimo aiuto che forniscono per la realizzazione delle trasmissioni radiofoniche e televisive.


csdr.writingservices@outlook.it

radio C.S.D.R., 25 novembre

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25 novembre
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25 novembre

Messico: acqua potabile razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!

(Messico) Articolo scritto da Amelia Settele per Persone e Storie

La città di San Cristobal de las Casas fu fondata nel 1528 e nel periodo coloniale spagnolo divenne capitale del Chiapas. Il Chiapas è uno dei 21 Stati che costituiscono la Repubblica Messicana e attualmente è una delle zone più povere della Nazione. 

A San Cristobal de las Casas in Messico l’acqua potabile è razionata, ma c’è sempre la Coca Cola!

SOMMARIO

Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN

Messico. Una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN

San Cristobal spesso viene citato perché luogo dove il 1° Gennaio 1994 durante l’occupazione dei sette comuni, il Sub Comandantemarcos – rivoluzionario, ex portavoce dell’esercito Zapatista di liberazione nazionale (EZLN) movimento armato clandestino di stampo anarchico, indigenista e anticapitalista – lesse la prima dichiarazione della Selva Lacandona, attraverso la quale proclamava i diritti del proprio movimento e dichiarava guerra al Governo Messicano colpevole tra l’altro, di aver firmato il trattato TLC (Tractado de Libre Comercio – Trattato di libero commercio) con il Canada e gli Stati Uniti d’America.

Purtroppo oggi San Cristobal de las Casas risalta agli onori della cronaca per avvenimenti che la coinvolgono e che sotto alcuni aspetti rispecchiano una realtà preannunciata e combattuta dal movimento EZLN, il quale lottava con forza e vigore per la propria libertà e contro ogni forma di colonialismo e sfruttamento.

Messico

Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte: prima contro la schiavitù, poi, durante la Guerra d’Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli, poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo Nord Americano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma, il popolo si ribellò e emersero i suoi leader come Villa e Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione; così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, ne’ terra, ne’ lavoro, ne’ assistenza sanitaria, ne’ cibo, ne’ istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici, ne’ vi è indipendenza dallo straniero, ne’ vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Ma oggi noi diciamo BASTA!”

Comando Generale dell’EZNL – Selva Lacandona, Dicembre 1993

Quello che di sicuro sta accadendo agli abitanti della cittadina è preoccupante e indica una forma di “colonialismo” silente e astuta, rendendo i motti del movimento sopracitato solo echi lontani e indistinti perché, nella cittadina esiste e persiste un grande problema, l’acqua potabile – un bene primigenio ed essenziale per la vita sulla terra. 

Della sua indispensabile importanza ne avevo già scritto nel mio articolo: Flint Town e i suoi eterni veleni”, ma purtroppo m’imbatto sempre più spesso in storie in cui questo elemento primordiale ed essenziale per tutti, rischia di venire meno.

Proprio come in questa vicenda che non smette di stupire.

Messico

A seguito di una rapida urbanizzazione, di strutture idriche obsolete e di pericolosi cambiamenti climatici che ormai sono fautori di disastri immediati e a lungo termine, la cittadina di montagna ha visto diminuire vertiginosamente le scorte idriche utili alla vita quotidiana.

L’acqua potabile che confluisce nelle tubature della rete idrica cittadina, dev’essere sistematicamente razionata.

I pozzi non coprono il fabbisogno della popolazione, decretando una crisi che sembra possedere tutti i requisiti per avere un apogeo irreversibile.

Le condizioni che detta questa crisi idrica implicano e coinvolgono aspetti della vita sociale, politica e sanitaria dell’intera comunità di San Cristobal de las Casas tali da non poter essere sottovalutati.

L’acqua viene razionata anche perché gli impianti di depurazione non hanno le caratteristiche utili e conformi per filtrare l’approvvigionamento adeguato alle necessità del popolo.

La situazione è avversa a tal punto che gli abitanti di San Cristobal preferiscono attendere l’arrivo dei camion cisterna per avere un minimo di scorta nel proprio domicilio, mentre per dissetarsi acquistano bottiglie su bottiglie di… Coca Cola!

Messico. Ma non sarebbe più semplice acquistare – ma soprattutto bere – acqua confezionata, invece della Coca Cola?

Ebbene, NO! Perché l’acqua imbottigliata ha un costo maggiore rispetto alla famosa bevanda simbolo del capitalismo mondiale.

Messico

Le ripercussioni che agevolano (almeno all’apparenza) il budget familiare, si ripercuotono però su quello della salute.

Tant’è che le ricerche effettuate sul reale consumo di Coca Cola che dilaga tra gli abitanti di San Cristobal, hanno evidenziato un preoccupante aumento delle malattie metaboliche.

Soprattutto diabete e obesità.

Inoltre è estremamente inquietante il coinvolgimento dei bambini che sin dalla più tenera età compromettono le proprie condizioni fisiche sorseggiando Coca Cola, anziché limpidi e salutari bicchieri d’acqua.

Le stime sull’abuso della bevanda lasciano sgomenti.

La gran parte della popolazione di San Cristobal ingerisce un quantitativo giornaliero pari almeno a 2 lt di Coca Cola al giorno. 

Da uno studio effettuato sulla popolazione si è accertato che tra il 2013 e il 2016 l’aumento di casi di diabete è stato pari al 30%.

La maggior parte delle famiglie hanno al loro interno almeno un consanguineo affetto da questa patologia. Il diabete è la seconda causa di morte nel centro abitato nella zona meridionale del Messico.

È lecito e logico pensare subito: ma se c’è una crisi idrica tale da dover razionare la fornitura d’acqua alla popolazione, da dove arriva l’acqua utilizzata per preparare la Coke?

Messico. La risposta si racchiude in un’unica parola: Femsa.

La FEMSA – Fomento Económico Mexicano, S.A.B. de C.V. – è una multinazionale messicana fondata nel 1890 da cinque imprenditori (Isaac Garza, José Calderón Penilla, José A. Muguerza, Francisco Sada Gómez e Joseph M. Schnaider) che diedero inizio a quest’avventura, aprendo il birrificio “Cuauhtémoc Ice and Beer Factory”, a Monterrey, NL, Messico. 

Da quel momento in poi la FEMSA non si è più fermata. È diventata la multinazionale messicana che su scala mondiale vanta impegni nel settore della ristorazione e delle bevande.

È la seconda maggior azionista della Heinken International ed è la più grande azienda imbottigliatrice di Coca Cola al mondo.

Ora cari lettori, dopo aver compreso e chiarito in grandi linee cos’è l’azienda FEMSA, torniamo a dare il giusto spazio al vero protagonista di questa storia: il popolo assetato.

Un’intera comunità che – anche attraverso la divulgazione di pubblicità ingannevoli – continua a bere Coca Cola come se fosse acqua; mentre l’acqua continua a essere razionata e mal distribuita.

Messico

Ma se l’acqua scarseggia, come riesce la FEMSA ad imbottigliare galloni e galloni di Coca Cola da far arrivare in quantità decisamente importanti a San Cristobal de las Casas, risparmiando a tal punto da far diventare più economico una confezione di Coca Cola, rispetto a una d’acqua?

Semplice, l’impianto locale della Coca Cola – sempre di proprietà della FEMSA – ha autorizzazioni utili per accedere alle riserve d’acqua della zona da poter utilizzare per essere depurate, addolcite e alterate fino a trasformarsi nella bevanda dal leggendario marchio rosso e bianco.

Messico, l’acqua alla multinazionale ma non ai cittadini!

La multinazionale può e ha accesso all’acqua, arrivando a poter utilizzare circa 300.000 litri al giorno da fonti idriche locali. La comunità di San Cristobal no.

I residenti del paesino situato tra le Montagne della Sierra Madre contestano, si lamentano anche e soprattutto quando si parla della salute sempre più compromessa della loro comunità. La FEMSA attraverso i suoi rappresentanti legali nega ogni responsabilità.

Imputabilità che rigetta attraverso dichiarazioni come questa, pubblicate dal New York Times, attribuite a uno dei dirigenti della FEMSA: “ha respinto le critiche che le bevande della compagnia abbiano un impatto negativo sulla salute pubblica. I messicani, ha detto, possono avere una propensione genetica verso il diabete“.

È imperativo che non ometta quanto sia ormai diffuso l’utilizzo delle bevande gassate e zuccherate come la Coca Cola (chiamate refrescos) su tutto il territorio Nazionale Messicano.

Messico, solo la punta dell’iceberg

Sotto certi aspetti, la storia di San Cristobal de Las Casas è solo la punta dell’iceberg perché negli anni il Messico ha scalato in modo celere la triste classifica dei Paesi consumatori di Coca Cola.

È secondo solo agli Stati Uniti d’America.

Resta il fatto che mentre gli abitanti di San Cristobal continuano ad attendere che l’acqua torni a poter essere utilizzata in modo concreto e giusto, la FEMSA continua a imbottigliare e a distribuire la famosa bevanda – frutto di una ricetta ancora oggi segreta – in quantità anche superiori alle reali necessità del luogo, mixando al sapore dolciastro e frizzantino famoso in tutto il mondo, l’amaro retrogusto di un subdolo capitalismo.

Fonti:

  • Ciboserio: “Messico: intera città beve Coca Cola, perché manca l’acqua”
  • Ytali: ”Chiapas, senz’acqua ma con la Coca Cola”
  • L’Indro: “Il governo Messicano ha sete di Coca Cola”
  • Femsa.com
  • SBS News: This small town in Mexico is addicted to Coca-Cola. It also grapples with a deadly disease.
  • Voices: San Cristobal de las Casas, the Mexican town that drank more coke than water
AMELIA SETTELE

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Caregiver as a new Hero. L’anima allo specchio on radio.

(Caregiver) a cura di Ileana Aprea e Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società

In questa prima puntata della rubrica radiofonica L’anima allo specchio la dottoressa Ileana Aprea e Cecilia Simona Domenica Rossi affrontano la tematica del caregiving, una condizione molto diffusa in Italia e destinata ad aumentare nel corso degli prossimi anni.

Caregiver, chi è e cosa comporta questa scelta di vita

Ma chi è esattamente un caregiver? e cosa comporta il carico fisico ed emotivo di tale condizione?
Le due conduttrici analizzando i dati rilevati nel nostro Paese e cercano di approfondire la condizione del caregiver da un punto di vista umano e psicologico.

Caregiver. Ascolta la trasmissione completa

Puntata 1. L’anima allo specchio. Parliamo di Caregiving.

Caregiver. Indirizzi Utili

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Hijab. In Iran il velo indossato male può uccidere!

(Hijab) Articolo scritto da Cecilia S.D. Rossi per Fatti e Società

Può un velo uccidere? il modo in cui viene indossato evidentemente sì! lo dimostra la notizia della terribile vicenda accaduta a Mahsa Amini, la ventiduenne iraniana che è morta dopo essere stata fermata dalla “Gasht e Ershad” (la “polizia della morale” iraniana) e portata alla stazione di polizia per una “rieducazione” perché il velo che indossava non copriva completamente i suoi capelli.

SOMMARIO

Iran. Martedì 13 settembre 2022.

Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran della “polizia della moralità iraniana” perché indossava il velo in “modo scorretto”.

Hijab. Un fatto di ordinaria follia

Ossia il suo hijab non copriva completamente i capelli.

Fermata dalla polizia iraniana e trattenuta per una “rieducazione” ha lasciato la stazione di polizia dopo alcune ore per essere trasferita all’ospedale di Kasra, dove è morta dopo tre giorni di coma.

“La ragazza ha avuto un infarto”, questa è la versione ufficiale delle forze dell’ordine.

Versione contraddetta dalla famiglia che ha dichiarato che la giovane Mahsa godeva di ottima salute.

Una versione quantomeno controversa anche in virtù di fotografie che sono circolate.

Immagini che ritraggono il corpo e il viso della giovane donna, intubata in un letto di ospedale, chiaramente tumefatti e provati.

Hijab

Da parte del presidente iraniano Ebrahim Raisi è stato ordinato di aprire un’inchiesta per far luce sulla vicenda.

L’intervento di Amnesty International che parla di “arresto arbitrario” e di presunte torture durante la detenzione.

Hijab. L’indignazione

L’indignazione per la terribile storia di Mahsa Amini ha fatto il giro del mondo, a partire da diversi media iraniani indipendenti.

Le persone si sono radunate in segno di solidarietà e come azione di protesta presso l’ospedale Kasra.

Hijab

Il supporto dei mezzi mediatici e dei social hanno permesso la diffusione di quanto stava accadendo e la conferma della massiccia presenza di agenti di sicurezza all’esterno della clinica. 

Il nome di Mahsa è diventato virale sui social network, anche grazie all’intervento di diverse personalità iraniane di rilievo che hanno denunciato quanto accaduto. 

La giovane arrivava dal Kurdistan iraniano ed era giunta a Teheran per far visita ad alcuni parenti.

Un viaggio che avrebbe dovuto essere di piacere ma dove la ragazza a trovato una morte prematura solo perché il suo velo non copriva completamente i capelli.

Hijab. Il codice di abbigliamento in Iran

In rete a tutt’oggi si trovano immagini di militari che trattengono le donne, le costringono con la forza a seguirli e le portano via.

Proteste di donne che vengono soffocate nella violenza, donne che protestano solo per il diritto di scegliere.

Perché di questo si dovrebbe trattare, di poter scegliere se indossare o meno un velo, ma per quelle donne la scelta non è nemmeno contemplata. 

Le leggi sull’hijab a partire dal 1979, a seguito della rivoluzione islamica, obbligano ogni donna mussulmana dall’età di nove anni in poi a indossare il velo in pubblico. 

Leggi che a oltre quarant’anni di distanza non sono mai cambiate.

Siamo di fronte a un profondo passo indietro delle autorità iraniane contro le donne che osano sfidare l’obbligo di indossare il velo. L’annuncio della polizia pone molte donne a rischio di subire condanne ingiuste e ammonisce in modo agghiacciante tutte le altre a stare calme e al loro posto mentre i loro diritti vengono violati”.

Così dichiarava nel 2018 Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord a seguito del comunicato stampa emesso dalla polizia iraniana .

Hijab

Comunicato che informava come decine di donne avrebbero potuto trascorrere fino a dieci anni in carcere per aver partecipato a manifestazioni contro l’obbligo del velo.

L’accusa? incitamento alla corruzione e alla prostituzione!

Hijab. Una chiara violazione dei diritti umani fondamentali

L’hijab che copre il capo è solo uno dei tanti veli utilizzati dalle donne islamiche.

Vengono utilizzati anche il niqab, che copre anche il volto lasciando una fessura per gli occhi e il burqa, che copre anche gli occhi con una rete attraverso la quale la donna vede il mondo esterno. 

Le leggi che in Iran obbligano ogni donna e ogni bambina che abbia superato i nove anni a indossare il velo esistono da oltre quarant’anni nonostante secondo il diritto internazionale la legislazione iraniana costituisca una chiara violazione dei diritti umani fondamentali.

L’obbligo di indossare il velo infatti è una costrizione profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e delle ragazze.

Violati i diritti fondamentali

Viola i diritti delle stesse alla libertà di espressione, di pensiero, di coscienza e di credo religioso.

Oltre a violare il diritto alla riservatezza e, considerando che l’obbligo vige dai nove anni in poi, viola anche alcuni specifici diritti delle bambine.

Hijab

L’obbligo imposto dalle autorità iraniane alle donne e alle ragazze di coprire i propri capelli, esercitato anche attraverso azioni di violenza e umiliazione, nonché con arresto e prigionia, viola profondamente la dignità diventando anche, in termini giuridici, pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

Comportamenti che causando dolore o sofferenza, sia fisica che mentale, costituiscono a tutti gli effetti una tortura.

A tutt’oggi, però, le leggi che obbligano le donne a indossare il velo continuano a intensificarsi e inasprirsi, secondo la Bbc Persian nel nord-est dell’Iran, a Mashhad, è stata emessa un’ordinanza che impedisce alle donne di accedere a uffici e banche come di entrare in metropolitana senza indossare il velo.

Perfino la banca iraniana Mellat impone ai dipendenti un codice di abbigliamento severo vietando di indossare calze e tacchi alti per le donne e vieta ai dirigenti uomini di avere assistenti amministrative di sesso femminile.

Hijab. Per capire l’obbligo del velo

Negli ultimi anni le proteste contro l’obbligo dell’utilizzo dell’hijab si sono moltiplicate, forse anche per una forma di ribellione per quel passo indietro nell’evoluzione fatto tornando a indossare un velo dopo tanti decenni in cui l’obbligo era stato abolito.

Per capire l’imposizione di indossare il velo in Iran bisogna risalire alla rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini.

Nonostante il Corano prescriva realmente l’obbligo di indossare il velo, imponendolo a tutte le donne dei credenti (pertanto alle donne mussulmane, considerando il concetto radicato che i credenti siano solamente mussulmani, n.d.a.):

O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso.

CORANO 33, 59

l’hijab è stato sfruttato più che per una valenza religiosa come uno strumento politico diventando una sorta di arma da brandire in rappresentanza della resistenza contro Mohammad Reza Pahlavi l’ultimo scià di Persia e ultimo monarca della dinastia dei Pahlavi che ha regnato sull’Iran fino al 1979, allo scopo di dichiarare l’opposizione alla modernizzazione e ai modelli imposti dallo scià.

Strumento politico contro lo shah

Già il fondatore della dinastia Reza Shah Pahlavi (padre e predecessore di Mohammad, n.d.a.) riteneva il velo iraniano e i costumi tradizionali maschili un segno di arretratezza e cercò di modernizzare i costumi del popolo iraniano.

L’istituzione religiosa del Paese si oppose con decisione al tentativo di modernizzazione dello scià che però vietò comunque alle donne di indossare il velo.

Decisione che sollevò notevole malcontento tanto che il 12 luglio del 1935 a Mashhad venne consumata una strage per eliminare le persone che avevano protestato contro Pahlavi.

Quella data è stata poi scelta per istituire la Giornata dell’hijab e della castità, che si celebra a tutt’oggi. Reza Shah Pahlavi venne poi esiliato nel 1941 (non per questioni legate all’obbligo del velo, n.d.a.).

Quattro anni dopo la rivoluzione islamica del 1979 venne istituita la Sharia e proprio secondo una legge della Sharia è stato ripristinato l’obbligo per tutte le donne, le ragazze e le bambine sopra i nove anni, di indossare l’hijab.

Da allora il velo ha continuato ad essere uno strumento di controllo sociale utilizzato dalle autorità.

Per correttezza bisogna informare che esiste anche un corrispondente maschile di questa imposizione ma decisamente meno impegnativo e vincolante, ossia agli uomini non è permesso indossare pubblicamente pantaloni corti o maglie che sfoggino simboli occidentali.

Hijab. Nuovi decreti, nuove restrizioni


Il 15 agosto del 2022 il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha firmato un nuovo decreto dove viene riportato un ulteriore elenco di nuove restrizioni in merito al codice di abbigliamento delle donne iraniane al fine di far rispettare la legge sull’hijab e sulla castità.


Nel mese di settembre del 2022, a seguito della nuova legge, l’Iran ha deciso anche di introdurre una nuova tecnologia di riconoscimento facciale sui mezzi pubblici con lo scopo di identificare le donne che non rispettano la legge e non indossano il velo.
Forse un giorno si riuscirà a vivere in un mondo dove i diritti umani fondamentali non vengano violati, dove chi osa alzare la testa e dire di non essere d’accordo possa essere ascoltato e magari rispettato, dove una donna possa essere libera di camminare per strada senza dover nascondere i suoi capelli ma soprattutto che non sia costretta a subire umiliazioni e torture (sia fisiche che psicologiche) schiacciata da regole imposte da altri che non la ritengono nemmeno degna di avere dei diritti.
Al momento in cui questo articolo viene scritto sembra che un simile traguardo sia ancora lontano.
Nonostante da anni si susseguano proteste di ogni genere per l’abolizione dell’obbligo del velo queste finiscono inesorabilmente soffocate nella violenza e quelle donne che si permettono di protestare per rivendicare i propri diritti si ritrovano poi costrette a pagare un prezzo altissimo, dalla reclusione, alla fustigazione, all’umiliazione di dover chiedere scusa pubblicamente o, nel caso peggiore, come quello di Mahsa Amini, addirittura alla morte.

Fonti:

6/09/2022. La Stampa. Iran: portava male il velo, 22enne morta dopo arresto della “polizia della moralità”. Si scatena la protesta
16/09/2022. Il Giornale. Indossava male il velo: 22enne picchiata e uccisa dalla furia islamista di Valentina Dardari
16/09/2022. La Repubblica. Iran, proteste per la morte di una ragazza fermata dalla polizia perché non indossava correttamente il velo di Gabriella Colarusso
16/09/2022. Corriere della Sera. Iran, ragazza di 22 anni picchiata a morte perché non indossava bene il velo. Proteste nella capitale e sui social di Marta Serafini
16/09/2022. Il Secolo XIX. Iran: portava male il velo, 22enne morta dopo arresto della “polizia della moralità”. Si scatena la protesta
16/09/2022. Il fatto quotidiano. Iran, picchiata a morte perché indossa male il velo: in un’immagine tutta la brutalità del regime di Tiziana Ciavardini
16/09/2022. Il sussidiario. Picchiata a morte perché indossa male il velo. Iran, Mahsa Amini era stata arrestata di Chiara Ferrara
16/09/2022. RaiNews. Muore in custodia della polizia religiosa la ragazza iraniana che non indossava bene il velo
12/09/2022. Solo Donna. Iran: al via il riconoscimento facciale per identificare le donne senza hijab di Rachele Luttazi
24/08/2022, Il Giornale. “Obbligo di velo, violata la legge”. Scrittrice costretta a confessare in tv
14/07/2022. La svolta. La rivoluzione del velo in Iran di Chiara Manetti
8/03/2020. Metropolitan magazine. Donne, 1979: l’ultimo giorno senza velo in Iran di Maria Paola Pizzonia
5/06/2019. Unimondo.org. Iran, il velo obbligatorio e la battaglia delle donne: una storia lunga 40 anni
23/05/2019. Osservatorio Diritti. Iran: la lunga lotta delle donne contro il velo obbligatorio di Giulia Cerqueti
12/03/2019. Amnesty International. Iran, aggressioni di squadre filogovernative contro le donne che protestano contro uso obbligatorio del velo
27/02/2018. Amnesty International. Obbligo del velo in Iran, oltre 35 donne rischiano fino a 10 anni
6/01/2018. Magdi Cristiano Allam. Il velo alle donne islamiche lo impone Allah nel Corano. Solo la laicità può tutelare la vita, la dignità e la libertà di tutti

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